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N. 69, VI anno   1 dicembre  2009

 
 


  XVII Capitolo: Panta Rei

Di Maria Prosdocimo

“Qualcuna di voi va ancora al fiume a lavare i panni?”, chiese ad un certo punto Maria, intromettendosi nel parlottio e dissimulando l’impazienza di arrivare al suo vero scopo, “Mi ghe vae; par cossa lo vutu savér?”, le rispose la donna che l’aveva canzonata all’inizio. Maria raccontò della ricerca per la scuola, aggiungendo di aver pensato che forse chi frequentava le rive del fiume poteva essere a conoscenza di aneddoti e storie ignorate dall’altra gente del paese.
Girò e girò intorno al discorso, aggiungendo a mano a mano piccoli dettagli e arrivando, finalmente, dopo numerose divagazioni, alla domanda che le frullava in testa ormai da qualche ora: “Ci si è annegata tanta gente nel Livenza?” Le operaie le diedero un’occhiata sospettosa; quale interesse poteva nutrire quella piccina per fatti così oscuri? Che razza di ricerca scolastica le avevano dato da fare?
“Il maestro ci ha raccomandato di raccogliere più notizie possibili su tutto quello che riguarda storie e fatti che hanno a che fare con il nostro fiume, ...”, si affrettò a precisare la bambina che aveva percepito nettamente la loro diffidenza.
Fu Luigia la prima a parlare; la vecchia assunse un’aria grave e compunta, in tanti anni ne aveva viste e sentite di tutti i colori e, certo, alcuni paesani avevano trovato la morte nelle acque del Livenza, chi accidentalmente, altri volontariamente.
In particolare il ricordo di un bambino di soli cinque anni, annegatovi più di trent’anni prima era ancora vivo in lei e, parlandone, gli occhi le si inumidirono.
C’erano poi stati alcuni casi di persone che la donna definì malinconiche perché la parola depressione non apparteneva al suo vocabolario. Uomini e anche qualche donna, la cui fine aveva sconvolto l’esistenza delle rispettive famiglie.
“I dise che anca la Germana la se sia butada.”, se ne uscì ad un certo punto Anna, una delle due donne più giovani, interrompendo il racconto di Luigia: “Sì, l’ho sentida anca mi 'sta vose ma no i l'a pì trovada, da quel che so”, rispose la vecchia; “Se l'è par questo no i a mai trovà gnanca Ernesto.”, ribadì la giovane.
Maria si guardò bene dall’accennare alla sua chiacchierata con Vally e, rivolta ad Anna, le chiese chi fosse questa Germana.
“L'era 'na gran bea tosa, cara mia; dise che l'era parché anche se no i l'a trovada la è sicuramente morta.
Ghe a capità 'ná bruta roba co un foresto; un stagionae che el vegnea daêa Basa Italia, credo; vero Luigia?”, quest’ultima annuì. “E cosa le accadde?”, insistette Maria.
Divenuta improvvisamente, e grazie alle informazioni sull’argomento, la principale interlocutrice della bambina, Anna si addentrò nella storia triste di Germana, raccontando tutti i particolari di cui era venuta a conoscenza. L’infelice aveva conosciuto l’uomo un’estate di parecchi anni prima, durante la mietitura del grano; era la figlia del vecchio mezzadro di una famiglia di conti, padroni di un vasto podere nel comune di Motta, precisamente in una delle frazioni del paese.
Il forestiero, che si chiamava Carmine, si era presentato una mattina al mezzadro e aveva ottenuto da lui lavoro per il periodo della mietitura. Lo sconosciuto aveva detto ben poco di sé, del resto a nessuno sembrava importare qualcosa della sua vita, ciò che interessava era che fosse fisicamente prestante, di buona volontà e che non rubasse in casa. Germana lo aveva notato subito, così diverso dagli uomini del paese; i capelli corvini e lucidi e quegli occhi neri come il petrolio, che la guardavano come nessuno mai l’aveva guardata, se li sentiva addosso anche quando lui non c’era.
Anna le sapeva queste cose perché la poveretta si era confidata con una comune amica che, dopo la sua scomparsa, aveva spifferato tutto, anche quello che non sarebbe stato necessario dire.
Di giorno Carmine lavorava di buona lena nei campi, la sera consumava la sua cena da solo, nel fienile, dove il mezzadro gli aveva permesso di ricavarsi un giaciglio per la notte, non era certo obbligato a trovargli anche l’alloggio, vivaddio, ma il giovane, tutto sommato, sembrava di poche pretese. Era trascorsa una settimana dall’inizio della mietitura quando, una sera, il padre di Germana, compiaciuto del lavoro del forestiero e sentendosi particolarmente magnanimo, aveva deciso di chiamarlo in casa per la cena. Carmine aveva ringraziato e, assicurando che sarebbe stato puntuale, si era diretto alla fontana per rinfrescarsi e darsi una ripulita.
La ragazza, non vista, aveva udito tutto. Il cuore aveva cominciato a rullarle in petto; si era ritirata dietro alla tendina di una finestra della cucina e da quella posizione era rimasta a spiare l’uomo mentre si sciacquava abbondantemente dalla cintola in su con l’acqua gelida.
La sua pelle lucida sotto lo scroscio dell’acqua e ancor più bruna alla luce del tramonto faceva risaltare straordinariamente l’energia dei muscoli perfetti e mobili in quel corpo slanciato e scolpito da divo del cinema. Durante la cena la ragazza non aveva detto che rare parole, limitandosi a pochi convenevoli, intimidita dalla presenza del padre e catturata dal fascino dell’uomo di cui era ormai perdutamente innamorata e sul quale sembrava concentrarsi tutta la scarsa luce della stanza.
Carmine era stato stranamente loquace, i due uomini avevano conversato parecchio e con grande cordialità; di tanto in tanto il giovane aveva rivolto la parola anche alla taciturna ragazza che ogni volta si era sentita avvampare per l’emozione.
Fosse stata ancora viva e presente sua madre se ne sarebbe accorta senz’altro, certe cose non sfuggono mai a una donna, ma il padre non aveva avuto sentore di nulla, complice forse qualche bicchiere in più di buon Raboso.
Il mezzadro aveva poi dato forfait, scusandosi di non farcela a trattenersi ancora in compagnia dell’ospite e raccomandando alla figlia di sprangare per bene la porta, appena Carmine se ne fosse andato; si sentiva tranquillo e quel giovane non gli dava alcun pensiero.
La ragazza non aveva avuto il coraggio di dire una sola parola ma un brivido le aveva percorso interamente il corpo.
“El resti, el resti pura 'naltro fiá, se ghe fa piassér, tanto me fia la deve lavár i piati. Se veden doman matina, aêa sòita ora.”, aveva aggiunto il vecchio prima di eclissarsi dietro la tenda che celava la salita al piano superiore, dov’erano le stanze da letto.
Rimasti soli, Carmine non le aveva parlato per alcuni minuti che a lei erano sembrati un’eternità, continuando a guardarla come se vedesse nella giovane qualcosa la cui esistenza lei stessa ignorava.
Alla fine si era alzato da tavola e si era diretto alla porta: “Buona notte signorina, è stato un piacere cenare con lei e suo padre.”
Germana, tremando come una foglia, lo aveva seguito fino all’uscio ed era stato a quel punto che l’uomo l’aveva attirata a sé, cingendole la vita in un abbraccio impetuoso e cercando la sua bocca per un bacio dolce e appassionato che le aveva fatto tremare le ginocchia.
L’aveva poi salutata, sfiorandole con una carezza il volto, ed era salito al fienile.
Era rimasta sull’uscio di casa come imbambolata, a guardarlo allontanarsi e sparire nel buio della notte, con il cuore in tumulto e la sensazione che il sapore di quel bacio si fosse mescolato al suo sangue, raggiungendole ogni fibra del corpo e invadendo ogni spazio dell’anima.
Nei giorni successivi si era tenuta a distanza, fremendo di desiderio tutte le volte che il pensiero dell’amato le attraversava la mente o quando lo vedeva tornare, impolverato e sudato dopo una giornata nei campi.
Il padre avrebbe potuto trattenerlo per qualche altro lavoro, magari Carmine avrebbe potuto aiutare il vecchio contadino a governare gli animali o a dissodare alcuni campi che ancora aspettavano di essere preparati per la semina; in autunno poi ci sarebbe stata la vendemmia. Germana segretamente tesseva la trama di sogni che, giorno per giorno, le sembravano sempre più a portata di mano.
Si erano consumate così, per lei, innumerevoli e interminabili ore di attesa e vagheggiamenti, fino al giorno in cui una incontenibile smania l’aveva spinta a raggiungere il giovane appena tornato dal lavoro e salito al fienile per prendere degli indumenti puliti.
Carmine l’aveva vista comparire d’improvviso; Germana teneva in mano un boccale di birra gelata, aveva gli occhi spauriti di un animale intrappolato, un velo di sudore le imperlava il naso e la fronte, il respiro affannoso le sollevava ritmicamente i seni sotto il leggero vestito a fiori di cotonina e lo fissava come chi non può sottrarre lo sguardo dall’abisso.
Le lingue rosse e azzurre del tramonto li avevano cinti in un abbraccio odoroso di fieno e polvere, l’uomo l’aveva presa con dolcezza ed impeto, inspirando avidamente il profumo della sua pelle morbida e vellutata; la ragazza, al primo incontro con l’amore, si era consegnata alla passione dell’amante con fiducia e abbandono.
L’uomo infine, appagato ed esausto, le era rimasto per un po’ disteso accanto poi, giratosi verso di lei l’aveva guardata in volto e si era sentito smarrire vedendole gli occhi brillare di una luce strana e nuova.
La mattina successiva Germana si era levata di buon umore, aveva fatto le cose di sempre con un piacere rinnovato, a tratti cantando canzonette in voga e facendo risuonare della sua voce argentina la casa ed l’assolato cortile. Ogni mattina gli uomini si recavano nei campi prestissimo, prima dell’alba; lei si alzava un po’ più tardi, badava alle faccende domestiche e attendeva ansiosa il loro ritorno.
Giunta l’ora della cena, aveva aspettato il padre e Carmine sull’uscio di casa, ben pettinata e profumata. Indossava la collana d’oro della madre che metteva solo nelle occasioni più importanti e la brillantezza del gioiello faceva a gara con la luminosità dei suoi occhi.
“Situ vegnù via prima, pare? Carmine eo restà indrío?”, aveva chiesto al genitore vedendolo giungere da solo.
“No, l'é partí, l'ha finí qua!”
“Cossa situ drio dir?”, gli aveva chiesto con voce tremula, “Còssa vol dir che l'é 'nda via?” No l'ha dit gnént ieri sera...”, il vecchio non aveva fatto caso all’agitazione della figlia e le aveva risposto che Carmine si era presentato da lui la mattina stessa, aveva ritirato il suo salario e gli aveva comunicato la decisione di partire subito, avendo deciso di accettare un’interessante offerta di lavoro fattagli da un parente che viveva in America.
Meglio certo che lavorare la terra per pochi spiccioli e, dovendo mantenere una famiglia, era certamente più vantaggioso per lui approfittare di quella occasione.
Una famiglia? Carmine era dunque sposato e magari aveva anche dei figli! Germana si era sentita mancare, tutto intorno a lei aveva cominciato a ruotare vorticosamente, la vista le si era annebbiata; il padre, passandole accanto, aveva varcato la soglia, continuando a parlarle da dentro casa, ma lei aveva smesso di udirne la voce.
Quella sera non una parola era uscita dalla sua bocca ma non era cosa insolita, succedeva spesso che i due mangiassero nel più assoluto silenzio, perciò il vecchio non si era per nulla allarmato, affaticato e preoccupato unicamente di andarsene presto a letto.
Il tenace mutismo della ragazza si era protratto per settimane, poi, una mattina di settembre, mentre ancora albeggiava, qualcuno l’aveva vista gironzolare nelle vicinanze della passerella sul fiume. Era proprio da quel vecchio ponte che nella maggior parte dei casi i disperati sceglievano di gettarsi nelle acque del Livenza, lì le correnti erano più forti e non c’era il rischio di salvarsi.
Piangeva e parlava da sola, gesticolando come se avesse di fronte un’altra persona, ma non c’era nessuno oltre a lei e, ad una certa distanza, il passante che l’aveva notata.
Quella era stata l’ultima volta che qualcuno aveva visto Germana, di lei non si era saputo più nulla in paese, ma si sa, chi decide di togliersi la vita lo fa quasi sempre all’alba, aveva aggiunto Anna che aveva sentito fare tante volte questa considerazione.
Maria chiese se il corpo era stato cercato abbastanza, memore di quanto era invece accaduto per Ernesto, seppe così che nel caso di Germana era stato fatto molto di più.
La mobilitazione dei concittadini era stata pressoché generale e decine di volontari, per una settimana, avevano battuto palmo a palmo le rive del fiume, cercando indizi e possibili tracce.
Il padre aveva chiesto aiuto a tutti, persino ai padroni, i quali avevano mandato in paese alcuni sommozzatori che avevano perlustrato i fondali fangosi e popolati di alghe fittissime del Livenza.
Una volta riemersi, i sommozzatori avevano raccontato di essersi imbattuti in storioni grossi come vitellini e lucci dall’aspetto inquietante come non ne avevano visti mai prima di allora.
Si erano infine arresi poiché in certi tratti le correnti erano troppo forti e pericolose, ormai erano trascorsi alcuni giorni e se la ragazza fosse affogata davvero probabilmente il corpo poteva già essere stato trascinato verso la foce, molti chilometri più a valle.
Solo il vecchio mezzadro, ancora dopo due settimane dalla scomparsa della figlia, tornava ogni mattina sul posto e vi rimaneva fino a quando qualche anima pietosa non lo convinceva a tornarsene a casa.
Nel frattempo le voci sulla storia sentimentale della poveretta erano arrivate all’orecchio di mezzo paese e la fantasia popolare aveva cominciato ad arricchire la vicenda di nuovi particolari, scabrosi o pietosi, a seconda della sensibilità della fonte.
A qualche mese dal fatto nessuno ormai parlava più di Germana e, se non l’avevano inghiottita le acque del Livenza, l’avevano certo fatto i recessi dell’oblio, dove finiscono tutte le notizie che smettono di suscitare interesse nella gente comune.
“Quindi potrebbe essere ancora viva?”, disse Maria, rivolta alla sua informatrice, “Magari il padre ha ricevuto sue notizie?”.
“No credo proprio,”, le rispose la donna, “lo varía dit a qualchedún e invense quel poro òn no l'a pì parlà co nissún dal 'sorno dêa disgrassia, no l'é pì vegnù in paese e i dise che el sia vissin aêa fine; 'na so sorèa vècia la vive co lu e no lo moêa un momento. Lo varissimo savù se la Germana la se fusse fata viva, ghe sbocio!”
La fantasia della bambina cominciò a galoppare; immaginò che la bella Germana avesse deciso di raggiungere in nave l’America, per ritrovare il suo Carmine. Approdata in terra straniera e non sapendo da dove iniziare le ricerche, aveva nel frattempo trovato lavoro come sartina in un modesto teatro di New York e dalle sue mani uscivano costumi di scena bellissimi, pieni di paillette e piume colorate, non come il suo squallido vestitino da fata.
Durante le prove di una commedia brillante, l’affascinante protagonista maschile si era strappato una coda del frac, impigliatasi in un gancio sporgente sulla scena, ed era stato condotto nel laboratorio di sartoria per rimediare al danno.
Nella grande stanza che rimbombava del via vai del personale e dell’incessante rumore meccanico delle cucitrici in azione, l’uomo aveva notato la giovane, curva sul tavolo di lavoro.
Germana aveva sollevato lo sguardo per rispondere al gentile saluto dello sconosciuto che le si era parato davanti; con una mano si era scostata dal volto i riccioli ribelli e la visione di quegli occhi bellissimi e tristi aveva turbato profondamente l’uomo.
L’attore era poi tornato a salutarla tutte le sere, al termine dello spettacolo e infine si era deciso a chiederle di uscire per una cenetta tête-à-tête.
Germana che, dopo la storia con Carmine, aveva giurato in cuor suo di non guardare mai più un uomo per tutta la vita, aveva capitolato dopo le mille insistenze dell’innamorato, conquistata da tanta gentilezza e tenacia, ma ancora incapace di ammetterlo.
La corte signorile di Frank, così si chiamava il corteggiatore, era durata mesi e alla fine Germana aveva acconsentito a sposarlo.
Lo aveva accompagnato nei teatri delle città più importanti, dove egli recitava in commedie sempre più famose, affinando ogni giorno il suo inglese ed aiutandolo a studiare i copioni. Alla fine era diventata a sua volta una discreta attrice ed il marito aveva cominciato a pretendere di averla come partner negli ingaggi che accettava.
La coppia, divenuta famosa e richiesta, ad ogni tournée riscuoteva successo di pubblico e di critica.
Una sera, al termine dello spettacolo in un prestigioso teatro di Manhattan, Germana si era ritirata nel suo camerino per struccarsi e fra i numerosi mazzi di rose, camelie, orchidee e gardenie ne aveva notato uno insolito, diverso dagli altri.
Era un piccolo fascio di spighe dorate, legato stretto con un nastro di un rosso brillante come sangue.
Il cuore aveva avuto un sussulto e per alcuni minuti era stata sopraffatta dall’istinto di precipitarsi fuori dal camerino a cercare Carmine nel teatro ormai svuotato.
L’amante italiano era realmente migrato in America e vi aveva fatto una discreta fortuna; ora viveva proprio a New York con la famiglia che lo aveva raggiunto alcuni anni più tardi.
I figli erano cresciuti e la moglie non gli aveva creato problemi, una donna semplice, senza grandi pretese, eppure lui non aveva mai potuto dimenticare la luce di quegli occhi amati, il profumo di quella pelle preziosa. Certe notti, insonne accanto alla moglie addormentata, gli capitava ancora di dover soffocare nel silenzio un pianto che nasceva dalle profondità indomabili del suo essere, laddove egli era solo, inesorabilmente solo. Il volto di Germana gli aveva sorriso dai manifesti pubblicitari appiccicati sui muri del quartiere e trovare il teatro era stato per lui un gioco da ragazzi. Germana avrebbe potuto conoscere da lui stesso ogni dettaglio della storia e raccontargli la sua, chiedergli ragione del suo comportamento sleale ma, superato lo smarrimento iniziale e ritrovata la calma, aveva invece raggiunto il marito e, al suo braccio, era infine uscita dal teatro, senza guardarsi intorno in cerca di fantasmi.
Le cose sarebbero potute andare così, perché no? Maria si rese conto che era ormai ora di pranzo e prese congedo dalle donne.
“Vutu magnár un bocón co nialtre?”, le chiese Luigia che con quell’offerta contava di ricambiare l’aiuto ricevuto dalla piccola.
Un profumo fragrante di pane cotto al forno giungeva dalla cucina, mescolato a quello di un arrosto che prometteva d’essere speciale.
“No, grazie, signora! Devo proprio andare a casa, oggi abbiamo ospiti.”

Chi volesse scrivere all'autrice, può farlo a questo indirizzo di posta elettronica: casiestremi@yahoo.it

Di Maria Prosdocimo

 

 
 
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