info@abcveneto.com

abcveneto.com mensile telematico
N. 66, VI anno, 2008 1 Settembre  2009
 
 
 


  XIV capitolo: Panta Rei

Di Maria Prosdocimo

La cinciallegra salutò il nuovo giorno che il sole non s’era ancora levato; fra gli alberi del giardino la confusione di fughe e virate dei vivaci passerotti creava un allegro trambusto.
Maria aprì gli occhi per prima e sgattaiolò fuori dalle lenzuola, avviandosi immediatamente alla finestra.
Aprì le imposte e l’aria fresca del mattino, infilatasi fra la camicia da notte e la pelle, la fece fremere di piacere.
Marta dormiva ancora profondamente, s’era scoperta tutta, come al solito, e nel sonno cercava conforto abbracciando il cuscino, grande quasi quanto lei; le rimboccò le lenzuola poi uscì dalla stanza, in punta di piedi e scalza, per non svegliare gli altri.
La cucina era silenziosa, non c’era ancora nessuno, dalle camere il rumore dei diversi respiri le giungevano come ovattati, lontani, forse solo immaginati. Si stropicciò gli occhi e aprì lo sportello del frigo; il latte era poco, sarebbe bastato solo per i fratelli, perciò mise a scaldare dell’acqua nel pentolino di smalto rosso e si preparò un tè, bello forte, con tanto limone. “Sei già in piedi, tesoro?”, il viso assonnato della madre si chinò su di lei per un bacio, “Hai dormito bene stanotte? Niente brutti sogni, vero?”.
L’episodio dell’incubo notturno della figlia di qualche giorno prima le era rimasto particolarmente impresso ed il pensiero che il turbamento della sera precedente avesse scatenato nella piccola altre ansie l’impensieriva un poco. “No, mamma, nessun incubo. Non ricordo nemmeno cosa ho sognato. Forse non ho nemmeno sognato.” aggiunse Maria, sorseggiando il suo tè bollente.
“Sogniamo sempre, Maria, anche se poi al mattino non ricordiamo nulla. Crediamo di non ricordare nulla. Il nostro cervello al contrario non dimentica nemmeno un’immagine e, quando meno ce l’aspettiamo, ecco che sbucano fuori cose che abbiamo sognato e crediamo invece di aver visto, situazioni che abbiamo sognato e crediamo invece di aver vissuto. Bello no?”
“Mica tanto bello, mamma! Cosa succede se sono felice per qualcosa che credo sia vera e invece è solo un mio sogno?” Come rispondere a quella domanda? Chissà quante volte nel corso della vita la sua bambina avrebbe assistito all’infrangersi delle proprie meravigliose visioni. Aveva senso prospettarle così precocemente la prosaicità dell’esistenza? Uccidere il sogno?
“Ha senso, piccola mia, ha molto senso, in verità. Le persone cercano la felicità anche sognando, soprattutto quando questo è il solo mezzo che hanno per trovarne un po’. Tu sei fortunata, ci sono tante cose buone nella tua vita, ma la tua fantasia è la cosa più bella. Ciò che alimenti con essa è vero come le cose che vivi nella realtà perché nasce dalla tua mente e dal tuo cuore, l’importante è che tu non viva “solo” ma “anche” di sogno.
Adesso vai a vestirti e sveglia i tuoi fratelli, fra un’ora partiamo”. La mamma sceglieva sempre strade secondarie, attraverso i campi o gli stretti sentieri sugli argini dei fiumi, per le loro passeggiate in bicicletta.
La casa di nonna distava una quindicina di chilometri dal paese e per arrivarci si dovevano attraversare vaste estensioni di campagna, superare canali irrigui sopra ponticelli di assi traballanti, lambire infine, poco prima di entrare nel piccolo borgo abitato, una secolare e meravigliosa macchia boschiva, unica testimonianza di un remoto passato di foreste che si estendevano a perdita d’occhio, prima che l’agricoltura intensiva avesse sottratto ad una natura selvaggia il suo millenario primato.
“Ci porti nel bosco?”, chiese il fratello, raggiungendo con una vigorosa pedalata la madre, in testa alla processione di biciclette, “Certo che vi ci porto, una delle prossime volte, magari.
Ci andiamo anche con le zie e i cugini, va bene?”.
Soddisfatto della promessa, il ragazzino rallentò la corsa e continuò a pedalare con andatura tranquilla, girando continuamente la testa in direzione della macchia. Chissà quanti animali e piante strane vivevano nel folto di quegli alberi, liberi e felici, ignorando l’uomo.
Gli avevano detto che lì dentro cresceva in abbondanza il pungitopo e che c’erano bellissimi e grossi cervi volanti: “Come sarebbe, cervi volanti?”, chiese Maria alla quale il ragazzo aveva riferito l’informazione, “Ma ci sono davvero? E come fanno a volare lì dentro, fra tutti quei rami fitti, grossi come sono, come ci passano con le corna?”.
Il fratello rise divertito all’idea che per la piccola il problema fosse lo spazio aereo limitato, rendendosi conto che non aveva capito che si riferiva ai bellissimi coleotteri dalle grandi mandibole, ma a inesistenti mammiferi ruminanti con le ali.
“Ma va là, stupida! Non sono cervi veri, ma insetti con mandibole che sembrano corna di cervo.
Come ti viene in mente che i cervi volino? Sei proprio stramba!”
Maria, mortificata per la figura fatta con l’esperto entomologo, ostentò un serafica indifferenza, sollevando leggermente il mento e guardando dritto davanti a sé, senza rallentare la propria andatura.
La casa di nonna s’intravedeva già, in fondo alla via, forse sarebbe bastato non aggiungere nulla, fare finta di niente; lui magari avrebbe dimenticato l’episodio; sperò con tutta sé stessa che i cugini non fossero ancora arrivati, già immaginava le risate che si sarebbero fatti se il fratello avesse spifferato tutto.
Tutti maschi e più grandi di lei, trovavano sempre molto divertente prenderla di mira ed assistere alle sue scomposte reazioni, quando lo scherzo superava il limite del consentito.
Volavano persino calci e pugni nelle lotte furibonde in cui si trovava ad affrontarli anche tutti e tre insieme, soccombendo puntualmente all’odiosa alleanza.
Con il consueto sorriso aperto e generoso la nonna li accolse al cancello: “Come stanno i miei diavoletti? Venite dentro che vi aspetta una buona aranciata.” Marta scivolò velocemente dal sellino posteriore della bicicletta della madre, mentre quest’ultima traeva dal seggiolino anteriore il figlio più piccolo che le si aggrappò al collo come l'edera al muro.
Accalorati e stanchi, entrarono nell’ombra ristoratrice del salottino azzurro, il più bello della casa, dove nonna riceveva gli ospiti sebbene poi finisse sempre col migrare insieme a questi nella piccola e più accogliente cucina, luogo ideale per una maggiore intimità e confidenza.
Il tempo di tracannare la bibita ed i tre figli più grandi avevano già guadagnato l’esterno insieme ai cugini arrivati poco prima.
Nella fresca penombra un abbraccio affettuoso fra le due donne, rimaste sole con il piccolino, riattivò immediatamente una comunicazione profonda che non necessitava di troppe parole.
La giovane sposa raccontò alla madre, per sommi capi, gli ultimi accadimenti: “Lo so che è dura, Gabriella, specialmente per te che sei così sensibile, ma è tuo marito, il padre dei tuoi figli, ora più che mai devi stargli vicina. Lo sapevi quando l’hai sposato.”
Era vero; l’aveva capito sin dall’inizio che non sarebbe stata una passeggiata ma non aveva saputo immaginare quanto potesse essere faticoso e disperante, a volte, vivere accanto ad un uomo tanto contaminato dal dolore.
La madre aveva inizialmente osteggiato la scelta della figlia, la cui determinazione tuttavia aveva avuto la meglio in un contrasto non privo di risvolti particolarmente tristi.
Una volta celebrato il rito nuziale, tuttavia, in ossequio ad un rispetto incondizionato per l’istituto del matrimonio connaturato alla sua radicata fede religiosa, erano immediatamente cessate le ostilità, aveva accolto in famiglia l’uomo e gli aveva riservato le stesse attenzioni destinate agli altri generi. Gabriella lo amava, ne era ancora innamorata, a distanza di anni e non ostante le frequenti amarezze, eppure una parte importante di lei non riceveva alimento né luce da quel sentimento. Le sue più delicate speranze di giovane sposa, il suo profondo desiderio di comunione e condivisione, s'infrangevano contro il muro impenetrabile dell’insoddisfazione esistenziale del marito.
La sua energia era bastata inizialmente ad attrarlo miracolosamente alla vita, ma non era stata poi sufficiente ad indurlo a godere fino in fondo delle tante occasioni di serenità che lei sapeva offrirgli.
Una battaglia che sembrava perduta, in un bilancio obiettivo che tenesse conto solo del loro rapporto, e tuttavia Gabriella non si dava per vinta. C’erano i figli, quattro meravigliose creature che avevano il diritto di essere serene, alle quali la vita avrebbe sicuramente riservato un sorte diversa e piena di gioie che lei era decisa a favorire.
La sorella Agnese, mollemente adagiata su una delle poltrone di broccato celeste, lavorava silenziosamente all’uncinetto e ascoltava con discrezione. La sua natura impulsiva l’avrebbe spinta a scagliarsi contro il cognato, in difesa della sorella, ma una generosità ancor maggiore la tratteneva dal farlo. Il confronto fra la sua condizione di moglie soddisfatta e oggetto di mille attenzioni da parte del coniuge e quella problematica della sorella le provocava rabbia e risentimento.
Gabriella era sempre stata la migliore di tutte loro, ai suoi occhi, quella che in una graduatoria di merito avrebbe certamente dovuto occupare il primo posto. Esprimere questi pensieri non sarebbe servito però a risolvere la situazione, al contrario, avrebbe solo procurato nella sorella una ancor più grande amarezza. “Mi sembra che Maria sia un po’ più calma dell’ultima volta, come ha reagito alla morte del nonno?”, le chiese Agnese senza alzare gli occhi dalle mani laboriose.
“Bene, mi sembra, anche se i primi giorni è stata piuttosto agitata. Sta lavorando ad una ricerca per la scuola con alcune compagne e credo che questo impegno si molto utile a tenerla occupata mentalmente.”
“Di cosa si tratta?”, chiese la vecchia madre, incuriosita; “Devono cercare informazioni e notizie sul fiume Livenza; racconti e aneddoti che riguardino la storia di questo corso d’acqua per il tratto che attraversa il nostro territorio.”, “Interessante, imparerà tante cose nuove. Non c’è nessun pericolo vero? Non devono avvicinarsi al fiume?”, chiese ancora la vecchia, “No, no, fanno solo delle interviste a persone del paese e ricerche in biblioteca, niente di pericoloso.”, le rispose la figlia.
Gabriella aveva smesso di parlare del marito, si diresse ad una delle finestre che davano sul cortile interno della grande casa, seguita da figlioletto che la tirava per un lembo della sottana. Tirò la pesante tenda di cotone ocra e rimase affacciata a guardare fuori.
Nel cortile assolato della sua infanzia la fontana rovesciava la freschissima acqua ferruginosa nel vecchio tino aggredito dal muschio, facendo ruotare e sobbalzare, sprofondare e riemergere, alcuni grossi cocomeri messi in fresco dalla nonna.
I ragazzini giocavano all’ombra dell’antico noce, tirandosi gavettoni d’acqua e urlando di piacere ed eccitazione.
Non si accorse subito dell’assenza delle piccole, distratta dagli schiamazzi; probabilmente erano andate a cercare fiori lungo il fosso dietro la casa. La sua attenzione fu attratta dalle proteste del figlioletto che sentendo le voci dei bambini in cortile, ma non arrivando al davanzale per riuscire a vederli, reclamava vivacemente di essere condotto dove gli altri si stavano divertendo così tanto.
Maria e Marta avevano già raggiunto il granaio, passando per il fienile, in una delle grandi barchesse addossate al corpo centrale della casa.
L’arioso locale, dove i mezzadri della nonna ammassavano quelle che a loro apparivano vere montagne gialle di mais sgranato, era una delle mete preferite per sempre nuove esplorazioni. Si liberavano di scarpe e calzini e correvano a piedi nudi, in lungo e in largo, saltellando sui grani piccoli e duri sparsi ovunque sopra il pavimento di assi, finendo sempre col tuffarsi ad angelo sui mucchi più alti.
Di tanto in tanto un topolino sbucava dal grano e fuggiva terrorizzato alla vista delle due strane creature.
Maria talvolta ne rincorreva uno cercando di capire dove andasse a nascondersi. Nei cartoni animati della televisione c’era sempre una piccola apertura a volta sul muro e il topo vi si infilava rapidissimo per scampare alle grinfie del gatto.
Sapeva bene che nessun topo sarebbe mai riuscito a fare un pertugio così perfetto ma da qualche parte ci doveva pur essere un foro, un varco attraverso il quale l’animale passava per arrivare da qualche altra parte nella casa. Immaginava un misterioso mondo parallelo, intrappolato nelle intercapedini dei muri domestici, chissà quali altri esserini si celavano in quegli spazi angusti, fra l’intonaco ed i mattoni.
Marta era ormai stufa di quel gioco, voleva raggiungere gli altri in cortile e spruzzarli d’acqua, quando l’attenzione della sorella fu attratta dal lampo giallo degli occhi magnetici di Cornelia, la vecchia gatta nera di nonna. L’animale fissò per qualche istante la bambina poi, sorniona e indifferente si diresse senza fretta verso una porticina di legno dipinto della stessa pittura bianca delle pareti che le bambine non avevano mai notato, essendo sempre stata chiusa.
Il felino sgattaiolò lesto oltre la porta socchiusa e svanì nel buio. “Dai, Marta, seguiamola!”, “No, no, ho paura!”, rispose la piccina intimidita dalla novità.
“Cosa vuoi che ci sia lì dietro? Se la gatta è tranquilla non ci può essere niente di brutto.”
Afferrò la mano della sorellina e la trascinò con sé, a forza.
Oltre la misteriosa porta, nell’oscurità, s’indovinava appena uno stretto corridoio privo di finestre, doveva trattarsi di un passaggio segreto, del quale nemmeno nonna era a conoscenza, forse. Avanzarono a tentoni, trattenendo il respiro, attente ad ogni minimo rumore.
L’immaginazione di Maria si accese e già nella sua mente cominciavano a prendere vita magiche storie di spiritelli allorché si accorse del primo gradino di una scala a chiocciola che scendeva al piano inferiore.
“Torniamo indietro, Maria, ho paura!”, singhiozzò Marta, sempre più ansiosa, “Ormai ci siamo, vediamo cosa c’è in fondo alla scala, non essere frignona, ci sono io qui con te.”
Giunte alla fine dei numerosi gradini si ritrovarono in uno stanzone enorme e buio, nel quale la luce del giorno filtrava attraverso i vetri sporchi e le inferriate di alcune finestrelle.
A poco a poco i loro occhi si abituarono alla scarsa luce e ben presto videro i grossi tini che occupavano gran parte del locale e, in fondo alla stanza, una catasta di damigiane impagliate.
L’odore forte di vino del legno imbevuto e quello acre di vinaccia che aleggiava nell’aria suggerì immediatamente loro la risposta.
Erano entrate nella cantina grande!
Il perentorio divieto di nonna risuonò nei loro orecchi come se la donna fosse stata lì presente.
Le sorelle, la cui ansia aveva avuto una improvvisa impennata, resesi conto di essere penetrate in un luogo proibito più ancora che misterioso, si guardarono intorno senza capire cosa vi fosse in quella stanza che meritasse d’essere occultato, la cui visione dovesse essere negata sia a loro che agli altri bambini della famiglia.
Un po’ deluse dall’aspetto ordinario del luogo, tornarono sui loro passi e raggiunsero il granaio.
“Non dire niente a mamma, Marta; questo è il nostro segreto.”
La piccola annuì, ritrovando il sorriso nel chiarore abbagliante del granaio inondato di sole. Scesero al fosso dietro la casa e cominciarono a strappare mazzetti di primule da portare alla nonna.
“Dove vi eravate cacciate, voi due?”, chiese loro con aria severa il fratello che capitanava il drappello di maschietti boriosi impegnati nella ricerca delle fuggiasche.
“Siamo sempre state qui!”, rispose Maria con aria di sfida, “Non è vero, prima non eravate qua dietro!”, protestò il ragazzino al quale gli altri due davano man forte, “Questo lo dici tu, nemmeno io ti ho visto arrivare prima.”
“Bene, brutta pestifera, adesso ti porto dalla mamma, vedrai come te le suona!”; Maria cacciò fuori la lingua senza pensarci due volte.
“Ah! E’ così, l’hai voluto tu! Ehi, voi”, disse baldanzoso rivolto ai cugini, “Lo sapete che nel bosco qui vicino ci sono cervi che volano?”.
“Come sarebbe cervi che volano?”, chiesero gli altri, “Sì, proprio dei veri cervi volanti, grossi e con corna enormi. Volano fra gli alberi e si scontrano in continuazione. Certe botte!”
Maria fulminò il fratello con un’occhiata che non lasciava spazio a dubbi su ciò che avrebbe fatto se solo il rapporto di forze fra loro fosse stato a lei meno sfavorevole.
Il ragazzo raccontò ai cugini quello che era accaduto appena poco prima, suscitando grande ilarità.
Era fatta ormai! Sarebbe diventata lo zimbello di tutti per chissà quanto tempo; non bastavano le prese in giro di sempre, adesso le avrebbero dato anche dell’ignorante e tutto perché aveva interpretato letteralmente il nome di quei maledetti coleotteri.
La nonna, con la madre e zia Agnese, erano nel frattempo scese in cortile e stavano tagliando generose fette di anguria, disponendole su due vassoi sopra un tavolo posticcio, ricoperto con una tovaglia plastificata e portato all’esterno per l’occasione.
Maria, allontanatasi da tutti e un poco discosta, rimase ad osservarle mentre conversavano amabilmente fra loro, indaffarate attorno al desco e attorniate da figli e nipoti; quell’immagine di serenità e quiete contrastava enormemente con l’ironica definizione che il padre dava, talvolta, dell’allegro gineceo.
Il “sinedrio”, lo chiamava, spesso ridendo, altre volte con un tono di voce sprezzante; la piccola aveva cercato nel dizionario il significato di quella strana parola e non ne era rimasta contenta.
Nemmeno la distrazione delle rosse e zuccherine fette di squisito cocomero bastò a far desistere fratello e cugini dal prendersi gioco di lei.
La visione delle loro bocche allargate e grondanti di succo che addentavano voracemente la polpa profumata del frutto le ripugnò; guardò Marta che, compita e meticolosa, ritagliava dalla propria fetta piccoli cubetti perfetti, portandoli alla bocca uno per volta e masticando graziosamente.
“Quando saremo grandi e sposate, inviterò solo te a pranzo a casa mia...”, le sussurrò in un orecchio. La sorellina le sorrise compiaciuta e piena di gratitudine: “Anch’io, Maria. Inviterò solo te e tuo marito”.
C’erano alcune cose che entrambe proprio non riuscivano a tollerare, di fronte alle quali nemmeno una opportuna comprensione umana veniva loro in soccorso; detestavano vedere le persone avventarsi con foga sul pasto, soprattutto non sopportavano i rumori, l’ansimare di chi ingurgitava grandi quantità di cibo senza soluzione di continuità, ripulendo con pochi bocconi il piatto.
Nessuno fra i familiari si sottraeva al loro implacabile giudizio, le due sorelle non mancavano mai di rimarcare a sé stesse la grande distanza che le separava dagli altri.
Maria si allontanò senza annunciare le sue intenzioni ed entrò in casa, lasciando che il resto della compagnia pensasse che fosse andata al bagno. Non vista, uscì dall’ingresso principale, imboccando furtivamente la strada che avevano fatto per giungere lì. Non aveva potuto prendere la bicicletta, appoggiata al tronco del noce, in cortile, perciò l’aspettava una lunghissima camminata fino a casa ma la circostanza non servì a trattenerla.
Ne aveva avuto abbastanza di quegli stupidi; mamma e nonna, per giunta, non erano nemmeno intervenute in sua difesa, troppo prese dai loro discorsi.
Le dispiaceva solo per Marta, l’avrebbe portata con sé se non fosse stata sicura che la sorellina si sarebbe stancata presto di camminare, non era tosta come lei. Nessuno si sarebbe azzardato a prenderla in giro in quel modo se ci fosse stato lì papà, ne era convinta e le lacrime trattenute davanti al fratello e ai cugini scesero abbondanti sul visino rosso per l’emozione.
Era trascorsa forse un’ora quando fu raggiunta dalla Cinquecento bianca di zia Agnese; la donna fermò l’auto sul ciglio della strada e scese rapidamente, con una faccia scura ed interrogativa: “Cosa diavolo ti passa per la testa? Dove pensi di andare, da sola?”, Maria impallidì, non aveva mai visto la zia così arrabbiata: “Voglio andare a casa mia!” riuscì a sussurrare appena, “I tuoi figli sono cattivi e anche quell’idiota di mio fratello...”
“Sali subito in macchina! Tua madre è in pena per te, sei proprio una peste di bambina!”
Aveva percorso un buon tratto di strada in quel lasso di tempo, perciò il ritorno in macchina durò diversi minuti, durante i quali un imbarazzante silenzio regnò nell’abitacolo, rotto solo dai colpi di tosse della piccina. Accadeva sempre, quando era agitata, che lo stress emotivo le facesse venire una tosse nervosa ed insistente.
La madre lo notò immediatamente, appena le fu di fronte e comprese che prima di redarguirla avrebbe dovuto provare a calmarla.
“Perché sei scappata, tesoro?”, le chiese stringendola a sé, allargando l’abbraccio anche a Marta che era sopraggiunta di corsa, a braccia tese. “Non ci vengo più qui, mamma, non voglio più venire dalla nonna!”, rispose la figlia, prima di scoppiare a piangere e non riuscendo ad aggiungere altro. “Venite con me, bambine, e voi restate qui”, intimò la madre rivolta agli altri e prendendo per mano ciascuna delle figlie. “Voglio farvi vedere una cosa molto speciale.”
Madre e figlie entrarono in casa e salirono una scala interna che conduceva alla soffitta; le sorelle l’avevano fatta tante volte durante le loro perlustrazioni ma non erano mai entrate nella soffitta.
“Guardate!”, esclamò la donna, sollevando un pesante drappo impolverato che svelò il prezioso tesoro custodito lì sotto forse da decenni: “E’ la mia culla, guardate quanto è bella!”
Era in effetti un oggetto bellissimo; una culla di legno, tutta intarsiata e dipinta a mano, sufficientemente spaziosa per contenere un neonato e probabilmente anche un bambolotto come il Ciccio Bello che Marta aveva avuto in regalo a Natale.
“Com’è bella, mamma! Perché l’hanno nascosta quassù, possiamo tenercela?”, chiese Marta che già immaginava il manufatto in un angolo della loro cameretta. “Proviamo a chiederlo a nonna, se lei è d’accordo facciamo venire papà a prenderla con la macchina.”
Il malumore e la tristezza abbandonarono repentinamente il cuore di Maria, nel quale era tornato il sole come dopo un fugace acquazzone estivo; le erano bastati la comprensione materna e il sentirsi parte di qualcosa di esclusivo per ritrovare la consueta giovialità.
Nonna non ebbe niente in contrario a cedere l’amato ricordo e tale generosità le assicurò un accrescimento delle sue quotazioni nell’affetto delle nipotine.

Chi volesse scrivere all'autrice, può farlo a questo indirizzo di posta elettronica: casiestremi@yahoo.it

Di Maria Prosdocimo


 
 
 
Il mensile telematico abcveneto.com è gestito da Abcveneto, associazione culturale - codice fiscale 94113202606

HTMLpad