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N. 58, VI anno, 2008 Giovedì 1 Gennaio  2009
 
 
 


  RISPUNTA IL SOLE PER ACCOGLIERE PAOLO RUFFILLI AL CLAN VERDURIN

Di Lorenzo Morao

soci e amici del club VerdurinNel bel mezzo dell’inconsueta ed uggiosa “stagione delle piogge” che ha imperversato sulle nostre terre lo scorso dicembre, domenica 14 è spuntato, fulgido e splendente, il sole. In coincidenza della venuta di Paolo Ruffilli al Clan Verdurin. Qualcosa di più di una coincidenza, sostengono Lia e Flaminio, le anime del Clan.
Ed è stata davvero una giornata splendida, di luci, di folgorazioni poetiche, di corrispondenza di “amichevoli sensi”. Perché Paolo è un poeta di razza, una delle voci più importanti della poesia italiana contemporanea. Interessato a tutti gli aspetti della vita, in particolare a quelli segnati dalla sofferenza e dal male. Con un impegno “civile”, per non dire “religioso”, testimoniato anche nella sua ultima raccolta di poesie, “Le stanze del cielo”, pubblicato lo scorso gennaio da Marsilio.
Per lui, come ha sottolineato nella presentazione Gianni Ambrogio, tutto può essere espresso dalla poesia, anche la condizione del carcerato o del tossico-dipendente. Situazioni in cui riesce ad immedesimarsi, come se fosse realmente passato attraverso quelle esperienze, tanto tragiche tanto attuali.
È soprattutto la privazione della libertà che il poeta indaga, conseguenza spesso di “un’esperienza sola, che ti segna per il futuro”. E quell’annullamento della personalità, che giorno per giorno ti consuma “in un’attesa senza luce e senza fine…dannato nell’oscurità più fonda”.
Una vita passata al di là di “finestre tutte inferriate”, al rumore di “chiavi rigirate…ad ogni passaggio”, penetrato “dall’odore di una gabbia contro un muro”. Avido d’aria, nell’ora concessa, aria “che respiri, mordi ed inghiotti…per sopravvivere a te stesso”, assetato di vita, anzi “di quel fresco della vita”, che ti ritrovi col tempo sempre più “seccato e scolorito”. “Non sei più vivo eppure ti stupisci che non muori”.
Non dissimile la condizione di chi “sente l’ebbrezza di scappare verso il vuoto” e “pur sapendolo si butta dentro fino in fondo e quello è il baratro del suo mistero”. Riducendosi “pallido evanescente come uno spettro, il buio negli occhi e il suono del silenzio dentro la mente”.
Nessun intento nel poeta di assolvere né di condannare. Le responsabilità sono ammesse (“l’errore che scontiamo”, “la colpa è la mia colpa”, “riconosco l’errore”). Ma c’è una profonda comprensione per tante persone giudicate non per sé stesse, ma spesso per un’azione, per quello che appare, pur nell’evidenza del fatto, e non per quello che uno è davvero. C’è un’umana partecipazione per quelle vite che si sono condannate a scontare “quintali di dolore, di vomito e di noia per ogni grammo di piacere”.
Questa, secondo Paolo Ruffilli, è la missione del poeta, che non per niente premette alle sue poesie una citazione programmatica di Mori i Po: “I poeti, al contrario di tutti gli altri, sono fedeli agli uomini nella disgrazia e non si occupano più di loro quando tutto gli va bene”.
Riflessioni di una domenica al Clan, mentre il sole ed i versi scarni e sofferti di Ruffilli facevano ancor più amare la vita.

Di Lorenzo Morao


 
 
 
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