n.76 VII anno, 2 luglio 2010
XXIV capitolo: Panta Rei

Di Maria Prosdocimo
Svegliatasi alle prime luci dell’alba, con passi lievi e felpati Maria raggiunse il bagno; si lavò per bene la faccia e i denti e si spazzolò i capelli arruffati. Giunta in cucina si spogliò del pigiama e indossò i vestiti che s’era portata dalla stanza da letto, dove Marta dormiva ancora profondamente.
“Dove stai andando?”, le chiese la madre che era sopraggiunta pochi istanti dopo, svegliata dai rumori insoliti per quell’ora del mattino.
“Voglio salutare Costanza, parte fra poco e non la vedrò per un mese...”; “Vuoi che ti accompagni?”, chiese la donna sbadigliando, ancora visibilmente assonnata, “No, mamma, non serve, faccio una corsa in bicicletta.”
Il cancello d’ingresso della villa di Costanza era spalancato sul cortile interno, nel portabagagli della lussuosa automobile un omino dai movimenti frettolosi e agili stava caricando le numerose valige di pregevole cuoio, oltre ad alcuni beauty-case e preziose pochettes.
Maria non poté fare a meno di pensare all’unica, grossa valigia bianca di duro cartone piena di vestiti, asciugamani e costumi da bagno che la madre si trascinava a fatica su per le scale della pensione di Caorle, dove la famiglia solitamente alloggiava quando poteva permettersi una breve vacanza al mare.
Costanza non si vedeva ancora; Maria si rivolse al domestico chiedendogli dove fosse ed egli rispose che stava ancora facendo colazione.
“Vada, vada pure, signorina Maria, sono già tutti alzati e vestiti; troverà la padroncina in sala da pranzo.”
Maria attraversò velocemente gli interminabili e familiari saloni dell’edificio, accarezzando con lo sguardo i quadri alle pareti, le colorate gemme di vetro dei lampadari veneziani, le preziose suppellettili in bella vista sui mobili e, infine, raggiunse la sala da pranzo.
“Ce l’hai fatta!”, esclamò raggiante Costanza, vedendola entrare. “Grazie, Maria, sono felice di poterti salutare prima di partire. Non mi va di andare via proprio adesso, maledizione!
“L’ho conosciuto!”, le sussurrò Maria fremendo per l’emozione, “Chi hai conosciuto?”, chiese Costanza, non comprendendo l’eccitazione della compagna. “Angelo! Il canadese!”
Costanza la guardò sgranando gli occhi poi, sorridendo, aggiunse: “Avevo ragione io, vero?”. Maria arrossì e rispose annuendo. Non furono necessarie altre parole. “Dovrebbe ripartire alla fine del mese, se non sbaglio”, aggiunse Costanza; “Sì, ma andrà al mare con la nonna per un po’ di giorni...” precisò Maria con aria sconsolata.
“Hai fatto colpo, eh?”, le chiese l’amica, già sicura della risposta, “Credo di sì, ma non ha importanza...”, si affrettò a ribadire la ragazzina, “tanto non lo rivedrò mai più!”
“Che ne sai? Magari ritornerà la prossima estate.”
Furono raggiunte dal domestico che invitò Costanza ad affrettarsi: i genitori l’attendevano già nell’automobile.
“Scrivimi se puoi, un mese è lungo...”, disse con aria mesta Maria, mentre l’amica entrava nell’auto; “Lo farò senz’altro; tu studiati bene la geografia del Canada...”, le rispose ridendo Costanza.
Rimasta sola, Maria osservò l’automobile allontanarsi velocemente lungo il viale di ippocastani, sparendo in lontananza.
Nel pomeriggio avrebbe rivisto Angelo, ma ora doveva tornare a casa, Marta poteva essere già sveglia e lei non aveva alcuna voglia di dare spiegazioni.
La mattinata trascorse tranquillamente; le bambine si dedicarono alla pulizia settimanale della loro camera da letto, rassettando e spolverando le mille cianfrusaglie sparse per la stanza.
Marta evitò di proposito ogni riferimento alla nuova conoscenza del giorno precedente, forse non parlandone l’interesse di Maria per quel ragazzo sarebbe scemato.
La piccolina attese con ansia l’arrivo del pomeriggio, sperando che qualcosa d'imprevisto accadesse, ma dopo pranzo l’annuncio di Maria arrivò puntuale: “Fra dieci minuti andiamo all’oratorio, abbiamo un appuntamento con Angelo.”, comunicò con un tono di voce che non ammetteva repliche.
“Ce l’hai tu, l’appuntamento...”, borbottò la piccolina a mezza voce.
“Ti ho già detto di non fare la solita manfrina!”, rispose stizzita Maria. “Se vuoi stare con me vieni dove vado io, senza discussioni.”
Era sicura che la sorellina non si sarebbe annoiata e non intendeva cedere ai suoi ingenui ricatti: se c’era una cosa che la faceva arrabbiare davvero era il sentirsi forzata a fare qualcosa.
Le piaceva rendere felici le persone, non aveva esitazioni nel darsi completamente ad esse, ma doveva farlo spontaneamente, senza esservi costretta. Doveva sentir nascere dentro di sé l’impulso verso chi amava e allora non c’era limite alla sua disponibilità, ma non appena annusava odore di costrizione si chiudeva a riccio e diventava impermeabile come una superficie di argilla.
Giunta all’oratorio ebbe l’amara sorpresa di non trovarvi l’amico. Rimase seduta sullo stesso gradino del giorno prima ad aspettarlo per più di mezzora, poi cominciò ad innervosirsi e a girovagare inquieta fra l’edificio ed il campetto da calcio.
Marta nel frattempo aveva incontrato alcune amiche e stava già giocando con loro, incurante della sua tensione.
Il richiamo di un fischio prolungato raggiunse Maria, scuotendola dai suoi cupi pensieri. Guardò in direzione della provenienza del suono e lo sguardo si fermò al terzo piano di un condominio che sorgeva al limitare del campetto, al di là della recinzione metallica dell’oratorio.
Il braccio del ragazzo, agitato in segno di saluto, attirò la sua attenzione. Una sensazione piacevole di sollievo le alleggerì all’istante il cuore ormai ostaggio della delusione e tuttavia non comprese perché se ne stesse lassù e non fosse sceso per il loro appuntamento.
Angelo le fece cenno di avvicinarsi di più e, una volta che lei fu proprio sotto al terrazzo, le lanciò un fagottino bianco che la bambina raccolse immediatamente da terra.
Era un foglio di carta appallottolato attorno ad una noce, un messaggio per lei. Maria lesse precipitosamente il biglietto, come se da ciò potesse dipendere la sua stessa vita.
Tutto avrebbe potuto aspettarsi, tranne ciò che quelle poche righe le rivelarono inesorabilmente.
Angelo aveva ricevuto il divieto di frequentarla da parte della nonna che non gli aveva fornito una precisa motivazione ma che era stata perentoria a tal riguardo. La sera precedente lui aveva raccontato alla vecchia del bell’incontro con la simpatica ragazzina e la donna lo aveva ascoltato compiaciuta fino quando non gli aveva sentito proferire il cognome della nuova amica.
Il ragazzo aveva protestato vivacemente di fronte all’inspiegabile divieto, ma la donna non aveva ceduto e lo aveva addirittura punito, per l’eccessiva impertinenza a suo dire, con una settimana di reclusione in casa.
Maria lesse e rilesse più volte quelle parole, non riuscendo a capacitarsi della loro assurdità.
Perché il suo cognome fosse stato causa di un così dura presa di posizione da parte della sconosciuta compaesana le appariva inspiegabile.
Poi ricordò le parole di Costanza; l’amica aveva conosciuto Angelo in occasione di un incontro fra sua madre e la nonna di questo, con la quale aveva una conoscenza di vecchia data.
Improvvisamente nella sua mente si affollarono mille congetture e cominciò a farsi strada un dubbio angoscioso; anche i genitori di Costanza s’erano espressi in maniera per lo meno diffidente sul conto di suo padre e dei suoi trascorsi giovanili durante l’ultima guerra.
La nonna di Angelo, vedova di un repubblichino di Salò, aveva idee ben precise sulla rispettabilità dell’ex partigiano e forse aveva esteso il giudizio negativo anche al resto della famiglia dell’uomo.
Maria stracciò in mille pezzi il biglietto e guardò su, verso il ragazzo che l’osservava mortificato e intristito; non disse nulla, con la mano accennò ad un saluto e tornò verso l’oratorio, senza più voltarsi indietro.
Sopraffatta dal senso d’impotenza nei confronti di un mondo adulto che percepiva gretto e miope, fu incapace di trattenere le lacrime e corse a nascondersi dietro al casotto degli attrezzi del giardiniere per lasciarsi andare allo sconforto, senza testimoni e soprattutto senza farsi vedere in quello stato dalla sorellina. Pianse fino a sentirsi bruciare gli occhi, soffocando ogni rumore nel lembo di stoffa del vestito che aveva portato alla bocca, premendovelo per non lasciar uscire nemmeno un lamento.
La sua bella furlanina indossata per l’occasione, fresco e coloratissimo abitino floreale impreziosito dal candido grembiule di pizzo sangallo, alla fine dello sfogo aveva perduto l’eleganza della stiratura perfetta, ma ormai non le importava. La sera, a casa, nessuno si accorse del suo stato. Presa dalla preoccupazione per la persistente febbre del figlio maggiore, la madre non badò molto al resto della tribù ed i bambini cenarono soli con il padre, mentre la donna, rimasta al capezzale dell’ammalato, continuò fino a notte fonda a detergergli la fronte rovente e a ventilarlo agitando con un pezzo di cartone l’aria davanti al piccolo volto sfinito e febbricitante.
Trascorsero alcuni giorni che a Maria sembrarono interminabili; partecipava distrattamente ai giochi della sorella e si ritagliava rari momenti di solitudine, quando le riusciva, rintanandosi nella sua cameretta a leggere romanzi o a scrivere versi ispirati.
Col passare delle ore la tristezza aveva lasciato il posto ad una rabbia sorda ed inesprimibile.
Provava rabbia verso coloro che, pur senza conoscerla, l’avevano giudicata per chissà quali eventuali colpe non sue, ma sentiva nel profondo del cuore un risentimento ancor più inconfessabile verso quel padre il cui passato sembrava gravare così pesantemente sul suo destino.
Doveva sapere! Conoscere la verità, per riuscire a difendersi dalle conseguenze presenti e future dell’essere la figlia di un uomo su cui troppe ombre sembravano addensarsi.
Ignorare le cause di una diffidenza istintiva che percepiva a pelle in talune persone le sembrava di gran lunga peggio che scoprire un’eventuale, amara verità. Di parlarne con mamma non era proprio il caso, avrebbe dovuto riferirle le vere ragioni del proprio turbamento e non intendeva in alcun modo farla soffrire, senza motivo magari.
La vita era già così dura per lei.
Maria si ricordò improvvisamente di Emma; decise di andare a cercarla. Non le importava di quel che sarebbe accaduto, scuse ne avrebbe sapute inventare a centinaia, ciò che contava era riuscire a vedere l’amica.
Il bisogno di allontanare da sé i mille pensieri funesti sulla propria condizione poteva trovare risposta solo in qualcosa di ben più importante del rifiuto sociale a cui si sentiva incolpevolmente esposta.
Emma stava peggio di lei, vittima di circostanze certamente più gravi ed oscure. Marta protestò, ma non ci fu verso di convincere la sorella maggiore a portarla con sé: “Questa volta no! Non puoi venire, devo fare una cosa importante e devo farla da sola.”
Raggiunse il mulino in bicicletta, suonò insistentemente il campanello e finalmente sull’uscio comparve il mugnaio, bianco di farina e visibilmente affaticato.
“Ancora qua! Cossa vutu dès'?”, chiese l’uomo, senza sforzarsi di nascondere il fastidio per l’inopportuna visita; “Buongiorno signore, devo vedere Emma.”, rispose la bambina cercando di mostrarsi sicura e per niente intimorita.
“La Ema l'é drío lavorár, làssea in pase.”, le rispose sbrigativamente, già voltandole le spalle per tornare al lavoro, senza attendere risposta.
“Non posso andare via senza aver parlato con lei!”, disse perentoria Maria, “Dobbiamo finire un lavoro per la scuola e io non posso farlo tutto da sola.” Il mugnaio tornò sui suoi passi e avanzò con fare minaccioso verso la fastidiosa rompiscatole. “No voi dir do volte la stessa ròba, putèa!”, disse guardandola severamente negli occhi, “La é drío lavorár. Gira i tachi e torna a casa tua!” “Non voglio ripetermi nemmeno io!”, gli rispose sempre più grintosa la piccola, “Emma deve fare la sua parte di lavoro e se lei non lo permette io lo dirò al maestro!”
Preso alla sprovvista da tanta risolutezza, l’uomo ebbe un motto di rabbiosa insofferenza, ma qualcosa dovette balenargli nella mente e lo fece desistere dall’assumere un atteggiamento ancor più rude.
“'Spèta qua un momento, vae a ciamàrtea, ma sbrigheve senò...”
“Sennò cosa?” avrebbe voluto chiedergli, sfidandolo, Maria, ma si trattenne. “Ci saranno altre occasioni, caro mio,”, pensò fra sé e sé, “lo vedrai come la pagherai prima o poi!”
Emma raggiunse l’amica in cortile, aveva gli occhi cerchiati di chi ha pianto parecchio e un’espressione di triste lontananza nello sguardo: “Cosa c’è Maria? Perché sei tornata?”, chiese tenendo la testa abbassata quasi a nascondersi. “Ho raccontato a tuo padre che mi servi per la nostra ricerca ma in verità volevo vederti e sapere come stai...”
Ora che lo scopo era stato raggiunto e l’adrenalina era tornata a livelli normali Maria sentì di non essere così armata per affrontare una situazione più grande di lei.
Emma alzò lo sguardo verso di lei e la fissò senza parlare, capiva di non poterle più nascondere la scabrosa verità, ma una supplica silenziosa nei suoi occhi rivelò a Maria la reale dimensione della sua sofferenza.
“Non ti preoccupare Emma, non farò nulla che ti possa creare altri problemi.” Si accordarono sulle risposte ad eventuali richieste di spiegazioni per quella visita inaspettata e si salutarono senza enfasi, evitando di dare troppo nell’occhio. Lui, non visto, le stava certo spiando da qualche punto della casa. Se aveva trovato il coraggio di affrontare quell’uomo violento forse sarebbe riuscita a superare anche il disagio della sua personale situazione, pensò prima di prendere sonno, fiaccata dalla grande stanchezza che l’aveva colta poco dopo il confronto con il bruto.
L’indomani avrebbe tentato di mettersi in contatto con Angelo, non le importavano affatto le possibili conseguenze del suo azzardo, non si sarebbe più arresa a nulla senza lottare.
Si arrese invece alla stanchezza, rassicurata dall’inedita consapevolezza delle proprie possibilità, e si addormentò più serena.
Aveva imparato dai compagni di scuola a fischiare come un vero maschio e riusciva a tenere il fischio persino più a lungo di loro. Arrivata sotto il terrazzo dell’amico, la mattina successiva, Maria rimase in attesa di veder uscire la vecchia megera e quando quest’ultima ebbe svoltato l’angolo della via che conduceva in centro cominciò a chiamarlo.
Dopo alcuni minuti Angelo si affacciò al terrazzo, sorridendole felice. “Vieni giù!”, gli gridò Maria. “Non posso.”, rispose imbarazzato il ragazzo. “Allora vengo su io!”, disse la bambina con voce sicura e senza aspettare risposta scavalcò la rete della recinzione.
“Guarda te, se devo fare io il Romeo!”, disse a sé stessa, avanzando verso l’ingresso principale dell’edificio.
Il portone era rimasto aperto. “Bene, bene!”, pensò, dal momento che non avrebbe saputo a quale campanello attaccarsi e, lesta, s’infilò nell’androne. Salì le rampe di scale in velocità, tre scalini alla volta, calcolando che sarebbe dovuta arrivare al terzo piano e in un attimo fu davanti alla porta dell’appartamento-prigione del suo recluso.
Bussò con forza e attese che egli le aprisse.
“Se mia nonna lo viene a sapere siamo nei guai tutti e due!”, le disse sottovoce il ragazzo aprendo l’uscio e facendola entrare in casa.
“Se tua nonna ci scopre potrà dirmi di persona perché non vuole che ci frequentiamo.”, rispose lei di rimando.
Ora però non era di quello che avrebbero dovuto parlare, Maria voleva conoscere il suo indirizzo canadese e dargli il proprio, così si sarebbero scritti delle belle e lunghe lettere, quando lui fosse tornato al suo Paese. Avrebbero potuto mandarsi anche qualche fotografia ogni tanto, per riuscire a riconoscersi se mai lui fosse tornato un giorno.
“Resteremo per sempre amici, vero? Anche quando sarai in Canada?”, gli chiese con voce rotta dall’emozione.
“Per sempre, puoi contarci!”, rispose il ragazzo stringendole forte le mani fra le sue come a suggellare un patto di sangue.
“Te l’avevo detto l’altro giorno che sarei dovuto andare al mare per un po’ di giorni; beh, partiamo domani mattina presto. Quando torno però voglio rivederti e salutarti come si deve.”
Maria lo guardò intristita: “Mi farai sapere quando arriverai a Motta?”; “Lasciami il tuo numero di telefono,”, aggiunse lui, “ troverò il modo di avvisarti.”
Il rumore dell’ascensore che risaliva dal pian terreno li sorprese e interruppe l’incanto di quel momento: “E’ meglio che io vada, non voglio che tu abbia problemi con tua nonna; in fondo che m’importa di esserle simpatica o antipatica? Sei tu quello che mi piace...”
Il ragazzo le sorrise pieno di gratitudine, Maria si avvicinò al suo viso e gli sfiorò la guancia con un bacio lieve, poi sgattaiolò velocemente giù per le scale, cercando di fare meno rumore possibile, per non insospettire la vecchia.
casiestremi@yahoo.it
Di Maria Prosdocimo


 
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