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N. 58, VI anno, 2008 Giovedì 1 Gennaio  2009
 
 
 


  VIII capitolo di Panta Rei

Di Maria Prosdocimo

Il Carnevale del 1972 si preannunciava come un evento memorabile; per la prima volta le sorelle avrebbero sfoggiato dei veri costumi in maschera. Marta aveva avuto in dono da un’amichetta benestante un bellissimo abitino da dama del Settecento, con tanto di bianchissima e elaborata parrucca, in tutto e per tutto simile a quelle originali viste nelle illustrazioni dei libri di storia. A Motta l’appuntamento annuale con il divertimento in maschera era sempre una grande festa che si replicava per alcune domeniche e nel giorno del martedì grasso. Da ogni dove giungevano nel paesino folle di persone, attirate dalla bellezza e grandiosità dei vivacissimi carri allegorici, costruiti nei mesi precedenti da nutrite schiere di volontari appassionati e abilissimi nella lavorazione della carta pesta. Vere opere d’arte molto spesso, capolavori dell’immaginazione dalle grandi dimensioni che irridevano e sbeffeggiavano i potenti di turno, stigmatizzandone i vizi ed ammiccando con ironia alle debolezze dell’italiano medio. Il dono fatto a Marta fu accolto con eccitazione e gioia, tuttavia Maria non poté nascondere la propria delusione per non esserne stata la destinataria; fu così che la madre, senza indugi, commissionò alla Neno un costume anche per la figlia maggiore. Da uno scampolo di magnifico raso rosa sarebbe stato ricavato uno splendido vestito da fata, che sarebbe poi stato completato con l’acquisto del necessario cappello conico rilucente e della irrinunciabile bacchetta magica, in plastica dipinta oro e sormontata da una grande e brillante stella. I giorni dell’attesa furono eccitanti; la bambina si sottopose docilmente ad innumerevoli prove costume, attendendo di volta in volta di vedere i progressi della brava artigiana. Giunse infine il momento della verità. Maria arrivò trepidante ed ansiosa a casa della sarta; bussò e varcò la soglia non appena udì la voce della vecchia che l’invitava ad entrare e a raggiungerla nel laboratorio. Resti di stoffa e fili colorati erano sparsi dappertutto, forbici lucide dalle impugnature strane erano disseminate, insieme a scatole di aghi ed altri sconosciuti aggeggi, sul grande tavolo da lavoro dove la donna disegnava con il gesso i suoi modelli, ritagliando con precisione millimetrica i tessuti. Proprio al centro della stanza facevano bella mostra di sé alcuni manichini rivestiti con le ultime creazioni sartoriali; sul più piccolo Maria vide subito il vestito da fata rosa ed il respiro le si arrestò in gola. Il sorriso le morì sulle labbra e l’eccitazione del cuore svanì in un attimo, lasciando il posto allo sgomento; davanti a lei il bellissimo abito di raso della favola era stato trasformato in una sorta di vestito di scena da ballerina del Moulin Rouge! Al posto delle stelline dorate, uguali a quelle del cappello, la sarta aveva applicato una quantità sorprendente di grossolane rose di pizzo nero, sul corpetto, sull’ampia gonna, persino sulle maniche. L’immagine del famoso ed equivoco teatro parigino, insieme a quella delle sue ballerine scollacciate e seminude, le attraversò la mente come una lama fredda; le era capitato di vederne una foto una volta sfogliando “Epoca”, il settimanale che leggevano i genitori. Parigi era lontana ma anche Motta aveva la sua donnina allegra; Maria l’aveva vista tante volte, la Vally. Un'autentica istituzione in paese, garanzia di sesso clandestino e godereccio a buon mercato. Leggiadra e giocosa, la giovane prostituta passeggiava per le vie del centro vestita con indumenti provocanti e vertiginose scollature che non lasciavano spazio all’immaginazione sulla generosità del suo décolleté, in un trionfo di merletti e pizzo, rigorosamente nero, per l’appunto. La bambina rimase interdetta; il suo bellissimo vestito da fata sembrava uno di quelli della Vally. Non sapeva cosa rispondere alla sarta che l’incalzava, chiedendole cosa le sembrasse. “Atu vist che beéssa, Maria? Pròveo subito, voj veder come che 'l te sta su.” “Ma io, veramente, pensavo che avresti messo le stelline...”, “Ma va’ là! No te vede che bel che l'é cussì? El pizzo l'é mejo dée stée, non l'é nissún che ghe nabia un compagno!” Era fuor di dubbio che non vi fossero altre ad avere un costume come il suo. Chi mai sarebbe uscita di casa indossando una roba del genere? Sentì salirle agli occhi lacrime furiose ma le ingoiò; sapeva che la madre aveva già fatto un sacrificio economico grande per accontentarla, non avrebbe potuto chiederle di spendere altro denaro per far sostituire le rose di pizzo con stelle d’oro. Quei volgari fiocchi neri dovevano essere stati ricavati da scarti di altre lavorazioni perciò mamma non li avrebbe pagati molto. Rimase zitta, afferrò il pacchetto di carta in cui la sarta aveva avvolto l’abito, infilandovi anche un biglietto sul quale aveva scritto il costo della prestazione, salutò ed uscì da quella casa. Corse a casa, riuscendo a stento a dominare l’emozione; per fortuna mamma non era ancora tornata dalla riunione pomeridiana a scuola, perciò poté chiudersi in camera e lì, sfogare nel pianto l’amarezza della delusione. Non avrebbe mai più indossato un costume di carnevale. Non le sarebbe stato difficile, in futuro, giustificare il proprio disinteresse per quelle “cose da bambini”, sostenendo di essere ormai troppo cresciuta per divertirsi ancora con le maschere. Quella volta, tuttavia, dovette indossare l’abito e vi fu chi si scomodò persino ad immortalarla in una foto che la bambina fece prontamente sparire.

Di Mari Prosdocimo


 
 
 
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