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N. 70, VII anno   1 gennaio  2010

 
 


  XVIII capitolo: Panta Rei

Di Maria Prosdocimo

“Ma santo Cielo, devi sempre sparire così?” sbottò Costanza, non appena Maria l’ebbe raggiunta al solito posto.
“Almeno potresti avvisarci quando pensi di non farti viva!”
L’espressione risentita dell’amica diceva più di quanto non esprimessero le parole, questa volta Maria si sentì un po’ in colpa e cercò di correre ai ripari. Non poteva tirare troppo la corda, la cosa le sembrò subito evidente.
“Scusate, non volevo tirarvi il bidone ma mi è venuta in mente un’idea e ho seguito una pista che mi sembrava buona.”
Raccontò alle amiche della chiacchierata fatta il giorno avanti con Luigia e le sue aiutanti; “E tu pensi che le ossa possano essere di Germana?”, chiese Emma che era rimasta molto turbata ascoltandone la storia. “Non lo so, vorrei che non lo fossero e che quella ragazza fosse andata davvero in America a cercare il suo amore, ma dobbiamo almeno provare ad escluderlo, se non altro.”, aggiunse Maria dimenando la testa.
“Pensi che potremmo parlare con suo padre?”, domandò Costanza, alla quale questa sembrava la sola possibilità che si prospettava nell’immediato. Maria rispose che probabilmente sarebbe stata un’impresa impossibile, l’uomo era ormai molto vecchio e forse aveva perso anche la lucidità, inoltre le avevano detto che una sua anziana sorella lo controllava a vista e ciò avrebbe reso ancor più difficile il tentativo di un approccio diretto. “Se siamo riuscite a parlare con Tarzan, non può essere più difficile farlo con quel vecchio!”, affermò Costanza con voce sicura.
Decisero di raggiungere il podere quello stesso pomeriggio, mancavano pochi giorni ormai alla partenza di Costanza e non c’era tempo da perdere. Inforcate le rispettive biciclette, le ragazzine uscirono dal paese, avviandosi verso l’aperta campagna, pedalando energicamente senza più parlare.
In una decina di minuti raggiunsero la casa del vecchio mezzadro e, appoggiate al muro le biciclette, si presentarono all’ingresso dell’abitazione.
“Cossa le desidera, signorine?”, chiese loro una vecchia apparsa sull’uscio di casa, richiamata dal loro insistente bussare alla porta.
“Buona sera signora, stiamo cercando il signor Anselmo, è in casa?”. “L'é drío dormír ma voialtre cossa voéo da lu? Ve manda el Monsignor par el giornaét?”, chiese la vecchia pensando che fossero delle volontarie per la distribuzione del bollettino parrocchiale.
“No, signora, non veniamo per conto del Monsignore, vogliamo parlare al signor Anselmo di sua figlia Germana.”, rispose Maria che non vedeva la ragione di girare troppo intorno al discorso e di mascherare le loro vere intenzioni.
La vecchia vacillò, impallidendo improvvisamente poi, ripresasi, chiese se si trattasse di uno scherzo o se dicessero sul serio; “Certo che parliamo sul serio, signora, stiamo facendo una ricerca sulla storia di Motta per la scuola e ci hanno raccontato la vicenda di sua nipote. Vorremmo conoscerla meglio se a lei non dispiace.” aggiunse Maria guardandola dolcemente. La donna rimase in silenzio per qualche istante, si guardò intorno per vedere se nelle vicinanze vi fosse qualcuno in ascolto e magari nascosto, poi invitò le bambine ad entrare.
“Cossa ve ai contà de preciso?”, chiese una volta fattele accomodare intorno al tavolo della cucina ed essendosi lei stessa messa a sedere. Maria rivelò ogni cosa udita, senza soffermarsi sui particolari del racconto di Anna che riguardavano più da vicino le intime emozioni di Germana. Si limitò alla cronaca dei fatti come se avesse letto quella notizia su un giornale solo poche ore prima, sottolineando soprattutto il fatto che della sventurata ragazza non s’era avuta più notizia.
Le voci fantasiose sulla sorte della nipote le erano già giunte in passato ma ora suonarono all’orecchio della zia più ingiuriose della verità che lei sola conosceva. Erano in fondo passati già diversi anni, il fratello si era trasformato in un vegetale ormai, ostaggio inerme di una demenza senile che lo metteva al riparo da nuove possibili ferite. Non avrebbe subito contraccolpi nel caso qualche maligno si fosse preso la briga di parlargli ancora della figlia perduta. Il suicido tuttavia era un peccato troppo grave e imperdonabile di cui la nipote non si sarebbe mai macchiata, perciò era giunto forse il momento di ripristinare la verità dei fatti; quelle tre ragazzine curiose avrebbero potuto esserle state inviate da Dio, esserne strumento, che fosse dunque fatta la sua volontà!
La vecchia stette in silenzio per qualche istante poi chiese alle bambine di ascoltarla molto attentamente, senza interromperla.
Germana si era innamorata di un mascalzone che l’aveva sedotta e poi abbandonata al suo destino, senza più dare notizie di sé.
La giovane era rimasta incinta durante un unico incontro amoroso e non ne aveva fatto parola con il padre, temendone la reazione, né con altri fino al giorno della sua scomparsa.
La vecchia zia aveva saputo tutta la storia da una lettera che Germana stessa le aveva spedito molto tempo dopo la partenza dal paese, nella quale l’aveva anche pregata di non dire nulla a suo padre.
In un primo momento aveva raggiunto la città di Milano dove, per qualche tempo, aveva lavorato come lavapiatti in una trattoria poi, per l’avanzata gravidanza, l’avevano cacciata via e si era trovata su una strada, sola e disperata.
Soccorsa dalle monache di un convento cittadino, aveva dato alla luce un maschietto e il “figlio del peccato” era stato dato in adozione ad una famiglia benestante la cui identità era rimasta segreta. Un bambino sano e bellissimo che avrebbe avuto così un destino migliore della madre. Le suore avevano assicurato assistenza alla sventurata per qualche tempo, fino a quando Germana non era riuscita a trovare lavoro come operaia in una grande fabbrica in periferia. Presa una stanza a pensione, aveva quindi lasciato il convento.
Il trauma dell’abbandono della propria creatura l’aveva tuttavia segnata irrimediabilmente e per lungo tempo aveva condotto una vita solitaria e riservata, senza riuscire a stabilire relazioni di alcun genere con nessuno. Scriveva alla vecchia zia solo per avere notizie del padre e per darne di sue ma la parente era stata obbligata al silenzio dalla nipote che preferiva lasciar credere al genitore di essere morta piuttosto di fargli sapere le sue vere condizioni.
L’amante vigliacco, nel frattempo, s’era rifatto vivo non riuscendo tuttavia ad avere un incontro con l’uomo che lo aveva ospitato nella propria casa e che egli aveva ricambiato disonorandone la figlia. Il suo tentativo era stato intercettato dalla risoluta parente che aveva ritenuto giusto impedire l’incontro fra i due e ancor più giusto non permettere che l’uomo potesse nuovamente nuocere alla nipote, ormai rassegnata al proprio destino e forse anche pacificata finalmente. La vecchia non aveva neppure voluto conoscere le intenzioni dell’uomo, il motivo per cui, dopo aver provocato tanta sofferenza, fosse tornato a cercare Germana.
Lo aveva cacciato via, senza nemmeno dirgli del figlio, tanto era tutto inutile e quella notizia lo avrebbe probabilmente spinto ad insistere con più forza, violentemente magari, perché “si sapeva che quelli della Bassa Italia erano dei selvatici che si ammazzavano fra loro come bestie.” Carmine, trattenutosi in paese per qualche settimana, era tornato più volte a bussare a quella porta ma ogni volta la donna lo aveva cacciato in malo modo, minacciando di denunciarlo ai carabinieri, fino a quando il filibustiere era finalmente sparito nel nulla, senza che nessuno oltre a lei avesse fatto troppo caso alla sua presenza.
Germana non aveva mai saputo del ritorno dell’amante, la zia non gliene aveva fatto parola.
Nell’ultima lettera che le aveva spedito alcuni mesi addietro la nipote annunciava il proprio imminente matrimonio con un collega, un operaio conosciuto al lavoro, col quale si era fidanzata un anno prima. Uomo buono e grande lavoratore, non aveva indagato sul passato di Germana e, armato di infinita pazienza, aveva avuto ragione della tristezza di lei, convincendola a sperare in una vita più serena al suo fianco.
Sarebbe tornata in paese a breve, per far visita al padre, ormai ad un passo dalla tomba, che non l’avrebbe probabilmente nemmeno riconosciuta ma che lei certo non avrebbe lasciato andare senza un ultimo abbraccio.
“Sicché, vostra nipote è viva, per fortuna!”, disse commossa Emma, confortata dall’epilogo inaspettato della storia; “La é viva e la sta benón, ringrassiando el Signor!”, rispose la vecchia “Ma quel che ve o contà el deve servír a far ciaro su 'sta storia, 'na volta par tute e speren che la 'sént la smete de far ciàcoe par gnént.”
Dalla scala che conduceva alle camere da letto del piano superiore giunsero dei lamenti sommessi, seguiti da alcuni rantoli soffocati; “L'é lu, el sà svejà, dès' l'é mejo se 'ndé via, anche se no'l capisse pì gnènt el sente che l'é foresti in casa e el se susta. 'Ndé via, dès' e se qualchedún ve domanda calcossa su me nevoda diseghe pura che i vegne da mi, se i a corajo. ”
Le bambine uscirono dalla casa che il sole era già basso in lontananza: “Guardate che colori stupendi!”, esclamò Maria, indicando la linea dell’orizzonte dove le rosse striature, intrecciandosi con i rami scuri degli alberi ed il fogliame, disegnavano un arazzo incantevole nel cielo vespertino, “Non è una vista meravigliosa?”.
Pedalarono senza fretta, gli sguardi catturati dall’incanto serale; il mondo era nelle loro mani, la visione di quella natura dolce e dei colori di un tramonto stupefacente regalò a ciascuna un momento di eternità. Si sentirono felici, per sé stesse, per Germana, per tutti coloro che almeno una volta avevano dimenticato le proprie tristezze specchiandosi nella poesia di un tramonto.
L’indagine sull'identità del misterioso cadavere le stava conducendo lungo percorsi inaspettati, mettendole a confronto con persone e vicende che non avrebbero mai conosciuto altrimenti.
L’entrare in contatto così diretto con il mondo degli adulti stava rivelando alla loro ingenuità di bambine zone ignote e imprevedibili, così lontane dalla loro esperienza, alle quali esse si accostavano timorose ma anche desiderose di superare le apparenze, rassicurate da reciproca complicità e solidarietà. Una per tutte e tutte per una, proprio come i tre moschettieri della corte di Francia.
“Domani, qui alla stessa ora!”, Costanza aveva già portato la bicicletta oltre il portone d’ingresso della villa ed era tornata indietro per congedarsi dalle amiche, “Adesso che Ernesto e Germana sono fuori gioco, dobbiamo cercare in altre direzioni. Dai, Maria, per una volta ascolta anche me! Facciamoci una chiacchierata con la Beppa, quella ne sa una più del diavolo, vedrai che qualcosa scappa fuori.”, Maria acconsentì, la prospettiva di passare un’oretta al bar mangiando un buon cremino gelato e gustando la conversazione con quella donna che, pur ribadendo ad ogni piè sospinto la propria estraneità ai pettegolezzi, era in realtà la cassa di risonanza perfetta del gossip paesano, le mise allegria.
A cena l’atmosfera le sembrò più allegra e distesa del solito, mamma e papà parlavano amabilmente, lui le riferiva i complimenti ricevuti per il restauro della statua lignea, lei ascoltava con attenzione e partecipazione. Presto le finanze familiari sarebbero state accresciute da una piccola ma provvidenziale somma di denaro, sufficiente a pagare il debito maturato al negozio di alimentari e a cancellare quello segnato nel libretto del panettiere.
I soldi non sarebbero certo bastati anche per una vacanza al mare ma qualcosa alla fine i fratellini sarebbero riusciti ad escogitare per trascorrere allegramente le calde giornate dell’imminente agosto. Un’idea la madre l’aveva già concepita, in realtà, ma non intendeva rivelarla ancora per qualche giorno, ben sapendo che una volta enunciata sarebbe stata assediata dall’insistenza dei figli che ben poco tempo le avrebbero lasciato per badare ad altre faccende.
La facciata principale della casa era caratterizzata da un ampio porticato dal quale si accedeva al portone d’ingresso. Il portico era stato pavimentato con semplice cemento che tuttavia aveva subito un trattamento speciale per cui risultava liscio e levigato, come se fosse stato ricoperto di piastrelle smaltate.
Esposto al sole per buona parte della giornata, sarebbe stato il luogo ideale per far giocare i bambini con l’acqua senza sporcare la casa. Avrebbero avuto i loro giochi da spiaggia, fatto le loro corse sul prato erboso e goduto ugualmente dei benefici raggi del sole, senza sabbia e senza mare ma con abbondanti secchiate d’acqua gelata gettata dalla madre divertita sui ragazzini strepitanti ed eccitati per l’insolito gioco.

Più volte negli ultimi giorni Maria era scesa al laboratorio per ammirare la Madonna di legno ed il suo bimbetto Gesù, ed ogni volta aveva notato che la statua era un po’ più bella; l’incarnato luminoso del volto e la dolcezza del sorriso avevano ritrovato l’antico splendore, grazie all’abilità e sensibilità di suo padre. La mano con cui la Madre sosteneva il bimbo le appariva soave e come sospesa in quel suo sfiorare appena il divino neonato.
Era davvero bravo il suo papà! Ogni volta era difficile per lei accettare di non vedere più in casa le opere d’arte che egli recuperava e restaurava, dedicandovi ore e ore di lavoro e passione.
L’intervento del restauratore le rendeva anche un po’ sue, era lui che le restituiva all’originaria bellezza, dando loro una seconda vita, perciò era dura da digerire, per Maria, l’idea che finissero con l’arredare le ville patrizie e i saloni di gente ricca che in tali opere spesso vedeva solo il valore dell’investimento.
“Ti taglierai l’unghia, adesso?”, chiese Maria al padre, mentre questi versava il solito cucchiaino ricolmo di Chimodil nel mezzo bicchiere d’acqua, finita la cena. “Certo che no!”, le rispose, “Non ho mica finito con queste statuine, ci scommetto! Ora che vedranno com’è venuta bella la Madonna mi porteranno altri lavori come questo...finirò col restaurare un intero presepe...”, aggiunse ridendo.
Era felice papà quella sera, come può esserlo un marito e un padre di famiglia che finalmente si senta nel proprio ruolo, decisivo per il benessere dei propri cari, e non principe consorte, presenza comprimaria e ininfluente come invece più frequentemente egli percepiva d’essere a causa della discontinuità e precarietà del proprio lavoro.
La moglie capiva e non lo giudicava, tuttavia ciò contava ben poco poiché il tarlo era in lui e lavorava incessantemente, in zone recondite e insondabili del suo essere, distruggendo impietosamente la rete protettiva che la donna gli tesseva intorno ogni giorno per proteggerlo dall’incomprensione del mondo e dalle sue stesse angosce.
Maria sentì di toccare il cielo con un dito, molte cose in quella giornata erano andate per il verso giusto e l’allegria del padre le sembrò il miglior suggello, la ciliegina sulla torta dopo una serie di momenti positivi; volle godersi fino in fondo quell’istante di gioia perfetta, immagazzinarla gelosamente per recuperarla nei momenti meno buoni che sapeva sarebbero tornati, sempre.

casiestremi@yahoo.it

Di Maria Prosdocimo

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