n.73 VII anno, 5 aprile 2010
Alfio Centin: 7 Aprile 1944, io c’ero
A cura di Abcveneto
Le bombe caddero sulla città il venerdì santo mentre a pranzo c’era una minestra desiderata, risi e spinàsse. La minestra di riso era su molte tavole perché era venerdì santo e si doveva mangiare di magro. Di mattina, le donne erano andate a bagnarsi gli occhi nel Siletto, che correva sotto casa, ossequio devoto a una tradizione religiosa di cui mi sfuggiva il significato ma anch’io me li ero bagnati sotto il rubinetto di casa. Nessuno immaginava che quelle lagrime simboliche sarebbero state, di lì a poco, lagrime vere.
Ci eravamo appena messi a tavola, quando le sirene si misero a urlare. Pensavamo di poter terminare la minestra perché, di solito, c’era tutto il tempo per scendere in rifugio. Gli allarmi, fino a questo giorno, erano stati trentasette con un mitragliamento il 18 marzo alle ore 9,20. Eravamo un po’ abituati. Invece, questa volta, la contraerea cominciò a sparare. -Parcossa spàrei sti cretini?- disse mio padre che era stato aviere alla Malpensa - se no i spara, i va via - tanto poco importante sembrava la città nella strategia della guerra.
Ai primi colpi di contraerea fummo tutti alle finestre a guardare gli shrapnel contro i caccia dal muso rosso che volavano molto bassi vicini al cedro del Libano davanti a casa, appena di là dal canale.
Ma continuarono a sparare e non se ne andarono. Quante volte nei quaderni di scuola avevo disegnato battaglie aeree in cui i velivoli - si chiamavano così, allora - nemici cadevano in fiamme. Ma qui nessuno cadeva, anzi sembrava che si divertissero a evitare le nuvolette bianche della contraerea. Intanto, un chilometro distante, dietro alla chiesa di San Nicolò, dalla ferrovia, si alzò un gran fumo e dopo pochi secondi la terra tremò e i vetri di casa si frantumarono. Scendemmo rapidissimi le scale fino al pianterreno dove c’era già molta gente che pregava rosari interminabili e litanie una sull’altra. -I bonbarda! Qualcuno gridò e ci fu un grande strepito di calcinacci preceduto da un sibilo, seguito da uno spostamento d’aria che spalancò il portone d’ingresso - anch’io spalancai la bocca, come mi avevano insegnato a scuola per evitare che si rompessero i timpani- e quello del cortile, mentre un gran fumo polveroso invase l’entrata. Qualcuno accendeva qualcosa che baluginava appena e si spegneva. Si intravedevano mucchi di persone ai quattro angoli. Mio padre riparava me e mia sorella grande nell’angolo vicino alla porta. La piccola era con la nonna in un altro angolo e le chiamammo. Le grida si accavallarono, crude, ostili, disperate. Qualche attimo di sosta e poi un sibilo più acuto, uno schianto più tremendo, le urla, le preghiere e i porchi nel polverio della disperazione. A me veniva quasi da ridere della paura dei grandi, come non sapessero che una casa vecchia, come quella in cui abitavamo, era robusta, con muri grossi così ed elastici. Il dramma della guerra aveva per me il senso dell’avventura. Intanto, la casa davanti alla nostra crollò, l’uscio della nostra entrata si spalancò e qualcuno lo richiuse con un calcio; gli occhi bruciavano, la gola era secca e mio padre piangeva e ci stringeva quasi a farci male. -Questa xe la prima ondata, scanpémo.
E tutti scappammo dai quattro angoli. C’era gente che non avevo mai visto. La casa crollata davanti alla nostra impediva il passaggio. Uscimmo dal cortile dietro. Era pieno di macerie fino al primo piano. Un filo elettrico troncato, per poco non mi accecò. Arrancammo, cadendo e spellandoci mani e piedi fino alla piazza Duomo. Un inebetito carabiniere, della vicina caserma, ci raccontò di essere stato spostato di trenta metri dall’aria di una bomba e di essere stato riportato, da un’altra bomba, al posto di prima. Mi parve subito una cosa straordinaria ed incredibile ma l’immediatezza del racconto me la fece ritenere veritiera. La realtà è che le storie sui carabinieri non finiscono mai. Vidi del sangue e morti e pezzi di morti sugli alberi e morti allineati fuori dei rifugi e case sventrate e alberi divelti e gente che smuoveva macerie nel grigio autunnale di una giornata primaverile.
Fortuna volle che non avessimo fatto a tempo ad andare nel vicino rifugio che fu colpito in pieno. I rifugi si rivelarono, se colpiti, delle trappole, ma non per i cani che non potevano entrarvi. Al massimo potevano riparare dalle schegge delle bombe o dai colpi di mitragliatrice. Oltre ai rifugi, c'erano i ripari antischegge. Tutti i portici della città erano chiusi da telai di legno cui erano appoggiati sacchi di sabbia che servivano da riparo. Era una città imbottita come un sofà. Ma era anche una città in coprifuoco: non doveva filtrare luce dalle case, se no le belliche falene nemiche sarebbero state attirate. Figurarsi. Il regime ignorava che la teoria inglese del bombardamento a tappeto era per un'incursione notturna, luci o non luci. In ogni modo, in omaggio all'oscuramento, le rare automobili avevano i vetri dei fanali oscurati, tranne una breve striscia centrale. Stessa cosa per le biciclette. I parafanghi di entrambe, in compenso, dovevano essere dipinti di bianco per essere visibili a corta distanza.
Uscimmo in fretta dalla città - vidi appena la scuola De Amicis bombardata- per andare dai Secco, amici di famiglia che avevano, fuori porta, una officina. Qui c’era già molta gente. Ognuno raccontava con grande confusione di voci. La Marci, mamma di Renzo, una signora squisita, affabile e gentile, accoglieva tutti con partecipazione. Avevo da poco perso mia madre per cui apprezzavo moltissimo la affettuosa femminilità della Marci che mi ospitò per la notte. Facemmo, poi, un giro per la città passando per la nostra casa. Era rimasta in piedi quasi per miracolo, qualcuno disse perché era vecchia, costruita bene, elastica. Oso illudermi che i miei interessi storici abbiano avuto un’inconscia origine nella protezione che la storicità ha esercitato in quella occasione: la storia come casa.
Nel magazzino, a pianterreno, quello dove andavamo raramente a causa dei pantegàni, erano allineati tre morti: due bambini e il loro padre. Abitavano davanti, ma erano più piccoli di me per cui, con loro, non avevo confidenza. La loro madre era viva. Diventerà, qualche anno dopo, nel 1946, la mia matrigna. Mi racconterà con fatica, quando il trauma affettivo sarà in parte coperto dai nuovi sentimenti, che si era trovata protetta da una trave con la bambina vivente stretta sotto il braccio ma che, improvvisamente, aveva sentito la piccola afflosciarsi. Era l’effetto dell’ossido di carbonio. Lei, che aveva ricevuto dall’Opera Nazionale Maternità e Infanzia un diploma per il buon allevamento della prole, non poteva farci niente. E’ anche questo un significato di proletario.
Rimosse le macerie della casa, al suo posto rimasero due buche enormi che si riempirono presto d’acqua e di rane e che ritroveremo tali e quali, un anno dopo, al nostro rientro da sfollati. Sulle rane mi eserciterò a lungo con la fionda nelle notti d’insonnia estiva, colpendo nel mucchio, a caso, senza efficacia, visto il risultato canoro sempre reiterato con monotono impegno.
Il trauma fu come un anestetico; provavo quasi un’euforia ad essere vivo, perché a quell’età sono sempre gli altri che muoiono.
«Razza Piave, purissima razza italiana, razza anche e soprattutto fascista» aveva detto, con una retorica indistruttibile, il federale Luigi Gatti.
L’indomani, carichi di valigie, la Bottecchia di mio padre con i parafanghi bianchi e con il fanale semioscurato, carica di tutto, andammo a piedi in campagna presso lontani parenti di nonna Tilde. L’estetica coincidenza tra fascismo e Futurismo, che aveva osannato il culto della velocità, qui si ridusse all’antico, prosaico andare del cavallo di San Francesco.
Intanto, Pier Maria Bianchin, un giornalista locale autorizzato, pubblicò, pro sinistrati, l’opuscolo : I liberatori sulla città. Sono dieci cartoline postali che illustrano i danni fatti dal bombardamento americano. Bianchin fotografa lo scempio urbano, le opere d’arte distrutte, luoghi irriconoscibili della città sconvolta dalla lucida follia della guerra. Non si vede la gente ma il suo dolore si intuisce dalle ferite delle pietre. Alcuni anni prima aveva scritto una commedia Un grido nella notte. Aveva il senso del dramma che era facile in quei tempi. Mussolini aveva chiesto a Hitler l’onore di partecipare al bombardamento di Londra. I bombardamenti delle città italiane potevano essere giustificati per questo? Cinquemila furono le vittime di questo bombardamento. In una città irreale si aggiravano persone con un bracciale nero sul quale erano appuntate delle stelline argentate, una per ogni morto. Eravamo a Pasqua, tempo d’auguri. Due cartoline di Buona Pasqua, omaggio della Federazione Nazionale Fascista per la lotta contro la tubercolosi, augurano che, nella letizia festiva, non sia dimenticato chi soffre e che può essere sollevato. A distanza d’anni trovai, fra le cose lasciate dalla Antonia, la matrigna, una scatola che aprii. Era la scatola del dolore e dell’ultimo respiro. Conteneva una bambola, una scarpina, un fazzolettino, dei capelli, dei quaderni di scuola, quelle povere cose che il lavoro del lutto conserva per mantenere vivi i ricordi evitando la disperazione. Non ne aveva mai parlato. Ne parlo io per un sentimento di rabbia che mi prende e che devo scaricare. Il 1° aprile 1944, nell’autodettatura di Giorgio, figlio dell’Antonia, alunno di classe prima, è scritto: Quanti fiori sbocciano in terra d’Italia! Il garofano, il geragno (sic), il girasole, il ciclamino, il giglio, la rosa, la viola, il narcisio (sic), la margherita, la primula, il tulipano.
La maestra scrive: bene. Dopo sei giorni non sbocceranno più fiori per lui in terra d’Italia. Erano bastati cinque minuti, dalle 13,24 alle 13,29, che a noi sembrarono un’eternità, perché i B 17 americani dell’operazione Good Friday nella più ampia operazione Strangle, li strangolassero.
Ma se la guerra è un’idiozia, idiota fu anche la risposta negativa che qualcuno diede alla Antonia quando chiese per marito e figli l’inumazione nell’ossario dei morti per causa bellica: piccolo conforto avere i tre nomi assieme agli altri. Ma non si poteva, perché non erano militari. Parola di colonnello. Alfio CENTIN, Archivio domestico, Cierre Edizioni, 2003, pp.72-78.
A cura di Abcveneto


 
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