n.80 VII anno, 1 novembre 2010
XXVIII capitolo: Panta Rei

Di Maria Prosdocimo
Come tutti gli anni, la scuola ricominciò il primo ottobre, sotto buoni auspici; il maestro da subito preavvisò la classe che quello sarebbe stato un anno molto impegnativo, di gran lavoro, in vista dell’appuntamento con gli esami di licenza elementare, ma rassicurò gli alunni che ci sarebbero stati tanti bei momenti di svago e di istruttivo divertimento, incluse le gite scolastiche.
Maria e Costanza rividero Emma finalmente; la ragazzina parve loro più taciturna di sempre, spenta.
Non le chiesero nulla, intuendo che fosse la cosa giusta da fare, ma cercando di coinvolgerla in tutto ciò che combinavano, con la speranza che potesse distrarsi dalle sue preoccupazioni almeno nella pausa scolastica. I maschi erano sempre gli stessi, scalmanati ed irrequieti; era trascorsa una sola estate eppure le due amiche avvertirono che molte cose erano cambiate in quel breve lasso di tempo.
Lo scarto fra loro e i compagni aveva assunto proporzioni decisamente considerevoli, sentivano di essere cresciute e che molte delle cose che prima le accomunavano ai coetanei non avevano più la stessa importanza. Il maestro notò ben presto il cambiamento. Incuriosito dagli atteggiamenti complici delle due alunne, dal loro fare segreto e circospetto in certi momenti, volle indagare, con discrezione, per capire cosa stesse bollendo in pentola.
Maria viveva nel timore che la madre si ricordasse di complimentarsi con lui per l’idea della ricerca sul fiume e incrociava le dita perché ciò non accadesse.
Progressi nell’accertamento dell'identità delle ossa misteriose non ce n’erano effettivamente stati e le ultime novità di quello scorcio di vacanza, oltre a quelle portate dall’anno scolastico appena iniziato, cominciavano già a scalzare parzialmente l’interesse di Costanza per l’esito dell’indagine. “Lasciamole là dove sono.”, propose quest’ultima una mattina alle amiche, durante la ricreazione. Emma non disse nulla, da tempo ormai s’era tenuta ai margini della vicenda. Maria restò in silenzio, l’idea di Costanza avrebbe potuto risolvere più di un problema, sebbene la questione, ad insaputa di quest’ultima e di Emma, in realtà rimanesse aperta, visto che le ossa si trovavano nella cisterna di casa sua e non nella cantina di Tarzan. Costanza in futuro avrebbe potuto rispolverare l’idea di tornare a prenderle per mostrarle a qualcuno, interessandolo alla loro scoperta.
Non si poteva mai sapere. Non trovandole si sarebbe fatta delle domande o, peggio ancora, le avrebbe potute fare allo stesso Tarzan, il quale ovviamente sarebbe caduto dalle nuvole, non sapendo nulla di tutta la storia. Ci sarebbe voluto poco alla sveglia ragazzina per ricomporre il puzzle e scoprire che Maria aveva agito per proprio conto sin dall’inizio; da lì a domandarsene le ragioni e poi chiedere spiegazioni direttamente all’amica il passo sarebbe stato breve, la conosceva bene ormai.
Maria sentiva ogni giorno di più mancarle la terra sotto ai piedi, il suo teorema di ingenue menzogne sarebbe potuto venire alla luce in qualsiasi momento.
“Forse, invece, sarebbe meglio portarle via da lì e liberarcene. Cosa ne pensate?”, disse cercando il consenso della amiche, “Potremmo ributtarle nel Livenza, in fondo è stato la loro tomba fino a quando non le abbiamo trovate noi.”
Le amiche si mostrarono convinte, quella era la cosa più giusta da fare al punto in cui erano giunte; la piccola riunione segreta non sfuggì però al maestro che teneva d’occhio il terzetto già da qualche giorno. L’uomo aveva osservato da una certa distanza il parlottio delle bambine, riuscendo a captare solo poche parole, sufficienti a rivelargli la loro intenzione di andare in bicicletta fuori paese, di lì a due giorni. Decise in cuor suo di seguirle per verificare che non stessero tramando qualcosa di strano, all’insaputa di tutti. Non ritenne di dover avvisare subito i loro genitori perché si augurava che la sua preoccupazione fosse infondata, ma volle agire comunque e si preparò al pedinamento.
Scelse di seguirle in bicicletta, a debita distanza, ovunque si fossero recate, per non allarmarle con il rumore del motore acceso della macchina. Il pomeriggio di due giorni dopo le bambine raggiunsero il casale di Tarzan e vi si trattennero per più di un’ora.
Il contadino le accolse con la consueta cortesia, offrendo loro una bibita fresca e scambiando con le gradite ospiti qualche chiacchiera. Con una scusa, Maria riuscì ad allontanarsi per alcuni minuti, penetrando nella cantina e recuperando il fagotto di cenci da sotto il tino, sistemandolo poi nel portapacchi della sua bicicletta lasciata tatticamente sul retro della casa.
Le ragazzine si congedarono poi dal contadino e dalla vecchia zia di questo, rimessasi completamente dalla febbre dell’ultima volta e allegramente smemorata come di consueto.
Salite sulle rispettive biciclette avevano ripreso la via del ritorno verso il paese, fermandosi per un momento in un punto seminascosto della riva del fiume, appena prima di raggiungere l’abitato, per gettare nell’acqua l’involucro di stracci.
Il maestro aveva osservato ogni loro movimento, riuscendo a non farsi scorgere, sempre più allarmato e preoccupato.
Tornato a casa, quella sera, l’uomo fu tormentato da mille pensieri e congetture.
La cattiva fama di Tarzan gli era ben nota; di lui dicevano che fosse violento e irascibile e che non avesse mai avuto normali relazioni con nessuno fra i compaesani. Troppo strana gli sembrò pertanto la circostanza della visita delle sue alunne al misantropo.
Un dubbio atroce lo colse d’improvviso; e se stesse in qualche maniera abusando delle piccole? Allettandole magari con dei doni o con altro? Quel pacchetto che aveva visto scagliare in acqua da Maria, cosa poteva aver contenuto?
Era necessario fare qualcosa, trovare il modo di scoprire cosa stesse realmente accadendo e cosa stessero nascondendo le tre ragazzine. Avrebbe cercato di parlare con loro, con Maria per prima, questo era fuori discussione. Sentiva che con lei sarebbe riuscito a stabilire più facilmente un canale di comunicazione ed ottenerne la fiducia.
Quella notte l’uomo non riuscì a prendere sonno, si girò e rigirò nel letto, in preda all’angoscia, visitato insistentemente dai pensieri più turpi. La mattina successiva si alzò da letto sentendosi ridotto in uno stato pietoso. Grandi occhiaie scure facevano maggiormente risaltare il suo sguardo inquieto e le rughe del volto apparivano più profonde.
“Stai poco bene?”, gli chiese una collega imbattendosi in lui come al solito nel parcheggio della scuola.
L’uomo rispose che andava tutto bene e che forse la ripresa delle lezioni, dopo la lunga pausa estiva, era stata un po’ più destabilizzante del solito. Sorrise e tirò dritto, non desiderando fermarsi a fare conversazione. In classe solo qualcuno fra gli alunni si accorse della sua apparente stanchezza, ma egli si affrettò a cominciare la lezione per non offrire occasioni ad eventuali divagazioni rispetto al programma scolastico per la giornata.
Maria rimase colpita dall’inconsueto comportamento del maestro; sentiva che nascondeva qualcosa, ma non osò chiedergli nulla, aspettando di vedere gli sviluppi di quella strana mattinata.
Le parve che l’uomo la spiasse di tanto in tanto, quando lei non guardava nella sua direzione, sentiva gli occhi di lui su di sé e le sembrò, ad un certo punto, di cogliere uno sguardo analogo rivolto a Costanza ed Emma. La bambina cominciò ad inquietarsi; forse il maestro aveva saputo qualcosa del bibliotecario, era per questo che la stava fissando in quel modo. Costanza non poteva aver parlato, questo era certo; e allora chi poteva averlo fatto? No, era una cosa impossibile! A sapere di quella brutta cosa erano solo lei e l’amica e certamente il molestatore non poteva essersi vantato con qualcuno delle proprie sconcezze.
Il maestro poteva essere venuto a sapere della sua frequentazione con la Vally; anche questo poteva averlo preoccupato, certo, ma allora sarebbe bastato dirgli qualcosa per tranquillizzarlo.
Maria non riuscì tuttavia a spiegarsi la strana sensazione che stava avvertendo, perché si sentisse così a disagio di fronte allo sguardo indagatore dell’uomo.
La campanella di fine mattinata suonò puntuale alle dodici e quaranta e la scuola si svuotò in pochi minuti, ripiombando nel silenzio più completo, interrotto solo dal rumore di qualche banco spostato dai bidelli durante la quotidiana pulizia delle aule.
All’uscita dal cancello principale, il maestro richiamò l’alunna prima che quest’ultima fuggisse via velocemente, mescolata insieme all’orda scalmanata dei compagni.
“Mi sei sembrata un po’ taciturna oggi; non è che per caso vorresti dirmi qualcosa?”, le chiese guardandola dritto negli occhi.
Emma! Certo! Il maestro doveva aver già parlato con sua madre della questione delle botte inflitte all’amica dal padre violento e forse voleva sapere qualcosa di più preciso da lei, adesso.
E se non fosse stato così? Non poteva rischiare di parlargli della cosa senza sapere se già lui ne fosse stato messo al corrente da qualcuno; era un rischio che non poteva correre, aveva giurato all’amica che non avrebbe fatto niente che la potesse danneggiare ancor di più.
“No, maestro, non ho niente da dirti...adesso devo proprio andare, a casa mi staranno già aspettando per il pranzo.”
L’uomo non insistette, avrebbe trovato la maniera per conquistare la fiducia della piccola, queste cose andavano fatte con la massima cautela, il rischio che la bambina si chiudesse in un ostinato silenzio lo conosceva bene, ne era stato già altre volte testimone impotente.
Sulle altre due non poteva contare, ne era convinto; con Costanza non era mai riuscito a stabilire un vero contatto e la piccola Emma era così timida e fragile da entrare in agitazione anche solo all’idea di essere sottoposta al più piccolo esame.
Le sue eventuali risposte sarebbero state troppo emotive e forse per questo poco chiarificatrici.
Restava Maria, bisognava lavorare sulla piccina per trovare il bandolo di quella matassa tanto più ingarbugliata in quanto costituita da filamenti ancora ignoti.
Se volete scrivere all'autrice: casiestremi@yahoo.it
Di Maria Prosdocimo


 
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