n.73 VII anno, 1 aprile 2010
Capitolo XXI: Panta Rei

Di Maria Prosdocimo
L’apparizione del nonno era stata un’esperienza straordinariamente insolita, qualcosa che difficilmente Maria avrebbe potuto raccontare ad anima viva; rimuginò a lungo sull’opportunità di parlarne alla madre, risolvendosi infine a non farlo. Confessare l’accaduto al sacerdote non le parve una buona idea, in fondo la confessione serviva per mondarsi dai peccati commessi e avere avuto una visione non era certo peccato.
La sua fama di ragazzina lunatica e un tantino strampalata, per giunta, era stata già abbondantemente alimentata in passato da episodi singolari di cui era stata protagonista più o meno volontaria.
Non era il caso di aggiungere al nutrito elenco delle sue stranezze anche l’epiteto di visionaria; già immaginava il fratello e i cugini canzonarla senza pietà, per non parlare dei maschi a scuola, soprattutto quelli che avevano dovuto ingoiare il sapore amaro della sconfitta non avendola mai battuta a braccio di ferro.
No, no! La cosa migliore restava senz’altro il silenzio, nessuno avrebbe mai saputo dell’episodio della soffitta, nemmeno la piccola Marta che, pur essendo la sola a cui l’avrebbe volentieri raccontato, ne sarebbe rimasta probabilmente impressionata. La prima ad arrivare all’appuntamento fu Costanza che subito le parve diversa dal solito: “Cosa c’è?”, chiese Maria all’amica, non appena le fu vicina; “Niente, niente. Cos’hai da guardarmi così?”, le rispose l’amica nervosamente.
Era evidente che qualcosa non andava, ma altrettanto chiara era la volontà di Costanza di non parlarne.
Al rientro a casa, dopo l’ultimo loro incontro nel bar della Beppa, Costanza non aveva resistito e quella stessa sera, a cena, aveva chiesto al padre se avesse mai sentito parlare dell’episodio dell’argine, se mai lui sapesse qualcosa sull’ipotetico massacro di alcuni tedeschi da parte dei partigiani del paese.
Ne era nata una conversazione dai risvolti inaspettatamente spiacevoli per la bambina. Il padre, un notabile della città, all’epoca dei fatti sostenitore del regime fascista, le aveva risposto che alcune persone a Motta sapevano la verità e che vi erano state poi delle connivenze ed un tacito accordo fra i responsabili e le autorità cittadine per non approfondire la vicenda ed insabbiarla.
Il tono della voce dell’uomo s’era fatto più grave quando la figlia aveva aggiunto che anche l’amica Maria avrebbe chiesto notizie al padre.
L’ex fascista non aveva mosso accuse vere e proprie, ma l’aveva lasciata nel dubbio che il padre dell’amica, per oscure ragioni, potesse sapere certamente qualcosa più di altri.
Nella mente di Costanza s’erano affollati dubbi e pensieri cupi, durante tutto il fine settimana. Conosceva i genitori dell’amica, brava gente; il padre l’aveva sempre accolta in casa sua con gentilezza e la madre, poi, era un angelo. Nessuno mai avrebbe potuto pensare qualcosa di male sul loro conto; quella donna gentile e premurosa con tutti non avrebbe certo mai sposato un poco di buono.
L’istintivo rispetto per quelle persone che conosceva bene ormai da anni prevaleva sul dubbio istillatole dalle parole del padre, al quale tuttavia aveva sempre attribuito serietà ed onestà. S’era innescato in lei un conflitto emotivo lacerante che la turbava profondamente.
Come si sarebbe comportata con Maria, quando l’avesse incontrata nuovamente? Sarebbe stato giusto raccontare tutto anche ad Emma? Costanza non riusciva a trovare una risposta ai suoi gravi dubbi e si trovava in quell’oscuro stato d’animo quando trovò la compagna sul luogo dell’appuntamento.
Decise di tenersi tutto dentro ed aspettare di vedere l’evoluzione della situazione; magari Maria aveva parlato con suo padre e avrebbe riferito notizie rassicuranti, capaci di fugare in lei ogni sospetto sul conto dell’uomo.
In tal caso le insinuazioni di suo padre sarebbero cadute nel vuoto e, non avendole riferite alle amiche, avrebbe risparmiato al proprio genitore una brutta figura. “Fai come credi!”, disse Maria che non era rimasta convinta dalla risposta nervosa della compagna, “Come mai Emma non è venuta con te?”, le chiese, cambiando discorso. Emma non le avrebbe raggiunte quel pomeriggio, il padre glielo aveva impedito perché c’era troppo da fare al mulino e la bambina era costretta a rimanere ad aiutare i genitori.
Costanza non sembrava molto dispiaciuta per quell’assenza perché, se il discorso fosse scivolato sull’argomento che la stava turbando, avrebbe preferito affrontarlo a tu per tu con Maria, senza testimoni.
Sentiva un grande affetto per lei, il suo desiderio di fare chiarezza su tutta la vicenda faceva a gara con quello di proteggere l’amica da inutili dispiaceri, soprattutto se fossero derivati da colpe di altri e non sue.
Abbozzò un sorriso e le prese la mano chiedendole di seguirla. Sarebbero andate in biblioteca, dove avrebbero riletto insieme le copie archiviate dei quotidiani locali degli ultimi anni, alla ricerca di qualche informazione sui fatti più eclatanti avvenuti in paese.
“Non ho ancora parlato con mio padre,”, le disse di punto in bianco Maria, senza guardarla, “quando sono rientrata, l’altra sera, i miei avevano un ospite a cena, un amico russo di papà che ha fatto la Resistenza con lui.”
“Non si vedevano dalla fine della guerra e hanno parlato per tutto il tempo solo dei loro ricordi. Mi sono addormentata tardi e la mattina dopo sono andata dalla nonna.”, aggiunse sorridendo nel ripensare alla soffitta e all’apparizione del nonno.
Camminava in quel suo strano modo, guardando a terra e posando un piede dopo l’altro proprio al centro di ogni singola mattonella che lastricava il marciapiede, fermandosi di tanto in tanto e ritornando sui suoi passi per ripetere il movimento, mossa da qualche sconosciuta ragione che gli altri non comprendevano.
Costanza glielo aveva visto fare tante volte, quando era tesa e preoccupata; la considerava una stranezza sulla quale tuttavia non aveva mai indagato, intuendo che l’atteggiamento dell’amica potesse aver a che fare con una certa sua insicurezza. “Non importa, troverai il momento giusto per chiedere qualcosa a tuo padre”, le rispose Costanza, “per ora andiamo avanti con il nostro piano. Magari la storia dei tedeschi non è nemmeno vera...sai com’è fatta la Beppa, per lei non è importante avere le prove delle cose di cui s’impiccia, quel che conta è avere argomenti su cui spettegolare.” Il vecchio bibliotecario le accolse con un sorriso compiaciuto. Non era frequente, soprattutto nelle afose giornate d’estate, che qualcuno varcasse la soglia di quel santuario della lettura.
Tanto più insolito era che si trattasse di giovanissime lettrici, quando la maggior parte dei loro coetanei era affaccendata in giochi di strada o in vacanza al mare e ai monti.
“Cosa posso fare per voi?”, chiese alle bambine che s’erano educatamente accostate alla scrivania; “Vorremmo vedere tutti i numeri del Gazzettino degli ultimi dieci anni.”, rispose candidamente Costanza; “Ma è una montagna di roba!”, disse incredulo l’uomo, “Cosa state cercando precisamente?”
Le ragazzine spiegarono i motivi fittizi della loro indagine, ribadendo che non aveva alcuna importanza quanto tempo ci avrebbero impiegato, dal momento che ne avevano parecchio a disposizione.
Il bibliotecario le accompagnò in una saletta al primo piano dell’edificio nella quale, stipate su ampi scaffali e ordinate per annata, giacevano le copie del quotidiano veneto.
“Per gli anni dal 1962 ad oggi, lo scaffale è quello laggiù”, disse loro, indicando un’enorme pila di giornali ben riposti uno sull’altro. “Dopo che avete finito di leggere le singole copie dovete risistemarle esattamente come le avete trovate, in ordine cronologico, mi raccomando! Io sono giù all’entrata, chiamatemi se vi serve qualcos’altro.”, aggiunse squadrandole con un’espressione stranamente allusiva. Maria e Costanza non vi fecero caso; rimaste sole, cominciarono subito la ricerca, stabilendo di sfogliare due giornali per volta, uno per ciascuna, in modo da accorciare i tempi.
Immerse nella lettura degli innumerevoli titoli non si resero neppure conto che fossero passate ormai delle ore, quando furono richiamate dall’uomo.
“Cominciate a riordinare, signorine, è ora di chiudere. Vi aspetto giù fra cinque minuti.”
Tornando a casa nessuna delle due mostrò molta voglia di parlare, entrambe affaticate per quel gran lavoro di concentrazione.
Gli occhi stanchi ed arrossati bruciavano un po’ e frammenti delle centinaia di notizie scorse velocemente ancora turbinavano nelle loro teste. Giunte davanti al portone di casa, Costanza si avvicinò all’amica e le sfiorò la fronte con un bacio: “Abbiamo fatto un buon lavoro oggi, Maria, ancora qualche altra vagonata di giornali e poi avremo finito. Vedrai che qualcosa troveremo, stai tranquilla, e se non succedesse potremmo sempre portare le ossa ai carabinieri e che ci pensino loro!”
Maria sorrise, qualcosa le diceva che Costanza nascondeva dell’altro, ma al tempo stesso sentiva che il comportamento enigmatico della compagna non le avrebbe riservato alcuna sgradita sorpresa.
“Lo risolveremo presto questo mistero, Costanza, ne sono sicura! Siamo in gamba noi due, ed Emma certo! Anche Emma. Domani andiamo a casa sua, sarà contenta di vederci.” Il mulino sorgeva appena fuori dal paese; una stradina di ghiaia girava intorno al perimetro dell’edificio e conduceva all’abitazione dell’amica, sul retro.
Emma stava raccogliendo dei pomodori maturi nell’orto e vide giungere le due amiche che avanzavano portando a mano le biciclette.
Si sfilò velocemente il grembiule sporco e ne fece un fagotto che sistemò fra l’ascella ed il braccio; non voleva che la vedessero in disordine. “Come mai da queste parti?”, chiese loro con espressione mista di stupore e disagio.
“Avevamo voglia di vederti; sappiamo che hai da fare e non ti ruberemo troppo tempo, ma ti vogliamo raccontare quello che abbiamo fatto ieri.”
“Sst! Parlate piano, i miei sono qua in giro.”, “E allora?”, rispose Maria, “Che problemi ci sono?”, aggiunse guardando interrogativamente la compagna, “Non ci fermiamo molto e potrai tornare presto alle tue faccende.”
In quel momento il mugnaio uscì in cortile, richiamato dal calpestio sulla ghiaia e dal vocio: “Bondì, tosete, cossa seo vegnude a far qua? Se l'é par farghe perder tenpo a me fia, l'é mèjo che tornée a casa vostra. La Ema no l'a tenpo de 'ndar a sbrindoêon co 'a bicicleta, l'a da lavorar ancuò.” disse l’uomo, con piglio serio e deciso.
“Siamo solo passate a salutarla, non restiamo molto, stia tranquillo.”, gli rispose Costanza con estrema cortesia, apparentemente docile e remissiva di fronte al rude e sbrigativo energumeno che già stava rientrando in casa.
“Come fai a sopportarlo?”, sussurrò poi rivolta ad Emma che s’era fatta rossa in viso per l’imbarazzo. “Vi avevo detto che non dovevate venire a casa mia, se posso uscire vi raggiungo io, voi non dovete venire qui!”, rispose la bambina con voce sussurrata. “Perché ne hai così tanta paura?”, le chiese Maria, cercando di addolcire il più possibile il tono della propria voce.
“Non mi fa paura! Non è cattivo, ma solo stanco. Lavora tutto il giorno lì dentro”, rispose Emma, accennando con la testa al mulino, “non pensa ad altro ed è giusto che lo aiutiamo tutti...”
L’attenzione di Maria fu attirata da un alone bluastro sul braccio dell’amica, simile ad un livido procurato da una botta.
Stava per chiederle cosa si fosse fatta, ma si trattenne e diede un’occhiata d’intesa a Costanza che Emma non intercettò.
“Va bene Emma,”, disse Costanza, risalendo sulla bicicletta, “noi adesso ce ne andiamo, ti volevamo solo dire che ieri siamo state in biblioteca e che abbiamo cominciato a guardare i giornali degli anni passati, come avevamo deciso di fare. Se vuoi puoi scriverlo nel nostro “diario di bordo”; per ora non abbiamo trovato nulla di interessante, ma abbiamo già letto tutti i giornali dal 1962 al 1965, ci mancano ancora quelli degli ultimi sette anni, facci sapere quando puoi venire a darci una mano.” Emma si affrettò a salutarle e tornò immediatamente fra le aiuole dell’orto, sotto lo sguardo severo del genitore che s'era affacciato di nuovo all'uscio di casa e, per la distanza dalle ragazzine, non aveva colto il senso dei loro discorsi, né sembrava interessato ad indagare.
“Hai visto la macchia scura sul suo braccio?”, chiese Maria all’amica, “Certo che l’ho vista! Dici che l’abbia picchiata?”.
Maria non sapeva cosa pensare; Emma poteva essere caduta accidentalmente ed essersi fatta quel livido; erano cose che succedevano, a lei personalmente accadeva di continuo, se era per quello, con tutte le mattate che combinava.
Emma però era calma e tranquilla, non se l’immaginava proprio a fare qualcosa di azzardato o pericoloso e quella macchia sembrava quasi un livido di quelli che ti vengono quando qualcuno ti stringe troppo forte.
“In effetti, adesso che ci penso, mi è capitato altre volte di vederle segni di botte sulla pelle!”, aggiunse Costanza, rivolta all’amica.
“Se le mette le mani addosso io l’ammazzo!”, sbottò Maria, con crescente rancore; “Cosa possiamo fare secondo te?”, le chiese Costanza, invitandola a ragionare e a non farsi prendere dalla collera, “Non possiamo parlare con i nostri genitori perché certamente lei non lo vorrebbe; hai visto come lo difende? Forse stiamo lavorando troppo di fantasia. Vedrai che le cose non stanno come temiamo noi!”
“Il maestro Italo!”, esclamò Maria con la sicurezza di chi ha trovato la giusta soluzione ad un difficile problema, “Parliamone con lui quando ricomincia la scuola! Potrebbe essersi accorto dei lividi come ce ne siamo accorte noi e lui può sicuramente scoprire come se li è fatti. Non credi?”
“E’ una buona idea, parleremo con il maestro, ma per ora non facciamoci capire da Emma, magari se mostriamo di non essere preoccupate per lei si lascerà sfuggire qualcosa.” La sera a casa, dopo cena, Maria rimase alzata per seguire insieme ai genitori, alla televisione, un documentario sulle avventure dell’esploratore Jacques Cousteau che con la sua barca Calypso scandagliava ancora una volta il mondo oceanico.
Solitamente la mezz’ora di Carosello segnava la conclusione della giornata per i piccoli, ma in occasione di trasmissioni interessanti come i documentari naturalistici vigevano altre regole.
Maria guardò distrattamente le immagini alla televisione, quella sera i suoi pensieri erano tutti rivolti ad Emma.
Com’era possibile che lei e Costanza non si fossero mai accorte prima di quello che stava succedendo all’amica? Troppo prese da sé stesse, forse, per notare eventuali segnali.
Improvvisamente tutto le appariva incomprensibile e dissonante; lei che credeva d’essere la meno fortunata delle tre, avendo un padre così umorale ed eccessivo in certe manifestazioni, non aveva mai ricevuto da lui un solo schiaffo, nemmeno nei momenti peggiori.
Offese sì, parolacce anche, tuttavia dette con la bocca e non con il cuore, così ripeteva sempre mamma e, se lo diceva lei, era vero, ma percosse proprio no.
La violenza fisica le era sconosciuta, anche se i contrasti con il fratello maggiore erano spesso sfociati in botte da orbi, ma questa era un’altra cosa.
Come ci si difendeva dal proprio padre? Una grande oppressione interiore s’impadronì di lei e, non riuscendo a smettere di pensare all’episodio del pomeriggio, salutò i genitori e si ritirò nella sua camera, sperando che il sonno potesse rimuoverle quel peso dal cuore.
Cosa devo fare, nonnino? Pensò quasi pronunciando ad alta voce quelle parole. Si addormentò poco dopo, stremata; bellissimi sogni la visitarono quella notte, mostrandole stupefacenti mondi acquatici, popolati di pesci singolari e coloratissime stelle marine, in un fluire spumeggiante e vivace di vita guizzante.
Il pensiero dell’infelice destino di Emma divenne assillante per Maria; doveva sapere come stavano realmente le cose e, se possibile, scoprire come avrebbe potuto aiutare l’amica.
Il dubbio di trovarsi di fronte ad una situazione di violenza domestica, insospettata e fino a quel momento mai trapelata, le aveva messo addosso un’ansia viscerale di giustizia.
I mezzi toni e le sfumature le erano sconosciuti quando in gioco c’erano i sentimenti, se poi le accadeva di essere testimone di un sopruso stentava a trattenersi dal prendere le parti del più debole, senza soffermarsi a calcolare le proprie possibilità di riuscita o gli eventuali concreti rischi per sé stessa.
S’era guadagnata così, già da qualche tempo, il rispetto e l’ammirazione di parecchi coetanei da lei difesi di fronte all’arroganza di altri, persino più grandi d’età. Immaginare Emma vittima della brutalità del padre le provocava un senso di rabbiosa impotenza e alimentava in lei un sentimento di sconfinata tenerezza per la compagna. Alla luce di una simile ipotesi cominciò a guardare con occhi diversi al proprio padre, lui non le avrebbe mai messo le mani addosso, se le sarebbe tagliate piuttosto. Era un uomo complicato, imprevedibile nell’umore, questo sì, con lui non si poteva mai essere sicuri di niente e ogni giornata poteva diventare un’occasione di felicità esaltante, grazie alla sua contagiosa simpatia, con la stessa facilità con cui poteva tramutarsi in una sequenza di ore angosciose e tristi passate a sperare che arrivasse presto la notte a portarsi via la sua furia.
Nella situazione esistenziale dell’uomo l’acuta intelligenza era un’aggravante e la capacità di andare oltre l’apparenza delle cose contribuiva pesantemente ad alimentare in lui un pessimismo lucido ed analitico.
Maria non capiva come egli potesse non essere felice delle cose che aveva, perché non potesse goderne semplicemente senza tormentarsi anche quando non c'era alcun motivo per farlo.
Mamma diceva che ciò che sembrava inspiegabile aveva in realtà delle cause profonde che loro figli avrebbero compreso da grandi e che mai avrebbero dovuto dubitare dell’amore di papà, il quale avrebbe dato la vita per ciascuno della famiglia se fosse stato necessario.
Maria sentiva nel profondo che ciò era vero, ma l’idea che il padre potesse dare anche la vita per lei non l’aiutava a soffrire meno quando egli prendeva a male parole la madre o uno di loro ferendo con offese che nemmeno un acerrimo nemico avrebbe saputo inventare.
Le botte però no, quelle non le aveva mai prese e ora questo particolare assumeva un significato nuovo.
Era stata più fortunata di Emma, questo era sicuro, e di chissà quanti altri bambini. “Se tu venissi a sapere che qualcuno picchia un bambino”, chiese alla madre la mattina successiva, mentre facevano colazione, “cosa faresti?”
“Beh! Cercherei di capire bene la situazione.”, rispose la donna perplessa, “E’ stato picchiato qualcuno?”, chiese subito dopo alla figlia osservandola attentamente per capire il motivo della domanda.
“No, no! Volevo solo sapere cosa faresti tu in questo caso. Ti è mai capitato di scoprire che uno dei tuoi alunni è stato picchiato...magari proprio dai genitori?”, continuò Maria cercando di apparire più che mai impassibile, come se volesse semplicemente fare conversazione.
“E’ difficile arrivare alla verità in queste situazioni, piccola mia,”, continuò la madre, “a volte i grandi fanno cose brutte come questa e quando succede è sempre molto triste per tutti.”
“Ma tu cosa faresti se fossi sicura di una cosa del genere?”, l’incalzò la bambina che cercava di estorcerle qualche buon suggerimento senza chiederlo apertamente; “Beh, probabilmente parlerei a lungo con il bambino e cercherei di capire cosa è realmente accaduto perché essere sgridati dalla mamma o dal papà è una cosa, ma essere picchiati, magari frequentemente, è un altro paio di maniche. Le cose si complicano e bisogna muoversi con cautela, anche perché non sempre le cose sono come sembrano.” Cosa voleva dire la mamma con quelle parole? Come potevano esserci dei dubbi sulla natura del livido di Emma? Per Maria la verità doveva per forza essere una sola e anche se sarebbe stato terribile averne conferma lei l’avrebbe scoperta, a tutti i costi. “Dì un po’, Maria, come stanno andando le vostre ricerche per la scuola?”, chiese la madre, intuendo che qualche informazione in più gliel’avrebbe forse strappata in maniera indiretta.
La ragazzina l’aggiornò sugli sviluppi, omettendo i particolari che avrebbero potuto accendere nella donna qualche sospetto sulla vera natura dell’indagine.
“Brave, state facendo un bel lavoro davvero, dovrò complimentarmi con Italo quando ricominceremo la scuola. Ha avuto proprio una grande idea, te l’avevo detto io all’inizio che il tuo maestro era speciale.”
“Certo mamma, avevi ragione...” aggiunse Maria mascherando il nascere improvviso di una nuova preoccupazione.
Non aveva pensato a una simile evenienza, il maestro e sua madre erano in ottimi rapporti fra loro, forse persino amici.
Come aveva fatto a non tenerne conto al momento di architettare ogni cosa? Doveva mettere subito in moto il cervello e trovare al più presto una soluzione anche a questo imprevisto ostacolo, giocare d’anticipo prima che la madre potesse parlare con il collega.
Mancava ancora abbastanza tempo, lui non sarebbe rientrato prima della fine di settembre e la scuola avrebbe riaperto i battenti il primo ottobre.
“Esci con le tue amiche anche oggi?”, le chiese la madre sciacquando le due tazze del caffelatte e cominciando a preparare la colazione per il resto della famiglia, “Credo proprio di sì,”, rispose la bambina, “probabilmente resteremo tutto il pomeriggio in biblioteca.”, aggiunse, aiutandola ad asciugare le stoviglie e a riporle nella credenza. “Tua sorella si lamenta che stai poco con lei,”, riprese la madre, cambiando discorso, “ha la sensazione che da quando esci con Emma e Costanza ti sia dimenticata di lei. Cerca di rincuorarla.
Io capisco che non potete trascinarvela dietro quando lavorate alle vostre cose, ma potresti trovare del tempo anche per lei, in altri momenti.”
Marta nemmeno poteva immaginare quanto Maria l’avrebbe voluta mettere a parte delle sue ansie e delle sue preoccupazioni, ma proprio non poteva farlo senza rischiare di compromettere tutta l’operazione.
“Lo farò, mamma, stai tranquilla; cercherò di organizzarmi meglio e di portarla con me qualche volta di più.”
Non quel pomeriggio però; avrebbe dovuto parlare con le amiche dell’imprevisto rischio di una conversazione fra sua madre e il maestro, nello stesso tempo avrebbe dovuto fingere di concertare con loro una soluzione quando in realtà il problema sarebbe rimasto solo suo.
Per un momento considerò la possibilità di parlare apertamente con il maestro, dicendogli tutta la verità e chiedendogli aiuto.
Perché escluderlo? Era sempre stato disponibile verso di lei, attento e riservato. Avrebbe capito, lui sì, la portata dell’angoscia che le attanagliava il cuore e magari insieme avrebbero affrontato nel modo giusto la vicenda.
Doveva solo aspettare che lui rientrasse dalle vacanze e avvicinarlo prima che ricominciasse l’anno scolastico.
Conosceva il suo indirizzo e sarebbe bastato tener d’occhio la casa in attesa di vedere una serranda alzata o il suo Maggiolone parcheggiato fuori dal garage per essere certa che fosse tornato.
Il pensiero la fece sentire un po’ meglio e si convinse che non fosse nemmeno il caso di accennare alle amiche la questione di sua madre perché, farlo, avrebbe inutilmente complicato la situazione. Arrivò serena all’appuntamento, ma una grande inquietudine s’impadronì di lei non appena vide che ancora una volta ad aspettarla c’era solo Costanza.
“Non mi ha chiamata oggi. Le ho telefonato io a casa, ma sua madre non ha voluto dirmi nemmeno se c’era, aveva fretta di mettere giù il telefono... ho sentito la voce di lui che faceva una gran cagnara...”
Il volto di Costanza era tirato e lo sguardo incupito.
Maria si sentì improvvisamente avvelenare dalla rabbia, che raggiunse all’istante ogni sua fibra ed un prurito violento le fece contrarre le dita delle mani che si strinsero in piccoli pugni pronti a colpire.
“Non possiamo aspettare troppo, Costanza! Il maestro rientrerà a fine settembre, dobbiamo scoprire subito cosa sta succedendo ad Emma. Cosa possiamo fare prima che tu parta? A proposito quando parti?”
La data fissata era quella del lunedì successivo, avrebbero avuto ancora qualche giorno per le loro ricerche e magari per indagare sulla situazione di Emma.
Maria avrebbe seguito il suo istinto senza esitazioni se Costanza non l’avesse trattenuta; cosa credeva di poter fare lei da sola?
“Non devi essere così precipitosa, Maria! Ricordati che potremmo esserci fatte un’idea sbagliata sul conto di quell’uomo. E’ meglio se cerchiamo l’aiuto di qualcuno. Dai, parliamo con tua madre, senza aspettare il maestro, lei saprà cosa fare.”
Decisero così di rinunciare alle ricerche per quel pomeriggio e di tornare a casa di Maria per provare a raccontare alla madre ciò che avevano visto e la loro preoccupazione per Emma.
La donna fu sorpresa nel vederle tornare così presto, scure in volto e con espressione funerea.
“Cos’è successo?”, chiese loro allarmata. “Niente, mamma, però abbiamo bisogno di parlarti...”, le rispose la figlia senza quasi riuscire a guardarla negli occhi. “Il fatto è, signora, che siamo preoccupate per la nostra amica,” aggiunse Costanza, andando subito al dunque, “crediamo che il padre la picchi.”
La donna guardò con stupore la figlia, era quella la ragione di tutte le domande strane che le aveva fatto solo poche ore prima. Maria arrossì, ma sostenne il suo sguardo, senza aggiungere nulla.
Costanza raccontò ogni cosa per filo e per segno, soffermandosi sull’imbarazzo a mala pena contenuto di Emma per la loro improvvisata del giorno prima e sul particolare della telefonata di quella mattina, durante la quale la madre dell’amica l’aveva liquidata con poche parole, costretta dalle urla del marito ad interrompere bruscamente la comunicazione.
La donna rimase in silenzio, alcuni particolari del racconto avrebbero potuto giustificare certamente l’ipotesi peggiore e tuttavia si trattava di una situazione molto delicata, da approfondire con discrezione, prima di mettere in atto qualsiasi intervento.
“Voglio pensarci su, lasciatemi riflettere. Per ora voi non fate nulla, mi raccomando, pensate solo a starle vicino e a volerle bene, senza far domande o pressioni. Troveremo il modo di capire la situazione, state tranquille.”
Costanza guardò soddisfatta Maria, era stato più semplice del previsto; l’amica doveva essere davvero fiera di avere una madre tanto in gamba, così diversa dalla sua che era una buona persona, certo, tutta dedita al marito ed ai figli, ma incapace di vedere oltre ciò che le era noto e familiare.
Mai l’aveva sentita parlare d’altro che delle incombenze domestiche, dal rinnovo degli arredi all’acquisto di preziose ed inutili suppellettili per l’aristocratica villa di famiglia.
Regina indiscussa di quel regno dorato e separato dal resto del mondo da un invisibile muro di indifferenza per chiunque non appartenesse alla cerchia familiare. Un buon grado di istruzione, ottenuto frequentando la scuola magistrale prima del matrimonio, senza tuttavia aver conseguito il diploma, le consentiva di seguire da vicino i figli nel loro iter scolastico e ciò era per lei motivo d’orgoglio e di soddisfazione. Con la servitù era padrona gentile e rispettosa, ma sempre attenta a non oltrepassare il limite concessole dal rango e, ancor più, a che non lo oltrepassassero i servitori. In casa aleggiava un’atmosfera di cortesia formale, le relazioni fra coloro che vi abitavano o che la frequentavano abitualmente erano corrette e prive di qualsiasi eccesso. Costanza non ricordava di aver mai udito un tono di voce più che sommesso, né di aver assistito ad alterchi o bisticci fra i familiari o fra loro ed il personale di servizio.
Smorzare sempre i toni e non trascendere mai era il dictat imposto dall’etichetta e dal bon ton, sembrava essere questo il solo, vero scopo dell’educazione impartita alla prole dalla padrona di casa che vi si dedicava con ferrea determinazione e convinzione, sotto l’occhio vigile e compiaciuto del consorte.
Inimmaginabile sarebbe stato con lei un colloquio come quello appena avuto con la madre di Maria: le avrebbe innanzitutto imposto di non intromettersi nelle vicende di un’altra famiglia e sarebbe forse persino giunta ad impedirle di frequentare, per un po’ o per sempre, l’amica in difficoltà.
L’amicizia fra lei e Maria le aveva permesso di esplorare un mondo rimastole estraneo a lungo, del quale nessuno in casa parlava mai, credendo forse che ciò sarebbe bastato a scongiurare possibili contaminazioni con ambienti sociali così distanti. Aveva conosciuto personaggi singolari che si sottraevano a qualsiasi tranquillizzante catalogazione, come Tarzan e la Cita, la Vally o la Germana, che non avrebbero mai attraversato il suo orizzonte, costringendola a fare i conti con l’insondabile intrico dell’animo umano.
Tutto ciò era ovviamente ignoto ai genitori della ragazzina i quali, sicuri del loro ruolo primario nella gestione ed organizzazione della vita familiare, non avevano nemmeno mai pensato che i figli volessero fare esperienze diverse da quelle che per loro essi desideravano e favorivano.
Costanza immaginava che i fratelli più grandi fossero essi stessi coinvolti in vicende e situazioni nascoste alla famiglia, intuiva in loro il suo stesso bisogno di evadere dalla prigionia di un’esistenza già tutta programmata e sapeva in cuor suo che essi avrebbero certamente continuato a condurre senza clamori una doppia vita, rinunciando alla consolazione di una maggior confidenza fra loro, piuttosto che mettere a rischio la segreta libertà di cui godevano trasgredendo alle regole. Almeno fino a quando non avessero lasciato la casa paterna, senz’altro tardi rispetto a chi non poteva contare su un’uguale, privilegiata condizione.
Non ci si poteva attendere dai rampolli dell’aristocratica famiglia il coraggio della ribellione aperta, del rifiuto plateale di ciò che la condizione sociale imponeva loro; più facile era fingere remissione, sottomettersi pubblicamente e contemporaneamente vivere un’esistenza segreta e maggiormente gratificante.
Ciò che la piccola non poteva ancora sapere era che mimetizzarsi e non rivelarsi per quel che si è realmente può diventare, col tempo, una schiavitù, la sola modalità possibile di relazionarsi con il mondo e con gli altri per chi non abbia mai messo davvero alla prova la propria libertà interiore.
Un pensiero di questo tipo le avrebbe forse consentito di guardare a sua madre in maniera diversa, di notare in lei talune espressioni del volto che, in determinate circostanze, tradivano un’inquietudine sotterranea, inesprimibile.
L’elegante e gentile signora, che un matrimonio invidiatole da tutti aveva introdotto negli ambienti più altolocati della società, altri non era che l’unica figlia, avuta in tarda età, di un umile mercante; un ambulante che con grande fatica era riuscito a sfamare la famiglia vendendo coltelli e arnesi per le massaie nei mercati di tutta la provincia.
Da bambina aveva conosciuto fame e miseria e, una volta ottenuta la licenza media inferiore, aveva potuto frequentare la scuola magistrale solo a prezzo delle mille rinunce e degli infiniti sacrifici sopportati dai vecchi genitori.
Quando il cumulo degli anni avrebbe dovuto consentire il giusto riposo al vecchio ambulante, egli ancora, tutte le mattine, si levava prima dell’alba, si metteva alla guida dello sgangherato furgoncino carico di mercanzia e, insieme alla moglie che gli sedeva accanto, si avviava al lavoro.
Ogni mese, ogni anno di studio della loro unica figlia lo scontavano entrambi; d’inverno fiaccati dal freddo impietoso nelle interminabili ore mattutine all’addiaccio dietro al banco, a sbattere continuamente un piede contro l’altro per evitare il congelamento; d’estate respirando la polvere della strada che si alzava ad ogni passaggio di bicicletta o motorino, cercando di sfuggire alla calura dell’asfalto arroventato dal sole riparandosi sotto l’ombra del piccolo tendone che proteggeva la mercanzia.
Nei giorni di mercato le piazze si riempivano sin dalle prime ore del mattino di gente predisposta all’allegria: massaie alla ricerca dell’affare migliore, strani figuri giunti da chissà dove, spesso sciancati e malvestiti, che inseguivano lungo le vie i passanti proponendo loro lunari, santini religiosi e calendari profani, amuleti miracolosi e statuine dalle graziose fogge che mutavano di colore col mutare del tempo atmosferico, uomini che dopo estenuanti trattative suggellavano ogni affare davanti ad un bicchiere di vino.
Il padre della giovane doveva ogni volta escogitare delle scuse per non essere costretto a prender parte alle numerose bevute dei residenti che, conoscendolo ormai da tempo, puntualmente lo chiamavano a gran voce da dentro un bar o semi nascosti nella penombra di un’osteria.
Vigeva allora la regola sacrosanta che un giro l’offrisse ciascuno e, non potendosi permettere il lusso di pagare il vino per tutti i convenuti, preferiva sottrarsi al richiamo forte del nettare ristoratore che gli avrebbe certamente risollevato il morale infondendogli un po’ di allegria.
La figlia conosceva ogni loro fatica ed il peso di una così grande responsabilità talvolta le era insopportabile. Più passava il tempo più avvertiva dentro di sé accrescersi e radicarsi profondamente la sensazione d’essere l’origine unica della loro condanna ad una vita di sacrifici e privazioni.
Ogni giorno le diventava più penosa la consapevolezza che il sogno di un futuro migliore per lei stesse logorando il presente dei suoi vecchi.
Era infine arrivato lui, il pretendente bello e aristocratico, ricco ed affascinante, innamorato e devoto. Travolta da un’emozione per lei del tutto nuova e soggiogata dal fascino di un mondo mai nemmeno immaginato aveva accettato da subito il corteggiamento dello sconosciuto.
L’uomo, di diversi anni più anziano, l’aveva notata da tempo e nella sua naturale grazia aveva intravisto l’eleganza di un’autentica signora di rango. Non sarebbe stato difficile operare in lei la necessaria trasformazione per renderla degna del nuovo status sociale.
Il fidanzamento era durato appena quattro mesi, giusto il tempo per organizzare nei minimi dettagli la cerimonia nuziale; la ragazza aveva così lasciato per sempre la casa paterna e anche gli studi, dal momento che il futuro marito aveva stabilito che non avrebbe comunque mai praticato la professione di insegnante, dovendosi prendere cura esclusivamente della loro dimora e dei figli che sarebbero sicuramente arrivati. Il veloce fidanzamento, il matrimonio sontuoso e l’ingresso nella magnifica villa di famiglia avevano accresciuto a dismisura le aspettative della ragazza che già pregustava una vita familiare gioiosa e ricca di grandi novità.
Trascorsero due anni prima che la nuova padrona di casa fosse finalmente ammessa alle occasioni più importanti riservate ai componenti della famiglia di cui ella stessa faceva ormai parte di diritto.
Due anni durante i quali era stata istruita a dovere, costretta a familiarizzare con gli obblighi di una vera aristocratica, imparando a comportarsi adeguatamente a seconda delle circostanze e rinnegando tutto ciò che, pur appartenendo al suo vissuto e alla sua più intima natura, poteva costituire motivo di rimprovero da parte dell’esigente consorte.
Due anni durante i quali aveva dato alla luce il primo figlio ed era già rimasta incinta del secondo.
Era poi trascorso molto tempo ancora prima che la nascita dell’unica femmina, Costanza, fosse giunta ad allietare la sua malinconica esistenza.
Sulla bellissima figlia si erano concentrate le aspirazioni latenti e tutti gli inconfessati desideri della madre che aveva da subito cominciato a sognare per lei una vita meravigliosa e perfetta.
Tutto ciò che alla donna era mancato nei primi anni di vita sua figlia l’avrebbe avuto in misura doppia, fossero stati oggetti o interessanti opportunità; era tuttavia così cambiata ella stessa, grazie al quotidiano e prolungato esercizio dei doveri accettati con il patto matrimoniale, che aveva finito col trasmettere alla figlia quegli stessi valori da lei ormai assimilati e faticosamente fatti propri, a scapito della sua più autentica indole.
Costanza ignorava tutto ciò, i genitori non parlavano mai del loro privato in presenza dei figli, perciò la sua comprensione delle dinamiche familiari e delle ragioni profonde da cui originavano non poteva che essere superficiale.
Sentiva l’affetto dei genitori e dei fratelli, sapeva di essere oggetto di una particolare attenzione da parte di ciascuno di loro, ma non coglieva le sfumature nei sentimenti dei singoli per lei. casiestremi@yahoo.it
Di Maria Prosdocimo


 
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