n.75 VII anno, 1 giugno 2010
Venezia, derive del sentimento e approdi amorosi

Di Alberto Leoncini
Copertina dell'Innamorato di VeneziaSenza timore di campanilismo, credo di poter affermare che poche città al mondo abbiano fornito suggestioni e spunti come Venezia, anzi credo che il capoluogo lagunare possa essere annoverato fra i “luoghi” che oltrepassano la dimensione materiale assumendo un’esistenza autonoma, una realtà, insomma, “dove gli uomini sembrano vegetare e le pietre vivere”. Questa citazione di Luigi Gualdo – autore di fine Ottocento di cui devo confessare la mia pregressa ignoranza – si trova nell’affascinante opera “L’innamorato di Venezia – Une aventure vénitienne”, recentemente riproposta (Nerosubianco, € 12,00, pp. 109, http://www.nerosubianco-cn.com) e corredata da un duplice e bilingue apparato critico. A quattro mani, gli studiosi Luciano Curreri e Jean-Pierre Bertrand ripercorrono genesi e contesto di questa “chicca”, oggi di nuovo a disposizione del pubblico. I curatori, entrambi dell’Università di Liegi (città peraltro dedicataria del testo), offrono al lettore un doppio sguardo sull’opera, dal momento che il testo è a suo tempo apparso sia in italiano che in francese, nell’adattamento approntato dallo stesso Gualdo, come spiega l’esaustiva “Nota ai testi” (p. 103). Senza dubbio, un esempio originalissimo di come le opere letterarie riescano, spesso, a superare barriere linguistiche, culturali e contestuali.
Potrebbero bastare queste motivazioni per applaudire all’operazione, specie per il fatto di contravvenire a quel complesso “agorafobico” che troppo spesso si associa alla nostra letteratura, nella paura di “espatriare” o, forse, di non esserne capaci. Tuttavia, ben più di qualche parola merita l’opera di Gualdo. Autore che, come dicevo, non avevo mai affrontato e che mi ha colpito soprattutto per la stupefacente modernità nell’anticipare temi squisitamente novecenteschi.
Indubbiamente, pensare che i turbamenti dell’animo umano e la loro proiezione all’esterno siano un’invenzione del secolo appena conclusosi, sarebbe ridicolo; eppure non si può negare che questi rientrino tra quegli aspetti con cui maggiormente si scontra la letteratura della contemporaneità. Trovarli così chiaramente delineati e patentemente espressi in un testo antecedente, e per di più pubblicato a puntate, di certo stupisce.
Attorno ad una trama piuttosto scarna e a tratti prevedibile – ed è questo, probabilmente, il vero punto debole del testo, per cui non è diventato un “capolavoro” che, altrimenti, sarebbe nelle antologie di scuola – Gualdo ricostruisce il rapporto tra un viaggiatore straniero in apparenza distratto e Venezia, attraverso le sensazioni che la “magia” di questa città fa emergere, e per cogliere le quali non serve essere “né erudito, né studioso” (p. 14). Si instaura fra la città e il visitatore una liaison profonda e combattuta, al cui interno si inserisce la figura di Zanze, giovane veneziana che, in talune descrizioni, ci fa pensare a una Lucia Mondella lagunare, senza però un Renzo al suo fianco.
L’instaurarsi di una relazione fra i due – si badi, non mi sbilancio a chiamarla “amorosa” (sarà il lettore a dover scoprire il perché…) – è in realtà un pretesto per delineare la magnetica attrazione che sul protagonista esercita la città. Città che da un lato incute una sorta di ieratico rispetto, dall’altro è così affascinante da provocare l’emersione di una soggettività che pareva scomparsa o, perfino, sconosciuta, frutto di un’intimità conseguita a poco a poco e il cui valore è afferrato solo dopo l’allontanamento, quando l’incantesimo veneziano continua a produrre il suo richiamo.
Inconfutabilmente, la Serenissima è stata un “luogo dell’anima” per una schiera di scrittori e artisti il cui elenco esaustivo non potrà mai essere compilato, pena irriverenti esclusioni. Ciò è ancor più vero quando si ha tra le mani il prezioso testo di cui ho parlato sinora, la cui particolarità, come ho cercato di spiegare, sta nel percepire Venezia come crocevia di storie e situazioni intrecciate e divergenti. Continuando con le metafore nautiche, visto che l’opera è pubblicata nella collana “Le drizze”, potremmo dire che tali storie ricordano le scie d’acqua che le imbarcazioni si lasciano alle spalle nei canali.
La piacevolezza dell’opera, tuttavia, non è solo legata a questi aspetti più propriamente letterari, ma anche alle impressioni che Venezia suscita nel visitatore al primo approccio: pare davvero di essere nel bel mezzo delle magiche atmosfere che la città dispensa, e fa talvolta perfino sorridere come i particolari siano carpiti più con l’animo che con i sensi, senza troppo badare al côté meramente “artistico” o “culturale”… Ne è un esempio – non saprei se si tratti di un espediente letterario per rendere il testo incalzante, o di un genuino moto dell’autore – è la sensazione, più volte ripresa, di “liberazione” che il protagonista ha dopo essersi districato nelle labirintiche calli, allorché sbuca in una “piazza”. Come si sa, a Venezia di piazza ce n’è una sola (Piazza San Marco), e tutti gli altri sono “Campi”. Eppure da un dettaglio così banale abbiamo un’ulteriore prova di quel “protagonismo” della città che, giustamente, è messo in evidenza già nella quarta di copertina. Vorrei comunque sottolineare che non si tratta di una Venezia da cartolina, quasi caricaturale, bensì di una raffigurazione assai realistica specialmente nei tratti più peculiari, che sono restituiti con grande nitidezza e oggi ci testimoniano un mondo probabilmente inghiottito per sempre dal progresso che, in un luogo come Venezia, va più stretto che altrove…
Di Alberto Leoncini


 
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