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fotonotizie per la stampa: Marcellino Radogna
N. 64, VI anno, 2009 Mercoledì 1 Luglio  2009
 
 
 


  XIII capitolo: Panta Rei

Di Maria Prosdocimo

“Mi dispiace per tuo nonno”, le sussurrò sottovoce Costanza, appoggiando il braccio sulle spalle dell’amica. Non si erano viste per diversi giorni e del lutto della famiglia di Maria aveva avuto notizia dal padre la sera stessa in cui era morto il vecchio artista.
Con i genitori aveva partecipato alla cerimonia funebre, senza trovare il coraggio di avvicinarsi all’amica.
La conosceva bene e sapeva che in certe circostanze preferiva restare da sola, diventare invisibile se possibile.
“Grazie, ma non ti preoccupare, sto bene. Mio nonno si è addormentato senza accorgersi di niente”, così le avevano raccontato a casa. Poi, cambiando discorso repentinamente, aggiunse:“Abbiamo perso già troppo tempo, Costanza, dobbiamo sbrigarci a trovare qualcosa prima che tu parta; non vorrei mai che Tarzan andasse a guardare proprio fra le botti in cantina. Dov’è Emma?”, Costanza scrollò la testa e rispose:“Non credo che potrà venire oggi, sono andata da lei ma la madre mi ha detto che oggi non la lascia uscire. Devono sistemare i sacchi di grano al mulino.”
“Hai trovato qualcosa di interessante in biblioteca?”, chiese Maria, “In biblioteca non ancora, ma ho fatto due chiacchiere con la Beppa e mi ha raccontato che un anno fa Ernesto, il fratello della Vally, è sparito e che non si è più saputo niente di lui.”
Ernesto era più giovane della sorella; aveva fatto il pescatore ed era vissuto del ricavato di quel lavoro fin quasi al momento della sua scomparsa, condividendo con la giovane prostituta la casa in riva al fiume, lasciata loro dai genitori defunti. Precocemente abbrutitosi con l’alcol, aveva sempre trascorso le giornate a bordo della sua barchetta dal fondo piatto, pescando cefali, temoli ed anguille, ma più spesso addormentato per effetto delle quotidiane sbornie. Quel corpo slanciato ed abbronzato per la continua esposizione al sole nei mesi estivi faceva gola a molte donne, ma nessuna tuttavia aveva osato avvicinarlo, nemmeno per una avventura di solo sesso; troppo rischioso avere a che fare con lui.
Frustrato e schiacciato dal peso del proprio fallimento esistenziale, ben presto si era consegnato al degrado più assoluto, rinunciando a qualsiasi prospettiva di un miglioramento della propria condizione. La sola cosa che gli interessava era procurarsi la necessaria quantità giornaliera di vino, mostrando verso i compaesani un progressivo, totale e rabbioso rifiuto.
Vally si era presa cura di lui, andandolo a raccogliere ogni sera sulla riva del fiume e trascinandolo fin dentro casa. L’alcol lo privava dell’appetito e la sua magrezza diventava sempre più evidente, col passare del tempo.
Negli ultimi tempi non riusciva più a pescare nemmeno qualche cefalo da vendere al mercato e, non riuscendo a rinunciare a bere, ricorreva sempre più spesso al portafoglio della sorella, diventando violento ed esasperando la povera ragazza.
Una sera Vally non lo trovò giù alla riva.
Menade sconvolta, aveva perlustrato, palmo a palmo, centinaia di metri di terreno melmoso, fra gli intricati sterpi, urlando il nome del fratello ed implorando l’anima della madre che l’aiutasse a ritrovarlo ancora vivo, prima di cadere in ginocchio, vinta, irrompendo in un pianto sommesso e desolato di bambina spaventata.
“Potrebbe essere annegato ed essere rimasto intrappolato in qualche punto profondo del fiume e, se non lo hanno cercato bene, esserci rimasto per un po’. Mi hanno detto che i lucci del Livenza sono così grossi e voraci che possono mangiarsi anche un cane se per caso casca in acqua”, Maria trovò plausibile l’ipotesi, successivamente il teschio poteva realmente essere stato spinto a riva dalla corrente ed essere rimasto incagliato per tutto quel tempo in un punto fangoso e inestricabile della riva, fra i rovi e la sterpaglia, non più raggiunto dalle correnti.
“Bisognerà parlare con la Vally, secondo te?”, chiese Costanza, “Non so se sia una buona idea, in questo momento. Forse prima dobbiamo cercare di sapere se magari Ernesto è ancora vivo e si trova chissà dove”.
Maria cominciava a sentire il cerchio stringersi e temeva di non poter tenere ancora a lungo sotto controllo la situazione.
Era necessario trovare al più presto un diversivo, depistare un tantino la scaltra amica: “Tu continua a cercare in biblioteca, magari nei giornali di quel periodo sarà uscito qualche articolo sulla scomparsa di Ernesto; forse hanno parlato scritto delle cose che potrebbero aiutarci a capire se può essere lui oppure no”, aggiunse, sperando di apparire convincente.
“Va bene, Maria, tu però fai in modo di parlare con la Vally; secondo me quella sa qualcosa e non la dice perché pensa che a nessuno importi di lei e di suo fratello.”
Sulla strada di casa, percorrendo il bellissimo viale degli ippocastani, Maria ripensò con dolcezza al nonno; il vecchio le aveva insegnato a vedere oltre l’apparenza che suggerisce, ma non rivela l’essenza.
Partendo dai quadri che restaurava e restituiva all’originaria bellezza, tante volte le aveva mostrato la meraviglia del ricreare colori perduti e luminosità inaspettate.
Le sue enormi mani si muovevano con elegante sicurezza e precisione su tele e legni; pennelli e spatole sembravano prolungamenti del suo essere, strumenti al servizio di un’abilità alimentata di esperienza e passione.
L’odore intenso dell’olio e dei diluenti era profumo inebriante per la piccola che osservava rapita quel mondo fuori dall’ordinario, precluso agli altri, al quale lei sola era ammessa.
Negli occhi di Maria il vecchio aveva da sempre letto una promessa di continuità. L’artista percepiva l’anima della nipotina, in cuor suo sentiva che nel futuro della piccola il senso dell’armonia e l’aspirazione alla bellezza avrebbero avuto un posto speciale.
Avesse potuto vivere abbastanza a lungo per accompagnarla nell’avventura di una vita sicuramente inconsueta, sarebbe stato l’uomo più felice del mondo.
Intenerito dalla sua devozione e dall’entusiasmo incondizionato, aveva visto in lei la possibile realizzazione di tanti desideri concepiti come padre e maestro; la dolcezza di quegli occhi grandi e scuri che si inumidivano per la commozione di fronte alla drammaticità di una Pietà lo aveva spesso turbato. Chissà quante volte un sentimento così genuino e puro sarebbe stato mortificato dalla prosaicità dell’esistenza e dalla volgarità degli uomini.
Maria camminava con passo lento, quasi trascinandosi, assorta e fluttuante sull’ala del ricordo, osservando le cose di sempre che le apparivano ora pulsanti di vita nuova.
Sui muri delle case, per incanto animatisi nel gioco d’ombre dell’ora vespertina, il riverbero delle ultime luci del giorno disegnava figure astratte e mutevoli. Dai rami più alti degli ippocastani il carosello di richiami delle civette, alle prese con le nuove nidiate, già riempiva l’aria.
Tutt’intorno agli alberi centenari, l’azzurro delicato di un mare di “non ti scordar di me” si confondeva col colore nero della terra odorosa di muschi, interrotto di tanto in tanto da minuscole collinette di terriccio, segno del lavoro di infaticabili talpe.
Si sentì parte di quell’incanto; l’anima, libera, si mescolò con gli odori e i colori della sera, librandosi in alto, su, su fino a dove i rami degli alberi incontravano il cielo e da lassù guardò il mondo.
“Vieni dentro, Maria! Siamo già a tavola.” La madre appariva nervosa e preoccupata; i fratelli erano già seduti ai loro posti e stavano mangiando in silenzio. Le bastò un’occhiata per capire. Il posto a capo tavola era vuoto, il padre non c’era.
“Dov’è papà?”, chiese la bambina con nascente apprensione. “Non si sente bene, è andato a letto; siediti e mangia. Perché hai tardato tanto?”, rispose di rimando la donna, cercando di cambiare discorso.
Maria raccontò distrattamente cosa aveva fatto nel pomeriggio, tendendo l’orecchio verso le stanze da letto: “Cos’ha? E’ per via del nonno?”, “No, no, ha solo mal di stomaco, domani sarà tutto passato.” Il fratello maggiore la guardò con uno sguardo cupo, senza aggiungere una parola mentre Marta, continuando a mangiare la minestra, canticchiava sottovoce una monotona cantilena, lo faceva sempre quando aveva paura. “E tu, piccolino, non mangi la pappa?”, chiese Maria all’ultimo nato che stava sbattendo con forza il cucchiaio sul seggiolone.
Il padre doveva essere rincasato presto quella sera, probabilmente già ubriaco; questa volta le era andata bene ma non era sempre così. Capitava spesso che l’uomo eccedesse nel bere ed allora ogni remora ed inibizione sparivano.
Diventava un’altra persona; la violenza verbale di cui era capace spiazzava tutti in famiglia, dalla moglie che cercava di arginare tanta negatività, nel tentativo di preservare la serenità dei figli, a questi che non capivano perché, a volte, quel padre che li amava tanto potesse trattarli in modo così terribile.
Maria lo odiava con tutta sé stessa in quei momenti, sentiva nel cuore un rancore la cui potenza era pari solo all’amore che provava per lui quando l’uomo era in stato di grazia e le riservava le attenzioni di un vero padre.
Il suo cuore era teatro di un conflitto di sentimenti che la spossava e la faceva vivere in un perenne stato di insicurezza e di timore.
A volte la dolcezza del sentimento per il padre le riempiva l’anima fino alla commozione, altre volte arrivava a desiderarne la morte, per non averne più paura, per sentirsi più sicura.
Accadeva poi che, oltre il velo opaco sceso su quello sguardo cattivo e annebbiato dall’alcol, lei vedesse l’angoscia dell’uomo, l’esasperazione di chi si arrende al proprio fallimento, ed il sentimento di odio per lui si mutava all’istante in pietà.
“Domani andiamo a trovare la nonna Vincenza. La tua bicicletta è a posto, vero?”, chiese la madre, cercando di recuperare l’attenzione della bambina che s’era estraniata e stava mangiando controvoglia la minestra ormai fredda.
“Sì, è a posto, mamma; ma ci andiamo tutti?”, “No, papà non viene deve lavorare tutto il giorno.”, rispose la donna, imboccando il più piccolo.
Certo! Deve lavorare. Chissà fino a che ora dormirà domani! Pensò fra sé e sé Maria.
Una giornata sottratta alle sue indagini sarebbe stata sicuramente sprecata ma non poteva dire di no a mamma; quelle brevi visite al paese d’origine rappresentavano il solo svago che la donna si concedeva in una vita tanto dura con un uomo così problematico.
Il marito non le aveva mai proibito di andare a far visita alla madre e, soprattutto il giorno dopo una sonora sbronza, gli era persino più comodo che tutta la famiglia stesse lontana per qualche ora. Le visite alla nonna materna erano sempre un’occasione di divertimento per i nipoti; la donna viveva in campagna, in una grande casa padronale con annessi rustici, grandi estensioni di vigna e campi coltivati tutt’attorno.
Decine di stanze in cui avevano vissuto lei ed il marito con i figli avuti, otto, due dei quali morti in tenera età.
Era rimasta lei, regina desolata di quel mondo andato, a prendersi cura dell’ultimo dei figli, colpito da paralisi encefalica all’età di due anni e rimasto da quel momento prigioniero di una misteriosa malattia.
La nonna piaceva molto a Maria, la divertivano i suoi cappellini di rafia intrecciata, illeggiadriti da vistosi nastri colorati; l’incuriosiva il suo portamento aristocratico e spesso rimaneva quasi ipnotizzata dall’ondeggiare ritmico del suo importante didietro, sotto le morbide vestaglie floreali. Teatrale in ogni sua manifestazione, la vecchia accoglieva a braccia aperte l’orda scalmanata dei nipoti e non poneva mai loro divieti, eccetto scherzare con lo zio infermo o addentrarsi nella cantina grande.
Per il resto la casa, il granaio, il pollaio e la campagna intorno diventavano ogni volta teatro dei giochi più fantasiosi e, spesso, pericolosi, ai quali i ragazzini si dedicavano all’insaputa degli adulti.
Andando a letto, dopo la cena, Maria accostò l’orecchio alla porta della camera dei genitori; il padre russava pesantemente, dormiva certo un sonno profondo e non si sarebbe svegliato nemmeno se avessero ballato il cancan nella stanza accanto. Non lo avrebbe rivisto fino all’indomani sera, quando sarebbero rientrati dalla gita in bicicletta e, forse, allora lo avrebbe trovato calmo e rasserenato. La piccola s’infilò nel letto, raccolse al petto le gambe unite ed abbracciò il cuscino tenendo solo il naso fuori dalle lenzuola che le ricoprivano interamente il capo.
Il lenzuolo la proteggeva dal buio e dalle sue paure, non sarebbe servito a nulla in caso di vero pericolo, lo sapeva bene, ma così nascosta sotto ad un sottile lembo di cotone riusciva comunque a tacitare il tumulto del suo cuore ed a consegnarsi alla consolazione di un sonno pieno di sogni fantastici.
Chi volesse scrivere all'autrice, può farlo a questo indirizzo di posta elettronica: casiestremi@yahoo.it

Di Maria Prosdocimo


 
 
 
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