info@abcveneto.com

abcveneto.com mensile telematico
N. 61, VI anno, 2008 Mercoledì 1 Aprile  2009
 
 
 


  X capitolo di Panta Rei

Di Maria Prosdocimo

L’anno scolastico era quasi giunto al termine; mancavano oramai pochi giorni all’inizio delle vacanze estive, giugno era alle porte e gli alunni vivevano la grande eccitazione che, puntualmente in quel periodo, faceva pregustare loro l’imminente libertà. Niente più compiti per casa! Basta con i libri e con le levatacce per non arrivare in ritardo a scuola.
Un mattino il maestro arrivò in classe con una rigida e strana valigetta di color grigio-azzurro. Senza dire una parola, ne aprì delicatamente le chiusure a pressione e sollevò il coperchio. Sulla cattedra, in bella mostra, la valigetta si trasformò in un giradischi; da una busta di spesso cartone egli estrasse alcuni grandi dischi neri di lucido vinile nei quali Maria riconobbe subito dei long plaing uguali a quelli che a casa i genitori custodivano nella fornita discoteca. Alcuni tra gli alunni, invece, quel giorno videro, per la prima volta nella vita, un 33 giri. Dopo qualche minuto di armeggi, il giradischi cominciò a funzionare; le bellissime note musicali della “Moldava” di Smetana si diffusero nella stanza, accarezzando con dolcezza l’orecchio dell’uditorio incantato, in un coinvolgente crescendo d’intensità e maestosità. Il maestro cominciò a descrivere il grande fiume lontano e sconosciuto, nel suo percorso lunghissimo, da piccolo rigagnolo a imponente e grandioso corso d’acqua, così estraneo all’immaginazione degli alunni, abituati alle dimensioni più ridotte del Livenza. Un rivolo al confronto.
Maria chiuse gli occhi e con l’aiuto dell’immaginazione vide la Moldava diventare prima torrente, via, via più tumultuoso e agitato, poi fiume maestoso, la cui placida e imponente portata d’acqua attraversava pianure e città, nell’ultimo tratto.
Tornata a casa, cercò subito fra i dischi dei genitori il brano ascoltato a scuola, ma fra ouverture e sinfonie di Beethoven e di Mozart, arie di Vivaldi e liriche dei vari Verdi, Leoncavallo e Mascagni, non v’era alcuna traccia dell’autore cèco, perciò a pranzo ne parlò entusiasta al padre, sperando che egli intercettasse il suo desiderio ma non osando fare esplicite richieste.

Il pomeriggio dello stesso giorno Maria, Costanza ed Emma si sarebbero incontrate nel loro rifugio segreto, sotto al ponte principale sul fiume Livenza. Era quello il luogo preferito per i loro appuntamenti, lontane da occhi indiscreti e curiosi, dove allegramente architettavano innumerevoli avventure e da dove partivano ogni volta alla conquista del mondo.
La bambina aveva ancora nell’orecchio la musica di Smetana e, giunta per prima sul posto, rimase alcuni minuti a fissare il bel fiume, la cui superficie tranquilla e ferma ben celava le tormentate profondità, nelle quali vivevano enormi e voracissimi lucci, storioni giganteschi ed il profumato temolo.
Costanza arrivò appena qualche minuto dopo, in breve furono raggiunte anche da Emma, come sempre trafelata e ansimante. Non era facile per la ragazzina strappare alla madre il permesso di uscire tutte le volte che avrebbe voluto farlo. Puntuale, una piccola discussione fra le due la costringeva ad arrivare in ritardo a tutti gli appuntamenti; il suo aiuto al mulino era considerato necessario e prioritario rispetto a tutto il resto.
La loro attenzione fu attirata da qualcosa che non avevano mai notato le volte precedenti. Scesero un po’ più giù, avvicinandosi alla riva. A pochi passi da loro, fra l’intricata vegetazione del tratto dell’argine digradante verso l’acqua, le ragazzine notarono la forma rotondeggiante di un oggetto dal colore indefinito, fra il grigio ed il marrone, che sembrava spuntare dalla melma. Un melone portato dalla corrente, forse. Impossibile! Non era ancora l’epoca delle gustose cucurbitacee; forse un pallone lanciato troppo lungo e finito nel fiume, chissà quanto tempo prima e in quale punto del suo lungo e sinuoso percorso.
Costanza ruppe gli indugi e, avvicinatasi, smosse la terra intorno all’oggetto con la punta dello stivaletto.
L’urlo della ragazzina rimbalzò fra i massicci pilastri del ponte, da una riva all’altra del fiume; Maria ed Emma, vedendo l’amica fuggire e risalire terrorizzata l’argine, istintivamente la seguirono, urlando, nella precipitosa fuga, immediatamente contagiate dalla paura.
Raggiuntala dietro ad un grosso platano, dove si era rifugiata, la trovarono seduta a terra, pallida e tremante. Stringeva le ginocchia raccolte al petto fra le braccia, dondolando nervosamente su sé stessa mentre, a labbra serrate, cercava di bloccare un incontrollabile battere di denti.
“Cosa è successo? Cosa c’è? Perché sei scappata così?”
“C’è un morto, lì! L’ho visto bene. C'è un teschio tutto rotto! Mio Dio! Mio Dio!” Scoppiò a piangere, ripetendo quelle parole fra sussulti e singhiozzi.
Maria la sollevò e, abbracciandola, cercò di darle coraggio; cosa avrebbero fatto adesso? Cosa andava fatto in casi come questo?
Emma, che delle tre era certamente la meno coraggiosa, cominciò a piangere come la compagna; “Non ti ci mettere anche tu adesso, per la miseria!”, sbottò Maria, “Dobbiamo stare calme; magari non è il teschio di un uomo. Magari è un animale; l’avrà portato la corrente da chissà dove o forse era sepolto lì sotto da chissà quanto tempo.”
Fu allora che un pensiero inatteso le attraversò la mente, una lama fredda e affilata che interruppe bruscamente la concitazione dei suoi pensieri, lasciandola attonita per qualche istante. “Sepolto là sotto, da chissà quanto...”
Ammutolì; le compagne credettero di leggere nei suoi occhi una stranissima espressione di orrore. Trascorsi alcuni istanti di assoluto silenzio, ricominciò a parlare nervosamente, gesticolando come se fosse in preda ad una improvvisa smania. Invitò nuovamente le amiche alla calma: “Non dobbiamo parlare di questa cosa con nessuno, per il momento. Torniamo laggiù e vediamo di che cosa si tratta; magari ci siamo prese uno spavento per niente, magari non hai visto bene,”, aggiunse rivolta a Costanza, “ ti sarai presa uno spavento per niente, vedrai, e l’hai fatto prendere anche a noi!”
Emma non volle seguirle e rimase sulla sommità dell’argine. La paura le era penetrata nella spina dorsale e non riusciva a smettere di tremare; Maria e Costanza disseppellirono i resti: un teschio umano, frantumato in alcuni punti, appartenuto ad un adulto sicuramente, qualche altro frammento, di chissà quale parte del corpo, che le bambine non avrebbero certo saputo riconoscere. Maria cominciò a scavare freneticamente una buca nel terreno asciutto, più su rispetto alla riva, quindi vi spinse dentro i poveri resti, con l’aiuto di un bastone, ricoprendoli con la terra rimossa.
“Ora torniamo a casa, domani dopo la scuola decideremo cosa fare; nel frattempo, mi raccomando, acqua in bocca! Guai a voi se spifferate qualcosa!”
La severità del suo sguardo non lasciò dubbi sulla sua determinazione, tanto che sia Costanza che Emma, tornate a casa, non lasciarono trapelare minimamente lo spavento vissuto, mentre l’agitazione, a mano a mano che passavano le ore, si andava trasformando in eccitazione. L’indomani pomeriggio, alla fine dell’ora settimanale di catechismo, si ritrovarono nuovamente sotto il ponte, come stabilito. Tutte e tre erano decisamente più tranquille e rasserenate rispetto al giorno precedente, sebbene l’ansia di Maria fosse ancora piuttosto visibile. Costanza, per prima, disse la sua: “Potremmo provare a chiedere in giro se qualcuno sa qualcosa di persone sparite che potrebbero essere venute a suicidarsi proprio qui. Non vi pare?”, “E cosa rispondiamo se ci chiedono perché facciamo queste domande? Se vogliono sapere come mai le facciamo?”, disse Emma, temendo che i suoi venissero a sapere qualcosa dalle chiacchiere dei clienti. “Basterà rispondere che stiamo facendo un lavoro per la scuola!”, sentenziò infine Maria; “Una specie di compito per casa: il maestro potrebbe avercelo dato per le vacanze. Una ricerca sulla vita del fiume. Ecco! Una bella ricerca sul nostro fiume. Abbiamo anche ascoltato la musica di quel musicista in classe, l’altro giorno, tutto torna. Dobbiamo trovare più notizie possibili su tutte le storie e sui fatti accaduti negli ultimi anni. Io so che parecchie persone si sono buttate da quella passerella laggiù”, aggiunse indicando il secondo, piccolo ponte che congiungeva le due rive del Livenza, “Si sono ammazzati proprio così, buttandosi giù da lì. Anche questi sono fatti che riguardano il fiume, no? E’ deciso! Faremo delle finte interviste fra la gente per questa ricerca e in realtà indagheremo come Sherlock Holmes!” Il maestro Italo sarebbe partito per le colonie estive anche quell’anno, come sempre. Nessuno si sarebbe preso la briga di contattarlo per verificare la veridicità delle affermazioni delle sue alunne.
Maria fece promettere solennemente alle amiche che avrebbero mantenuto il segreto sulla vicenda, riuscendo in tal modo a scongiurare la possibilità che l’eventuale intervento di qualche adulto potesse condurre ad altri possibili, da lei temuti, sviluppi dell’indagine.

Su suo suggerimento fu deciso di trasferire le ossa in un luogo più sicuro, dove nessuno le avrebbe cercate. La scelta cadde sulla cantina di Tarzan e Cita.
Tarzan era il soprannome di un contadino di mezza età che viveva in un luogo isolato e remoto di campagna, piuttosto lontano dal paese insieme ad una vecchia zia demente, a sua volta chiamata Cita dai compaesani per l’animalesco e ridicolo atteggiamento di sottomissione al rude e violento nipote. La loro diroccata casa colonica si poteva raggiungere con un certa difficoltà, percorrendo una dissestata strada bianca, appena visibile fra la fitta ed intricata vegetazione. A Maria, la prima volta che vi giunse, parve di trovarsi davanti al muro stregato di rovi che, nella favola, avvolgeva il castello di Bella Addormentata.
Le tre amiche vi erano capitate un pomeriggio per caso l’estate precedente, durante una gita in bicicletta e sin dal primo momento avevano conosciuto la misantropia del padrone di casa, che le aveva accolte brandendo minacciosamente un forcone. In preda all’ira, rosso in volto ed ansimante, le vene del collo pulsanti per l’accelerazione cardiaca causata dell’alcol tracannato, la lunga chioma di sottili capelli color biondo spento, crespi ed unti, l’uomo aveva urlato alle piccole di uscire subito dalla sua proprietà, di non farsi vedere mai più lì intorno, poi s’era accasciato a terra, apparentemente privo di sensi.
Costanza ed Emma, spaventate, erano rimaste aggrappate ai manubri delle loro biciclette, senza sapere cosa fare, Maria invece era istintivamente corsa in soccorso dell’uomo e, raggiuntolo, lo aveva scosso, chiedendogli ripetutamente se si sentisse male.
L’alito fetido l’aveva raggiunta immediatamente, provocandole nausea, ma ormai era lì e aveva cercato pertanto di sollevargli la testa, pesante come un corpo morto.
Era forse trascorso qualche secondo, l’uomo si era rialzato e, barcollando, era rimasto a fissare stralunato la piccina, incredulo per l’insolita situazione, mentre le folte sopracciglia aggrottate si andavano distendendo.
“Cossa fatu qua? Chi situ ti?”. Le sue parole avevano raggiunto Maria insieme all’alito acre e disgustoso di alcol e di cibo mal digerito.
“Sono Maria”.
“Maria chi? Chi che te ha dat el permesso de vegnér fin qua? L'é casa mia questa, nessún ghe mete pie senza el me permesso, ghe tire 'na fusiada se me gira 'e tòe!” “Mi scusi, non lo sapevo. Sto facendo una gita con le mie amiche e adesso vado via, ma lei è caduto per terra e ho pensato...”, “Te a pensà! Te a pensà! Podée anca inpirarte col forcón; cossa te dise la testa? No te deve mai andàr visin ai foresti, stupida che non te si altro!” Maria abbassò lo sguardo, mortificata, non era nuova alle offese ma questa volta si sentì bruciare di umiliazione, in fondo lo aveva soccorso, quel selvaggio. Era questa la sua gratitudine? Tornò sui suoi passi, andando verso le amiche, che da lontano non avevano udito nemmeno una parola. Tarzan diede qualche colpo di tosse per schiarirsi la voce e farla sembrare meno minacciosa e la richiamò: “Torna indrio, sénpia, e ciama anca 'e to amighe, ve dae un bicèr de 'ranciata e dopo 'ndè via. Guai a voialtre se conté in giro che se stade qua! Ve tire col s'ciòp, la prossima volta che ve fe vedér!”
Il sole era alto, un sudore caldo ed appiccicoso, mescolatosi con la polvere che le aveva ricoperte durante la corsa fra i campi, stava procurando loro un prurito fastidioso alla pelle, tra le pieghe del collo e l’attaccatura dei capelli; lo sfregamento dei vestiti sui corpi sudati acuiva la tormentosa sensazione di arsura, perciò accettarono volentieri l’offerta. Nella casa non c’era l’acqua corrente.
L’uomo cavò dall’acqua gelida del pozzo, al centro del grande cortile, una bottiglia di vetro scuro dalla quale versò nei bicchieri una squisita bevanda all’arancia, buona come quella che mamma preparava sempre con le bustine.
A Maria piaceva moltissimo quella polvere arancione, asprigna e dolce insieme, di tanto in tanto ne leccava con gusto un po’, dalle dita inumidite di saliva che infilava nella busta perché vi rimanesse appiccicata.
La deliziosa polverina andava versata in una bottiglia di quelle con il tappo a pressione; vi si aggiungeva l’acqua del rubinetto fin quasi a riempirla. L’abilità stava nel richiuderla velocemente, per evitare che la schiuma effervescente fuoriuscisse, e nell’agitarla vigorosamente, lasciandola poi riposare per una decina di minuti prima di servirla.
Mamma ne preparava sempre in abbondanza d’estate, alternandola alla dissetante bevanda fatta con lo sciroppo di menta.
La ragazzine avevano bevuto velocemente, d’un fiato, spiando diffidenti ogni movimento dell’uomo, pronte a fuggire precipitosamente se avessero percepito il minimo pericolo.
In seguito erano tornate altre volte da quelle parti, durante le loro gite in bicicletta e non avevano mai mancato di portare un saluto al contadino e alla sua divertente zia smemorata.

Chi volesse scrivere all'autrice, può farlo a questo indirizzo di posta elettronica: casiestremi@yahoo.it

Di Maria Prosdocimo


 
 
 
Il mensile telematico abcveneto.com è gestito da Abcveneto, associazione culturale - codice fiscale 94113202606

HTMLpad