n.80 VII anno, 1 novembre 2010
L’Europa s’è rotta, e abbiamo anche perso lo scontrino

Di Alberto Leoncini
Nuovo sodalizio tra Eugenio Benetazzo e David Parenzo, ideale prosecuzione di “Banca rotta”, “L’Europa s’è rotta” -con un intervento di Massimo Fini- (“Sperling&Kupfer”; € 12,00; pp.110; www.sperling.it www.eugeniobenetazzo.com) è un libro-intervista adatto, e anzi pensato, per un lettore curioso ma non necessariamente esperto in materia economico-finanziaria. Bisogna preliminarmente sottolineare che tale opera è sicuramente più strutturata e matura della precedente, pertanto l’analisi che mi accingo a fare in queste poche righe si scontra con la moltitudine di argomenti che sono contenuti nel testo.
Il titolo, tutto un programma, mette già a nudo il problema più scottante con cui ci si trova ad avere a che fare: la crisi di un modello federalista europeo sbilanciato in modo indicibile verso il mercatismo e il liberismo più sfrenato che cestina nei fatti la tradizione solidale e umanistica sviluppatasi in Europa, pur con tutti i suoi limiti e contraddizioni portando il vecchio continente all’avanguardia per i sistemi di protezione sociale complessivamente intesi. Dopo aver messo in discussione questo patrimonio di civiltà coprendolo con la foglia di fico dello “Stato regolatore”, si è ora giunti al capolinea. Il meccanismo s’è rotto, appunto, ma ostinatamente si continua a perseguire mediante le ricette liberoscambistiche che ci hanno portato al presente stato di cose; nemmeno ci si pone il problema di rimodularne l’onnivora penetrazione. E in questo senso risultano utili testi come questo.
L’analisi di Benetazzo, sicuramente controcorrente e provocatoria, merita un encomio perché ha il coraggio di mettere in discussione i totem cari alla nostra classe politica e ai relativi burattinai, ma va anche analizzata nei suoi dettagli con senso critico e attitudine dialettica, proprio per non essere vittime dell’uniformità di vedute: in ultima istanza la causa di tale sfacelo economico.
Ci troviamo di fronte ad una macroarea sotto il tallone tedesco, attenta a spingere sulla deindustrializzazione per puntare a una del tutto aleatoria “economia della conoscenza” e sostenere le strategie mercatiste del WTO (ultimo in ordine di tempo il maxi accordo di libero scambio con la Corea del Sud siglato a settembre 2010), ma specialmente tutta intenta a perseguire un modello di sviluppo basato sulla crescita illimitata e continua. Bruciando quantitativi immensi di materie prime e risorse energetiche, a tutto vantaggio delle classi più abbienti. Basti pensare che il cosiddetto “indice di Gini”, indice statistico che registra il livello di disparità sociale in un paese sotto il profilo della distribuzione del reddito, segnala una sempre maggiore divaricazione in ogni paese d’Europa. Certo, con ritmi e proporzioni diverse (dipende anche dalla consistenza della “torta”…!), ma tale trend non può che preoccupare. A maggior ragione quando si sentono discorsi come “ci sarà una generazione che salterà il turno”, fatti da una classe politica corrotta e servile, capace solo di imporre sacrifici alle fasce subalterne della popolazione senza minimamente scalfire i titolari dei grandi patrimoni, che poi sono l’elettorato di riferimento.
E in questo senso mi sento di biasimare il libro quando cede a luoghi comuni come i “privilegi” dei pensionati greci o della popolazione in genere, quando chiunque sa benissimo che le vere fonti del dissesto sono altrove. Quanti scontrini di caffè bisogna battere per riequilibrare un’operazione off-shore di una banca d’affari? Sarà demagogia, ma mi aspetto una risposta. Tanto più che gli autori ricordano le precarie condizioni della finanza aggregata di paesi quali Irlanda, Spagna, Portogallo e Italia, accennando alla stessa Gran Bretagna ma mai scalfiscono il Belgio (non riportano, ad esempio, i dati nella tabella a p.19), che si trova in una condizione economica spaventosa, sull’orlo di un baratro (il debito pubblico segue subito quello italiano), eppure nessuno ne parla perché probabilmente quella nazione è il giardino di casa di Francia e Germania, ma specialmente perché potrebbe essere il detonatore che fa esplodere le tensioni secessioniste che potrebbero innescare una reazione a catena in tutta Europa: dall’Italia alla Spagna (Paesi Baschi e Catalogna), alla Gran Bretagna (Scozia), proseguendo verso l’Est Europa e i Balcani. Non è fantapolitica, ma la realistica lettura della crisi di un continente che abiurato la dimensione sociale. Non solo, proprio a Bruxelles hanno sede gran parte degli uffici dell’eurocrazia, quindi, nonostante tutto, quel paese continuerà a essere sommerso da una colata di fondi provenienti da tutta Europa. Sempre perché siamo tutti uguali, ma qualcuno più uguale degli altri.
Ancora sul caso Grecia: com’è noto la Cina si sta interessando all’acquisizione di un cospicuo quantitativo di titoli di Stato ellenici. I media ci hanno raccontato che lo fa perché ha “fiutato” un buon investimento, perché è una buona “piattaforma” per entrare nell’Europa finanziaria: sono, a mio avviso verità di comodo perché la reale posta in gioco è il mantenimento di un elevato rapporto Euro/Yuan che permetta alle merci cinesi di essere competitive nel mercato europeo grazie alla tariffa doganale unica. Difatti, come giustamente Benetazzo enuclea nel testo, è del tutto plausibile in futuro che si assisterà ad uno spin-off nell’Euro: i Paesi con finanze pubbliche virtuose potrebbero scorporarsi da quelli con finanze pubbliche precarie, anche perché, a buon senso, non appare sostenibile in un’ottica di medio-lungo termine una divisa al cui interno vi siano differenziali di spread sul rendimento di titoli di stato che raggiungono i 355 punti base (record, ad oggi, toccato ai titoli di stato irlandesi rispetto al Bund tedesco).Purtroppo pochi osservatori oltre a Benetazzo rilanciano questo tipo di prospettive e le relative conseguenze.
Proseguendo, non si può poi dire che devastare il Vietnam, delocalizzando dalla Cina perché troppo “costosa” sia “buona sorte” (p.89). Dietro ai processi di globalizzazione e decentramento produttivo stanno immani tragedie umane e ambientali, figlie dello sfruttamento e della barbarie tipiche della nostra epoca. Che poi alcuni paesi stiano diventando protagonisti dell’economia mondiale, non può essere acriticamente accettato come una “vittoria” del turbocapitalismo, ma come l’ennesima forma di rapina ai danni delle risorse umane e biologiche da parte dei grandi oligopoli economici che non hanno nazione, identità e dimensione assiologico-valoriale specie perché i vantaggi saranno colti da una cerchia ridottissima di persone, i cosiddetti “neoricchi”.
La critica, insomma, va espressa in modo forte e chiaro, senza circonlocuzioni, perché se solo ci fermiamo a pensare quel che potranno dire le future generazioni di noi, credo ci sia da rabbrividire. A onor del vero tale aspetto credo sia ben chiaro a Benetazzo, poiché definisce “moderni servi della gleba” (p.73)- e io pienamente sottoscrivo- i lavoratori interinali, costretti ad un incessante precariato senza prospettive né possibilità di risparmio e programmazione. La prospettiva di impegno, dunque, è ben presente in quest’opera di Benetazzo che argomenta nell’insieme le proposte già espresse nel suo “manifesto politico” che mi sento in buona sostanza di condividere.
Un discorso a parte sarebbe da dedicare all’intervento di Massimo Fini, ma qui mi asterrò per ragioni di spazio, tuttavia, in conclusione di queste poche battute, è sicuramente confortante per me poter riscontrare che anch’egli è profondamente critico nei confronti della nozione di “economia reale”, sciocca e insussistente nozione con cui le nostre pagine economiche e palinsesti televisivi sono-ahinoi- cospicuamente conditi.
Di Alberto Leoncini


 
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