n.75 VII anno, 1 giugno 2010
XXIII capitolo: Panta Rei

Di Maria Prosdocimo
Emma non venne più. Maria e Costanza cercarono di mettersi in contatto con lei, ma ogni volta, al telefono, ricevettero risposte evasive dai familiari dell’amica e, dopo ripetuti tentativi, desistettero.
Preoccupate ma fiduciose nelle possibilità della madre di Maria di arrivare alla verità, le due piccole detective dedicarono gli ultimi due giorni della settimana alle verifiche in biblioteca.
Quella domenica pomeriggio Motta sembrava quasi deserta; quasi tutte le famiglie più facoltose e numerose fra quelle arricchitesi recentemente grazie al boom economico che stava interessando gran parte del Paese, avevano già raggiunto i luoghi di villeggiatura, nelle seconde case al mare o in montagna. Accadeva così che, spesso, piccoli gruppi di persone residenti in un qualsiasi centro sconosciuto e insignificante della vasta pianura veneto-lombarda, si incontrassero nel periodo delle vacanze e ricostituissero delle nuove comunità sotto il cielo ampezzano o nei moderni residence sorti lungo il versante veneziano e friulano del litorale adriatico. Le stesse persone che di norma non si frequentavano durante il resto dell’anno, pur vivendo nel medesimo luogo, finivano per trascorrere intere serate in estenuanti partite a ramino e scala quaranta o passeggiando lungo i sentieri intorno al lago; arrostendo pigramente, fianco a fianco, sotto il solleone agostano mentre ascoltavano le radiocronache delle partite di calcio o l’ultimo singolo di Battisti dalle radioline a pile. Numerosi bambini e ragazzi del paese erano partiti per il campeggio estivo organizzato dalla parrochia e tanti altri, scout e guide della locale sezione Agesci, da giorni ormai vivevano sotto le tende da campo, piantate nelle verdi radure delle Dolomiti, fra ruscelli dall’acqua purissima e maestose pareti rocciose che all’alba e al tramonto si coloravano di rosa.
Ci sarebbe andata anche lei lassù, prima o poi, doveva solo aspettare di avere l’età giusta; l’attrazione che su di lei esercitavano le incantevoli panoramiche dolomitiche fotografate dallo zio che era anche capo reparto scout, la emozionavano al punto di farle male.
S’immaginava in vetta al Pelmo o al Coldai, immersa in un silenzio mai sentito, parte di quel grandioso scenario che doveva essere un assaggio di eternità. Parecchie persone avevano raggiunto sin dalle prime ore del mattino le vicine spiagge, per un’unica giornata di mare e sole e le strade di Motta apparivano ancor più vuote, arroventate dal sole cocente, sotto un cielo così limpido e azzurro da sembrare finto.
L’indomani sarebbe partita anche Costanza; Maria si sentì improvvisamente sola contando sul calendario appeso in cucina la lunga serie di giorni che l’avrebbero separata dalla complice amica.
C’era Marta, era vero, tuttavia nelle ultime settimane il legame con Costanza s’era fatto più forte, alimentato dal comune segreto che lo rendeva ancora più speciale, più intimo e profondo.
Improvvisamente le tornarono in mente le parole di Costanza sul conto del canadese, lo sconosciuto ragazzino la cui bellezza fuori dell’ordinario era stata oggetto di lodi sperticate nelle confidenze dell’amica.
“Chissà se è già tornato al suo Paese”, pensò fra sé e sé Maria, senza che lei l’avesse anche solo intravisto.
Angelo, Angel in realtà, che nome delicato! Leggero come una piuma. Abituata ai Marco, ai Roberto, agli Stefano, le sembrò persino che non fosse nome adatto ad un maschio.
Nel pomeriggio al piccolo cinema dell’oratorio proiettarono l’ennesimo film della coppia Bud Spencer & Terence Hill.
Maria ci andò come al solito insieme alla sorella, un po’ controvoglia.
Le risate chiassose dell’esiguo pubblico che accompagnarono la proiezione della pellicola e le gag dei due simpatici cowboys laziali, alle prese con comunità religiose di Mormoni e pistoleri dal grilletto facile, finirono per coinvolgerla, divertendola e mitigando la sua malinconia.
“Dai, Maria, andiamo a prenderci da bere!”, esultò Marta, alla fine del primo tempo e trascinando la sorella, dopo averle afferrata la mano.
Davanti al distributore automatico c’era già una discreta ressa di assetati; Marta fremeva impaziente, già pregustando il piacere della sua Coca-Cola, Maria attendeva invece tranquilla il proprio turno, girando e rigirando fra le mani il piccolo portafoglio ricoperto di minuscole perline colorate, cucite una ad una sulla stoffa, il suo orgoglio.
Fu allora che avvertì l’impulso a girarsi e a guardarsi alle spalle.
Qualche passo più indietro, di una spanna almeno sopra a tutte le altre teste, si ergeva quella di un ragazzo bellissimo, i capelli biondi e luminosi come una distesa di frumento inondata di sole, due occhi così azzurri che sembravano riflettere il colore del cielo.
Maria rimase senza parole, sospesa nell’estasi dell’improvvisa visione. Era lui, era sicuramente lui, il canadese!
Avvampò in un istante ma non riuscì a staccare gli occhi da quel volto, né ad abbassare la testa, benché si sentisse invadere dalla vergogna per l’incontrollata reazione.
Lui le sorrise e in quell’istante preciso l’imbarazzo della ragazzina raggiunse il vertice da cui, con la stessa velocità, ella precipitò rovinosamente in uno stato di totale disagio.
Abbassò lo sguardo e gli voltò le spalle di scatto, sentendo nel cuore un galoppo selvaggio di purosangue lanciati nella corsa e rimase a fissare il proprio volto riflesso sulla superficie lucida e rossa del distributore di bibite. “Mio Dio!”, pensò, “Sono diventata rossa come questo affare!”
In sala non ne aveva notata la presenza o forse lui era arrivato a proiezione già iniziata, la porta era stata aperta due o tre volte in effetti, durante il primo tempo del film, lasciando penetrare la luce esterna del giorno che, come un fendente luminoso, aveva fugacemente attraversato il buio fitto della stanza. “Ora che faccio?”, si chiese, infilando le monete nel distributore e restando ad attendere che le gelide bottiglie scendessero nello sportellino, senza riuscire a muovere un solo muscolo del collo; “Gli dico ciao e poi resto muta? Non so nemmeno se mi capirebbe..., e se gli dico ciao e lui non mi risponde ci faccio la figura della stupida!”
Dietro a lei alcuni mocciosi scalpitavano, spazientiti: “Muoviti, su, che ricomincia il film!”
Il tocco leggero di una mano che le picchiettò la spalla la fece trasalire; un tocco leggero come quello dell’ala di un angelo, pensò subito e, lentamente, si girò.
“Ciao!”, disse sorridendo lo sconosciuto, “Hai dei problemi?”; Santo Cielo! Parlava in italiano, un italiano fluente per giunta: “Non ho nessun problema io!”, rispose di getto la bambina sprofondando ancor di più nella vergogna; “Con il distributore intendo!”, si affrettò subito a precisare ridendo il ragazzo, “A volte s’inceppa; dai spostati, che ci penso io.”
Scostatasi un poco più in là, Maria rimase ad aspettare quel che sarebbe accaduto senza riuscire a coordinare pensieri e azioni, sotto lo sguardo perplesso e attonito di Marta: “Che ti succede, Maria?”, ma la piccolina non ottenne risposta. “Ecco le vostre bibite.”, disse Angelo raggiungendo le ragazzine e porgendo loro le due piccole bottiglie, “A chi va l’aranciata?”.
“A me...”, rispose con un filo di voce Maria, non riuscendo nemmeno a dirgli grazie; “Bene! Quindi la Coca è per te.” Rispose lui, allungando la bottiglia a Marta. “Dobbiamo rientrare, il film è già ricominciato.”, aggiunse poi il ragazzo indicando l’ingresso della sala e invitandole a seguirlo con un cenno della mano. Le due sorelle tornarono ai posti avanzando a tentoni nel buio, cercando di disturbare il meno possibile con il loro passaggio.
“Dove sarà andato a sedersi?”, si chiedeva Maria che non riusciva nemmeno più a vedere la pellicola proiettata sullo schermo. Sentiva quei due occhi su di sé, o immaginava di sentirli, e la sensazione la inchiodò alla poltroncina per il resto del tempo.
Costanza aveva detto il vero, Angelo era il più bel ragazzo che avesse mai visto sino ad allora. In un solo istante persino il ricordo di Marco era svanito in lei, cancellato, annullato da quella visione meravigliosa.
Sui titoli di coda del film si accesero le luci nella sala che si svuotò in un baleno per il fuggi-fuggi generale dei piccoli spettatori precipitatisi all’esterno, decisi a strappare al pomeriggio domenicale ancora qualche ora di divertimento. Maria rimase seduta, incapace di prendere una decisione: alzarsi e sgattaiolare via velocemente, senza guardarsi intorno o cercarlo con lo sguardo e, individuatolo, aspettare che le rivolgesse la parola una volta ancora per poter dire qualcosa di sensato anche lei, stavolta?
Marta che, non badando alla sorella, era uscita insieme agli altri, spinta dalla frenesia generale, tornò a cercarla: “Cosa ci fai ancora qui? Vieni fuori, stanno organizzando una caccia al tesoro.”
Nella sala non c’era più nessuno, Maria ne perlustrò velocemente ogni angolo con lo sguardo, poi uscì all’aperto.
“Vai tu, io resto seduta qui, non ho voglia di giocare adesso...”, sussurrò alla sorellina incoraggiandola a raggiungere il gruppetto di amici.
La piccolina non si fece pregare, con un balzo fu nella mischia, ignara dei pensieri che turbavano Maria.
Ora che lo aveva incontrato e che aveva persino scambiato qualche parola con lui come avrebbe potuto dimenticarlo?
Perché Costanza doveva partire proprio l’indomani? Perché la lasciava sola con quel dilemma nel cuore?
Si sentì sola, completamente sola, come altre volte le sarebbe accaduto nella vita. “Ne vuoi un’altra?”, le chiese Angelo parandosi davanti a lei.
Maria alzò lo sguardo su di lui, così vicino, senza tutti gli altri intorno le sembrò ancor più bello di prima. Aveva una carnagione non troppo chiara come invece ci si sarebbe potuti aspettare in una persona dai capelli biondissimi; tratti del volto da moro, piuttosto decisi, occhi e capelli da biondo, una combinazione magnifica. E poi quel sorriso! Maria lo sentì arrivare al cuore, come una folata vivace di vento primaverile, carica di profumi nuovi e di elettricità.
“No, grazie, non ho più sete.”, rispose intimidita, “Vuoi sederti qui? Scusa, magari vuoi andare a giocare con gli altri...”, si corresse subito, temendo di essere stata troppo audace.
Angelo prese posto accanto a lei e per più di un’ora i due conversarono di molte cose, scambiandosi notizie ed impressioni, ridendo reciprocamente alle battute dell’uno o dell’altra, fino a quando Marta non fece ritorno, ansimante e sudata, crollando sfinita accanto alla sorella.
“Ho vinto! Ho vinto io, ho trovato il tesoro, tieni!”, disse, con la poca voce che le era rimasta, porgendo a Maria una manciata di Mon Chéri al cioccolato, di quelli con la ciliegia dentro. “Tu ne vuoi?”, chiese allo sconosciuto, tendendogli i cioccolatini.
Rimasero per un po’ in silenzio, masticando cioccolata e respirando il profumo dell’erba calpestata dall’orda di ragazzini che continuavano a correre su e giù per il prato dell’oratorio.
Maria insegnò ad Angelo a succhiare gli stami del fiore del trifoglio, descrivendogli quanto fosse piacevole il sapore del glicine e quello dell’acacia. Trovarono un po’ di acetosella, non sapeva se si chiamasse così in italiano, ma poco importava, ciò che contava era fargli assaggiare l’asprigno gusto di quelle tenere foglioline verdi a forma di cuore.
“Quando tornerai in Canada?”, gli chiese, sapendo già che nessuna risposta sarebbe stata per lei piacevole, “Alla fine di agosto.”, rispose lui, precisando però che durante quel periodo sarebbe dovuto andare al mare con la vecchia nonna per una decina di giorni.
Maria fece un rapido calcolo mentale, rendendosi conto che i giorni rimasti non erano poi molti ma certo li avrebbero trascorsi insieme tutti quanti.
Angelo era certamente interessato a lei, le sembrava evidente, perciò al momento di separarsi gli diede appuntamento per il giorno seguente, lì all’oratorio.
“Ti piace quello lì, adesso?”, le chiese Marta camminandole accanto frettolosamente verso casa.
La segreta contentezza della piccolina per la partenza di Costanza era durata solo poche ore purtroppo; l’apparizione sulla scena del nuovo ragazzino rappresentava un’inaspettata, ennesima distrazione per la sorella.
Era venuto da lontano a guastarle i piani! Maria si sarebbe lasciata prendere dalla novità, ne era certa, e si sarebbe dimenticata di lei fin tanto che lui fosse rimasto a Motta.
La delusione le dipinse un’espressione inquieta in volto e Maria dovette affrettarsi a correre ai ripari.
“E smettila! L’ho appena conosciuto e poi andrà via fra meno di un mese. Ma lo sai dov’è il Canada, tu? Chissà se e quando tornerà ancora qui! Comunque non sono affari tuoi e non cominciare con la solita solfa! Staremo insieme ogni santo giorno, io e te, e dove andrò io verrai anche tu.”
Rassicurata, Marta ritrovò il sorriso e per la contentezza si ricordò di avere un gran appetito.
Giunte a casa si precipitò a tavola, dove le attendeva una gustosa insalata di patate, cipolle novelle e rape rosse lessate e condite che la madre servì loro insieme a del fresco formaggio latteria.
“Papà è di là con vostro fratello che sta male,”, le informò la madre riempiendo i loro piatti, “gli è venuta la febbre per quel bagno che ha fatto ieri nel fiume.” Le bambine avevano notato l’assenza dei due e alle parole della madre ricordarono di aver visto il fratello piuttosto malconcio la sera precedente.
In un punto preciso il corso del fiume faceva un’ansa dove si raccoglieva l’acqua limpida e trasparente, formando una sorta di piscina naturale, irresistibile agli occhi dei più coraggiosi nelle ore infuocate della canicola estiva.
Uno sbalzo termico eccessivo o forse l’aver ingoiato dei batteri patogeni insieme all’acqua, poteva essere stata la causa dell’improvviso malessere del fratello. Il campanello dell’ingresso suonò richiamando l’attenzione della madre; “Vado ad aprire, dev’essere l’Elvira, voi restate qui e finite di mangiare.”, ordinò alla bambine che non se lo fecero ripetere due volte.
La vecchia Elvira salì faticosamente le tre rampe di scale, appoggiandosi all’inseparabile bastone e al corrimano.
Era una donna traccagnotta, ingobbita e curva sotto il peso degli anni; posò la sua borsa di cuoio nero, a bauletto, sopra il tavolo della cucina, estraendone la famigerata scatolina rettangolare di alluminio, nella quale conservava gli attrezzi del mestiere: aghi e siringa.
Le bambine l’osservarono attentamente, conoscevano a memoria ogni suo singolo gesto. Questa volta per fortuna non era venuta per una di loro; aprì il rubinetto dell’acqua e riempì la scatolina di metallo che mise poi a bollire sopra il fuoco più piccolo del fornello a gas.
Nel frattempo preparò la fiala del liquido da iniettare, picchiettandone la parte strozzata e aprendola con gesto sicuro.
“E’ quella che brucia?”, le chiese Marta, osservando la particolare viscosità del liquido contenuto nella fiala; “No la brusa, no la brusa, sta tranquía, to fradèl non se acorsarà de gnènt.”
“Ecco lo spirito e il cotone Elvira!”, disse Maria, che nel frattempo era andata a prelevare l’occorrente dal mobiletto dei medicinali; “Cosa senti quando spingi giù l’ago?”, chiese alla donna porgendoglielo, “Mi gnènt!” le rispose ridacchiando l’infermiera, mostrando i pochi denti ingialliti che le erano rimasti attaccati alle gengive. “Domàndegheo al to “culeto”!”
Aveva un viso piccolo e rotondo, sul quale grandeggiava l’enorme protuberanza del naso punteggiato di vistosi nei; lo sguardo ancora vivace intrappolato in due strette fessure rugose sembrava quello di una persona molto più giovane della sua età e la grossa treccia di capelli grigi, arrotolata sulla testa e fermata con alcune forcine, sembrava una corona o meglio la sommità turrita di un bastione medievale.
Non parlava mai molto l’Elvira, sbrigava diligentemente e velocemente il proprio lavoro e, intascato il compenso pattuito, faceva ritorno alla sua modesta abitazione di edilizia popolare, fra gatti e canarini. Nessuno l’aveva mai vista entrare in un caffè o avventurarsi all’interno di un negozio che non fosse quello dell’alimentarista.
Risparmiava. Risparmiava ogni centesimo ma, essendo sola al mondo, molti si chiedevano per chi ella mettesse da parte il poco denaro che riusciva a racimolare con i suoi servigi a domicilio.
Riservata e taciturna, Elvira rappresentava una sorta di enigma per i compaesani, ma era al contrario conosciuta e amatissima nelle lontane e selvagge terre d’Africa, dove puntualmente i religiosi di una piccola missione ricevevano dal paese veneto il suo denaro.
Nubile e ormai vecchia, nutriva un autentico sentimento materno per quegli orfani che non avrebbe mai avuto la gioia d'incontrare e nonostante ciò c’era posto per ciascuno di loro nel suo grande cuore.
La madre di Maria doveva forse sapere qualcosa di quella sua vita segreta, ogni volta infatti la costringeva ad accettare almeno il doppio del compenso richiesto. Nella stanza da letto del fratello ammalato l’odore di mela cotta e camomilla si mescolava con quello acre di sudore; gli occhi gonfi e arrossati del ragazzino brillavano per la febbre, i capelli bagnati e appiccicaticci lo facevano sembrare un cucciolo di gatto scivolato per sbaglio in un secchio d’acqua; le labbra gli si contrassero in una smorfia di disgusto non appena vide entrare la donnina tutta vestita di nero con la minacciosa siringa nella mano destra.
“Su, su, fa el bravo e gìrete su un fianco!”, l’incitò amorevolmente, ma con decisione, Elvira.
Il ragazzo non fece resistenze, si mise in posizione e attese la scossa dell’ago nella carne. “Carne de cueo no va in Paradiso!”, aggiunse ridendo la donna, iniettando con mossa sicura la medicina nella natica del malato.
“Te vedarà che fra poc te te sentirà mèjo.”
Uscita dalla stanza e salutati tutti Elvira, lasciò la casa e in pochi istanti sparì nell’ombra della quieta serata estiva.
L’immagine del fratello semisepolto fra le lenzuola nella penombra della stanzetta, circondato dalle persone in piedi intorno al letto, i genitori, Elvira con i suoi vestiti rigorosamente neri e lei stessa, aveva riportato alla mente di Maria l’illustrazione del Mazzanti nel libro di Collodi.
"Quel burattino lì, seguitò a dire il Grillo-parlante, è una birba matricolata..." La frase della favola risuonò nella sua testa come un presagio.
Al posto del padre e della madre, della vecchia Elvira e di sé stessa, Maria aveva visto il Grillo-parlante e la Fata Turchina il Corvo e la Civetta e in mezzo a loro, piangente e dolente l’irrequieto Pinocchio. "Quel burattino lì è un figliuolo disubbidiente, che farà morire di crepacuore il suo povero babbo!..."
La tristezza la colse come un’onda improvvisa scaturita dalla profondità di un mare apparentemente calmo e piatto; sentì una fitta al cuore, profonda, lancinante, e non ne comprese la causa. In fondo il fratello non stava poi così male, la febbre sarebbe svanita in poche ore e tutto sarebbe tornato a posto.
Guardò verso i genitori, la madre era china sul figlio e gli detergeva il sudore dolcemente, carezzevole; il padre, poco discosto, era rimasto in piedi, appoggiato allo stipite della porta, silenzioso.
Aveva uno sguardo strano, più pensieroso che preoccupato e non disse una sola parola per il resto della serata.
"E lei non dice nulla?" domandò la Fata al Grillo-parlante.
"Io dico che il medico prudente quando non sa quello che dice, la miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel burattino lì non m'è fisionomia nuova: io lo conosco da un pezzo!..."
casiestremi@yahoo.it
Di Maria Prosdocimo


 
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