n.77 VII anno, 1 agosto 2010
XXV capitolo: Panta Rei

Di Maria Prosdocimo
“A volte i miracoli succedono!”, pensò Maria guardando dalla finestra della cucina la Fiat Cinquecento bianca di zia Agnese allontanarsi in un nugolo di polvere.
Appena una settimana dopo i fatti che tanto avevano turbato la ragazzina, s’era presentata a casa la gioviale parente, annunciando di voler portare al mare con sé, per una decina di giorni, le nipotine.
Marta aveva esultato ed era corsa immediatamente a recuperare palette e secchielli, biglie e formine di plastica; Maria era invece riuscita a convincere madre e zia che un’interruzione così prolungata delle sue ricerche avrebbe avuto pesanti conseguenze sull’esito del lavoro.
Senza l’aiuto di Emma e assente Costanza, il suo impegno personale era raddoppiato, triplicato anzi e, a tutti i costi, lei desiderava far bella figura con il maestro.
Marta protestò un poco, ma non pensò neanche per un attimo di rinunciare all’insperata vacanza: il mare esercitava un’attrazione fatale su di lei e poi stava sempre volentieri con quella zia.
La placida e amorevole donna sapeva essere molto materna e rassicurante, per pochi giorni la piccina non avrebbe sentito eccessivamente la nostalgia di casa, anche in assenza della sorella maggiore.
Finalmente libera, Maria avrebbe avuto la possibilità di riorganizzare al meglio le idee e magari escogitare qualche nuovo stratagemma per accelerare la scoperta dell’identità del misterioso cadavere.
“Tutta sola oggi?” chiese, vedendola entrare, il bibliotecario, alzando appena lo sguardo dal registro che stava controllando; “Eh, sì! Ma me la caverò lo stesso. Posso andare?”, domandò rispettosamente Maria, pur sapendo che la risposta sarebbe stata affermativa.
“Vai pure, vai! Chissà che dopo aver letto tutti quegli articoli non ti venga la voglia di fare la giornalista, da grande...”
Non ci aveva ancora mai pensato a cosa fare nella vita e l’idea le piacque; “Perché no?”, rispose la ragazzina. In fondo amava scrivere e non sarebbe stata una brutta idea trasformare quella passione in un vero lavoro.
Viaggiare, esplorare il mondo, conoscere gente diversa e, chissà! Arrivare fino in Canada, dal suo Angelo.
La sala le sembrò un po’ più buia del solito, “Terranno chiusi gli scuri per il troppo sole, oggi fa davvero un caldo infernale.” pensò, mettendosi subito all’opera.
Prese un fascio di giornali del 1970 e iniziò a sfogliarli, soffermandosi di tanto in tanto anche su articoli della pagina nazionale e internazionale che per il titolo richiamavano la sua attenzione.
“Biafra”. Quel nome lo aveva udito spesso nei discorsi di mamma e papà e ogni volta che la conversazione era scivolata sull’argomento della tragedia africana la tristezza della donna non era sfuggita alla bambina.
Improvvisamente le tornò in mente il ricordo di un mattino di due anni prima quando papà era riuscito a fatica a trattenere la moglie dal disfarsi del prezioso collier d’oro, avuto in dono dai suoceri il giorno del fidanzamento, per mandarne il ricavato ai missionari italiani che aiutavano i tanti disperati di quel Paese martoriato dalla guerra e dalla fame.
I bambini del Biafra avevano braccia e gambe magrissime, ventri gonfi e tesi come pelle di tamburo, occhi infossati e pieni di lacrime e tante mosche camminavano sui loro corpicini denutriti.
Ne vedeva ora per la prima volta le foto, in bianco e nero, e sentì un tuffo al cuore.
Alcuni di loro sembravano avere la sua stessa età, altri potevano essere nati lo stesso anno di Marta e alcuni ancor più piccoli non erano più alti dell’ultimo fratellino.
Gli occhi delle povere creature, sfinite dalla fame e dalle privazioni, privi di ogni luce e perduti negli abissi della disperazione, raggiunsero il suo cuore e lo risucchiarono in un vortice di mortale tristezza.
Il bibliotecario, richiamato dai suoi singhiozzi, la raggiunse e le pose una mano sulla spalla, scuotendola un poco: “Che ti succede, ragazzina?”, chiese mentre lo sguardo gli scivolava sulla pagina aperta del giornale.
“Ma è roba di due anni fa! Non vorrai piangere per una cosa già passata?”; Maria lo guardò con aria sperduta e incredula.
Come poteva essere così superficiale, il giornale parlava di quasi un milione di morti! Era forse cosa di poco conto? Una tragedia da archiviare solo perché nessuno ne parlava più?
Voleva restare da sola e gli rispose che non si preoccupasse, che tornasse pure al suo lavoro, ma lui invece le si sedette accanto, accampando la scusa che non se ne sarebbe andato fino a quando non avesse visto sparire anche l’ultima lacrima da quel bel visino.
“Questi occhioni belli non devono piangere per le cose brutte del mondo...”, cominciò a sussurrarle a bassa voce, allungando la mano per accarezzarle il viso. Maria cominciò a sentire imbarazzo e paura, ma non riuscì a muoversi dalla sedia. Cosa poteva volere da lei quell’uomo adesso?
Non era suo padre: perché l’accarezzava in quel modo?
“Non aver paura piccola, non ti faccio male, voglio solo vederti sorridere...” L’uomo posò poi la grossa mano callosa sui rigonfiamenti del petto della bambina che da qualche mese stavano modificando l’aspetto del suo corpo ancora acerbo; i seni minuscoli le dolevano e ogni volta che per sbaglio urtava contro qualcosa, oggetto o persona che fosse, avvertiva un dolore acuto che durava alcuni minuti. “Non stiamo facendo niente di male, sai? Toccarsi è una cosa naturale, come bere o mangiare, ci si conosce meglio toccandosi. Senti qui...”, aggiunse, ammorbidendo la voce e afferrandole la mano per attirarla verso il suo sesso. Ripresasi dallo sbigottimento, come da un brutto incubo, si ritrasse rabbiosamente e si alzò di scatto dalla sedia, cominciando a indietreggiare lentamente, senza staccare gli occhi dal suo molestatore che, rimasto a sedere, continuava a fissarla con un sorriso idiota stampato in volto. Precipitatasi fuori dall’edificio, Maria corse verso casa quanto più velocemente poté, sentendo nel petto un tumulto doloroso il cui rombo le risuonava fragorosamente nel cervello e negli orecchi.
“Che hai, Maria?”, le chiese la madre vedendola entrare, sudata e tremante. “Niente, niente , mamma, ho fatto una gran corsa e non sento più le gambe.”, “E da cosa sei fuggita, piccola mia”, aggiunse sorridendo la donna, “dal diavolo?” Maria non rispose e salì rapidamente le scale raggiungendo la sua stanza, chiudendovisi a chiave e rimanendo finalmente sola.
Perché non aveva reagito subito, al primo sentore di ciò che stava per accadere? Perché, per un attimo, aveva lasciato che quell’uomo la toccasse così intimamente? Un pensiero terribile la colse d’improvviso: forse sulle prime non le era nemmeno dispiaciuto, forse aveva persino provato un certo piacere ad essere sfiorata. Cominciò a sentir crescere dentro di sé un senso sgradevole di vergogna, un disagio profondo.
No, no! Non era andata così, era stata la paura a paralizzarla per qualche istante, la paura e lo stupore per qualcosa che non le era mai accaduto prima, che l’aveva colta alla sprovvista.
Rivisse cento volte nella mente la stessa scena, cercando disperatamente di individuare tutti i segni della propria resistenza, ma il dubbio di non essere stata abbastanza determinata a respingere l’aggressore non l’abbandonò. Era questa la vera ragione che l’aveva spinta a nascondere l’accaduto a sua madre e la vergogna le avvelenò l’anima.
Non poteva più tornare in biblioteca, non da sola perlomeno; poco male, probabilmente nei giornali del 1971 non avrebbe trovato nulla che avesse a che fare con quelle ossa che probabilmente erano di qualcuno morto già da parecchi anni.
Decise di modificare la strategia e di dedicarsi, d’ora in avanti, solo alle interviste a personaggi potenzialmente interessanti, ma prima sarebbe tornata a fare una visita al vecchio Tarzan, con una scusa qualsiasi, per parlare un po’ con lui e magari scoprire dell'altro.
Dopo cena il padre scese nel suo laboratorio per dedicarsi ad un nuovo restauro, si trattava di una grande pala del Seicento questa volta, proveniente dal tempio di una vicina località, il cui parroco aveva apprezzato gli interventi effettuati dall’artista mottense in precedenti lavori.
Maria rimase a riordinare la cucina insieme alla madre mentre i fratelli guardavano divertiti le scenette di Carosello; “Ho saputo qualcosa sul conto del padre di Emma.”, le disse all’improvviso la madre, “Ha problemi di alcolismo ed è stato anche molto ammalato in passato.”, aggiunse con voce piena della sua solita comprensione.
La bambina restò ad ascoltare il resoconto puntuale della madre, venendo a conoscenza di alcuni particolari che potevano in parte spiegare l’atteggiamento burbero e scontroso dell’uomo.
“Ma cosa c’entra Emma?”, protestò, non riuscendo a comprendere il legame fra l’umore dell’adulto e la violenza fisica che egli infliggeva ai familiari inermi; “Anche papà tante volte è di umor nero ma dice solo parolacce e poi, come ripeti sempre tu, le dice ma non le pensa davvero.”
La donna sorrise, accarezzando dolcemente la figlia, “E’ vero Maria, ma le persone sono tutte diverse, c’è chi reagisce in un modo, chi in un altro. Il papà di Emma dovrebbe farsi aiutare da qualcuno e forse lo farà, ma è una cosa lunga e difficile, prima deve rendersi conto di quello che gli succede. Ho parlato con una persona che è molto vicina alla famiglia e ho ricevuto assicurazioni che qualcosa sarà fatto, stai tranquilla che tutto andrà bene.”
La calma serena della madre bastava da sola, ogni volta, a riportare nel suo cuore fiducia e speranza. “Grazie mamma, per fortuna ci sei sempre tu.”, pensò Maria, stringendole le braccia intorno alla vita e premendo la testolina sul suo ventre accogliente.
Avrebbe voluto raccontarle quello che le era accaduto solo poche ore prima, sentì le lacrime salirle agli occhi, ma le ricacciò giù, affondando ancora di più il visino nel grembiule della donna.
Carosello finì e la cucina si rianimò nuovamente delle voci e degli strepiti dei ragazzini; “Da bravi, tutti a letto adesso!”, disse la madre alzando leggermente il tono della voce per imporsi sul gran trambusto.
Le proteste di rito e i puntuali capricci cessarono nel giro di qualche minuto. Alla fine, spenta la televisione e messi a letto tutti i marmocchi, la donna, esausta ma serena, si lasciò scivolare sull’ottomana e vi allungò le gambe stanche, rimanendo a gustarsi per un po’ la meravigliosa quiete della sera. La notte estiva spandeva il suo profumo e una brezza dolce lo diffondeva in ogni angolo della casa silenziosa.
Nel suo letto Maria vegliava, non riuscendo a trovare pace.
Non appena il sonno pareva avere la meglio sul tumulto dei suoi pensieri ecco che un particolare della vicenda, prima trascurato, le balzava alla mente, rimettendo in moto il marasma di assilli e congetture che la turbavano dal pomeriggio. Udì distintamente i rintocchi della mezzanotte ma non sentì quello della prima ora mattutina.
“Oh, bèa! Qual bon vento te pòrteo da 'ste bande?”, le chiese Tarzan la mattina successiva, non appena la vide arrivare in sella alla bicicletta rossa e frenare di colpo a un metro da lui; “Varda cossa che te me a combinà col gerín! Meti a posto quei sassi e vién a sentarte qua da vissín de mi!”
Muovendo a zig-zag il piede destro, Maria spianò i monticelli di ghiaia creati con la brusca frenata e coprì i solchi lasciati dalle ruote; “Così va bene?”, chiese al contadino con aria furbetta.
L’uomo sorrise e senza alzarsi dalla seggiola, continuò a badare al suo lavoro. Stava riparando la rete di un martavellone: “Te piase i bisati?”, chiese alla ragazzina che osservava incantata il movimento agile e sicuro delle sue mani, “Eccome! Papà ci fa sempre il brodetto, ma mi piacciono ancora di più alla griglia, con tutta la pelle croccante e salata.” gli rispose, accompagnando le parole con un’espressione inequivocabile di piacere e lasciandosi trasportare dal ricordo dei sapori e degli odori dei pranzi tante volte consumati con la famiglia sul terrazzo della trattoria di Caorle.
Tarzan si alzò dal sedile e l’invitò ad entrare in casa; nella grande cucina, distesa su un letto rimediato alla meglio, giaceva Cita, febbricitante.
“La é in lèt da 'na setimana; el dotór l'ha dito che no l'é gnènt de grave e che la guarirà presto ma quel là nol capisse gnènt. La vècia la vol morír, l'a deciso che l'é rivà la so ora e nissún ghe farà cambiar idea.”
Maria si avvicinò al giaciglio della donna; fra le lenzuola, nella penombra, sembrava ancora più minuta e consumata dalla magrezza.
Forse delirava o stava sognando ad occhi aperti perché appena vide la bambina la chiamò con un altro nome.
“Chi è Anna?”, chiese Maria, rivolta all’uomo; “La jèra so fia, la é morta 'negada tanti ani fa, me par che l'avesse pressapòc la to età”, le rispose Tarzan, mentre da una pentola annerita dal fuoco della cucina a legna cavava un mestolo di roba scura e lo versava in una fondina di terracotta.
“Com’è morta?”, chiese ancora Maria mentre, sedutasi sul bordo del letto, teneva fra le sue mani quelle della vecchia, fredde e madide, nonostante la febbre. “'Negada 'ntea Livensa; la jèra 'ndata a lavar la roba da soêa e la é cascada in acqua...”scivolò nel fiume a primavera”, proprio come la Marinela dêa cansón...”, disse l’uomo che aveva una vera passione per i cantautori italiani e infarciva spesso i propri discorsi di frasi tratte dai brani più amati e imparate a memoria. “No la savéa nodár e no jèra nissún da vissín che la podesse sentír sigar, purtropo. Ma la deve esser 'negada subito, le corenti dêa Livensa no le perdona”, aggiunse scrollando la testa come a sottolineare l’inevitabilità di ciò che il destino riserva a ciascuno.
“L’hanno ritrovata poi?”, chiese Maria nella cui mente per un attimo era balenata l’idea che le ossa nascoste nella sua cisterna potessero appartenere proprio alla piccola Anna. Ma non era possibile, lo capì subito; il luogo del ritrovamento era molto più a monte rispetto a quello dove la bambina aveva trovato la morte e poi ricordava bene che per le dimensioni il teschio doveva inequivocabilmente essere quello di un adulto, non certo di un bambino.
“No! No i l'a pì trovada, mi credo che i se a sia magnàda i lussi o la é rivada fin a Caorle, chissà! Comunque la vecia no la jèra sposada e quea pòra fia l’avae vua co un 'striaco dêa prima guèra. 'Sto bastardo l'a fato i so porchi comodi e l'ha tajá la corda subito, ma forse l'é sta mèjo cussì.” concluse Tarzan, mostrando di voler cambiare discorso. In fondo l’aveva invitata in casa per farle assaggiare la sua anguilla in umido, non certo per rivangare memorie dolorose ormai sepolte da tempo immemore. “'Saja e dime còssa che te par!”, le disse porgendole il piatto; Maria accettò l’offerta, sebbene la precaria situazione igienica della stanza la mettesse a disagio.
Sulla repulsione tuttavia prevalsero le buone maniere, portò così alla bocca un pezzo del gustoso pesce.
“E’ una meraviglia, Tarzan! Sei bravissimo, quasi come il mio papà.”, esclamò la bambina; “Come, squasi?”, rispose lui impermalito; “Dai, scherzo, è buonissima davvero.”, lo rassicurò Maria.
L’uomo sembrò molto soddisfatto ed emozionato e come accadeva sempre nei pochi momenti di contentezza, come in quelli più frequenti di depressione, si versò un bel bicchiere di vino rosso e lo tracannò in un solo sorso.
“Conossitu la storia del putèl de Viaregio?”, le chiese guardandola con gli occhi che già iniziavano ad inumidirsi.
La conosceva, certo che la conosceva. Le aveva fatto ascoltare chissà quante volte ormai la triste ballata che Trincale aveva dedicato a quel fatto di sangue. Ogni volta l'uomo faceva andare il vinile sul giradischi scassato che teneva sopra la credenza della cucina, restava seduto ad ascoltare e puntualmente cominciava a piangere, più o meno copiosamente a seconda della quantità di alcol già ingerita.
Il selvatico e misantropo contadino aveva in fondo un cuore di pane e la vicenda del piccolo Ermanno Lavorini, rapito, ucciso e sepolto nella pineta toscana, qualche anno prima, lo aveva sconvolto profondamente.
Aveva consumato i tre quarantacinque giri a forza di ascoltarli e ogni volta la commozione lo travolgeva, suscitando in lui una rabbia cieca contro gli ignoti autori dell’efferato delitto.
Maria gli si avvicinò, superando un timore residuo per l’uomo che ancora non l’aveva del tutto abbandonata. Allungò la mano e lo accarezzò sulle gote: “Peccato che la gente non sappia quanto sei buono!”, disse guardandolo dritto negli occhi.
“No m’inporta gnènt dêa 'sènt; varda cossa che la é bona de far la 'sènt! Copár putei inocenti. Bestie! Maedete bestie!”, urlò con voce rotta dalla commozione. Cita si agitò un poco, nel letto; la voce alterata del nipote aveva per un istante interrotto i suoi vaneggiamenti, ma ripiombò ben presto nella vaghezza di misteriosi sogni e visioni allucinate.
“Tiente aêa larga da chi che te fa moine, Maria; sta 'tenta a quei che i fa massa i gaêanti. Ormai te si drío deventar grandeta e serte bestie 'e s'inacor'se...”, sospirò, come se fosse stato improvvisamente sopraffatto da un pensiero cupo. Maria lo rassicurò, promettendo che sarebbe stata sempre guardinga e vigile. A lui forse avrebbe potuto parlare dell’uomo che aveva insinuato un’ombra nella purezza dei suoi pensieri di bambina, ma si trattenne, non volle procurargli altra amarezza.
Cominciava già a delinearsi un aspetto caratteriale della futura donna, tanto espansiva e trasparente nei rapporti con le persone quanto ermetica e riservata in ciò che riguardava più profondamente lei sola.
“No i a pì trovà i resti de me cugina parché no i l'a mai sercada.”, continuò dopo un po’ l’uomo, riemergendo dall’oscurità delle sue elucubrazioni, mentre Maria stava già guadagnando l’uscita, dopo averlo salutato con un sorriso. “Nissún l'a sercada parché nissún savea che la fusse a sto mondo.”, aggiunse, prima di chiudersi nuovamente in un silenzio desolato.
Di ritorno a casa, pedalando su sentieri bianchi di luce, fra messi trafitte dal sole e riecheggianti il frinire assordante delle cicale sugli alti pioppi, Maria ebbe il tempo di meditare e giungere ad una nuova ipotesi, che fino a quel momento non le aveva neppure sfiorato la mente.
Il cadavere rinvenuto, soprattutto se si fosse trattato dei resti di un suicida, poteva essere appartenuto a qualcuno venuto forse da fuori a morire proprio nel suo paese, per chissà quale motivo.
Nessuno avrebbe cercato il corpo di un forestiero annegato nel fiume, magari di notte e senza testimoni, se questa persona avesse deciso la propria fine senza farne parola ad anima viva.
La scrupolosa ricerca fra le notizie dei giornali locali degli ultimi anni era forse stata vana.
Bisognava cercare in altre direzioni, dunque, o forse abbandonare l’indagine che, alla luce di quest’ultima ipotesi, le parve essersi trasformata in una missione davvero impossibile.
casiestremi@yahoo.it
Di Maria Prosdocimo


 
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