n.79 VII anno, 1 ottobre 2010
XXVII capitolo: Panta Rei

Di Maria Prosdocimo
L’annuale sagra paesana di fine estate durava sempre diversi giorni e costituiva una parentesi particolarmente piacevole per gli abitanti di Motta, richiamando un gran numero di persone da tutto il circondario, ma anche dalle località più lontane.
Il vino scorreva a fiumi in quelle serate spensierate, distribuito a ciclo continuo all’orda allegra di gente che prendeva d’assalto i piccoli chioschi allestiti in più punti della piazza principale del paese.
Enormi forme di formaggio troneggiavano sulle tavole imbandite con ogni ben di Dio, insieme a profumati salumi e generose fette di pane o polenta. L’orchestrina assoldata per le serate danzanti allietava i festaioli con valzer e mazurche e l’occasione era buona per i fedelissimi del liscio, di tutte le età, che sfoggiavano la loro bravura.
L’acme dell’eccitazione era raggiunto dai più virtuosi ed appassionati sulle note malinconiche e sensuali di “Libertango” dell’argentino Piazzolla, esecuzione immancabile nel repertorio di quelle serate. Persino gli uomini più buffi e ordinari e le loro compagne che gli eccentrici abiti rendevano simili a goffi e coloratissimi paralumi, sostenuti da polpacci torniti, diventavano improvvisamente leggeri come l’aria ed elegantissimi nei duetti sensuali ed eccitanti della musica argentina.
Era quello il momento di gloria per tanta gente comune, la consacrazione di innumerevoli fatiche spese in prove e allenamenti estenuanti, a lezioni collettive di ballo o nell’intimità della propria casa, con la musica di Gardel e D’Arienzo, e di chissà quanti altri, mandata a tutto volume sul giradischi.
Non mancavano mai, generalmente intorno a metà serata, le esecuzioni di qualche Twist o Rock ’nd Roll, più adatti al pubblico giovanile che si riversava nella pista da ballo dando vita a vere e proprie kermesse di generale esaltazione.
Maria amava osservare quella vibrante ed effimera concentrazione di gesti e sguardi, audacia maschile e finta ritrosia femminile.
La musica da ballo l’attraeva fortemente, ma non riusciva mai a superare la paura del pubblico, perciò se ne rimaneva sul limitare della pista, a guardare gli altri, compiaciuta delle prodezze degli uni e divertita dalla goffaggine degli altri.
Il ritmo di un samba tuttavia la metteva ogni volta, davvero, a dura prova, più di qualsiasi altro brano.
Da ferma, ben mimetizzata tra le persone che non partecipavano alle danze, cominciava ad ancheggiare sulle note, non riuscendo a resistere alla malia della musica brasiliana che sentiva nel sangue.
Qualche anno più tardi avrebbe abbandonato l’infantile pudore, dando prova delle proprie capacità e suscitando più che una semplice ammirazione, ma allora non l’immaginava nemmeno.
Lungo il ramo morto del fiume che, nell’alveo originario, attraversava per un tratto il centro cittadino, venivano allestiti dei banchetti sopra i quali pendevano dei fili elettrici, tesi fra un tiglio e l’altro, a cui erano assicurate tante luminose lampadine.
Un tino enorme, nel quale l’acqua fresca veniva condotta mediante una gomma allacciata ad un rubinetto costantemente aperto, conteneva grossi cocomeri maturi, pronti per essere fatti a fette e serviti ai passanti che ne consumavano la squisita polpa zuccherina seduti ad un tavolo o passeggiando.
Un clima di festa regnava per tutta la serata, fino a notte fonda, e le persone erano più disponibili del solito alla conversazione e al divertimento estemporaneo, condividendo volentieri quelle ore allegre persino con degli sconosciuti, occasionalmente incontrati, che magari non avrebbero mai più rivisto.
Alla varia umanità che si riversava in paese per l’occasione appartenevano personaggi più o meno singolari ed eccentrici, alcuni dei quali generavano divertimento o scompiglio, a seconda della quantità di alcol che circolava loro in corpo e dell’effetto che esso aveva sul loro autocontrollo.
Non mancava mai il contadino introverso, che rimaneva sepolto per il resto dell’anno in remote zone di campagna senza mai mettere piede in paese e arrivava alla festa con il vestito buono, collo della camicia inamidato e rigido al punto da costringerlo a tenere il mento continuamente ed innaturalmente sollevato; cravatta generalmente di un rosso acceso e un’odorosa scia di stallatico che teneva tutti a distanza di sicurezza.
C’era immancabilmente il politico locale che insieme al codazzo di lacchè, in servizio permanente, “faceva la vasca”, compiendo passeggiate studiate e strategiche attraverso la piazza per esibire la propria presenza ed elargire sorrisi e bonomia all’elettorato ossequioso e riverente.
La madre di famiglia arrivava sempre abbastanza presto, gioviale e assediata da irrefrenabili marmocchi che, tirandola per la gonna, reclamavano il gelato o il fuso vaporoso di zucchero filato. L’ubriacone di solito faceva capolino già ben rifornito del suo e s’immalinconiva sulle note di un tango, finendo sempre a ballare da solo, girando scompostamente su sé stesso, spintonando le coppie danzanti e rimediando insulti o qualche reazione più energica di giovanotti baldanzosi e pronti alla rissa.
La piazza si animava delle urla di schiere di ragazzini scatenati che, lontani dagli occhi dei genitori allettati da ben altri spettacoli, congiuravano fra loro per giocare qualche scherzo a vittime predestinate, con l’ausilio di qualche petardo o di sfortunate cavallette catturate all’uopo sin dal pomeriggio.
Costanza e Maria quell’anno ottennero di andare alla sagra non in compagnia dei genitori ma scortate dal fratello di quest’ultima, offertosi spontaneamente per il ruolo di garante della loro sicurezza e difensore dell’onore delle due dame; le famiglie avevano acconsentito, trovando degna di elogio la disponibilità del ragazzo.
In fondo entrambe le ragazzine non avevano dieci anni ancora e quell’uscita serale rappresentava un’eccezione da valutare attentamente, una concessione da accordare solo dopo tutta una serie di opportune raccomandazioni, impartite al momento di uscire da casa.
Tanto a loro due, quanto al servizievole cavaliere.
L’ingenua strategia di avvicinamento alla preda, messa in atto dal ragazzo per strappare un giro di valzer a Costanza, partì dall’insolita richiesta alla sorella di fare un ballo insieme a lui.
“Ma sei diventato matto?”, gli rispose Maria che non aveva compreso le vere ragioni dell’inconsueta offerta; “Credevo che volessi ballare...ti stavi muovendo tutta.”, rispose lui stizzito, mal celando la mortificazione per quell’energico rifiuto.
Costanza, che aveva invece intercettato le mire del ragazzo e non ne disdegnava il corteggiamento, s’intromise fra i due e si offerse di prendere il posto dell’amica.
“Io so ballare bene il valzer, l’ho imparato durante le vacanze.”, gli sussurrò, guardandolo con complice dolcezza, “Fa lo stesso se questo giro lo fai con me, invece che con la tua sorellina?”
Maria finalmente comprese e si sentì improvvisamente mortificata per la propria rozza insensibilità.
Incuranti dell’assembramento e della confusione, i due giovanissimi ballerini condussero una danza quasi impeccabile, portati dalla musica e dall’emozione, sentendosi i padroni della pista da ballo.
Danzarono, uno dopo l’altro, molti altri brani eseguiti dall’orchestra, lasciando sola Maria, ai bordi della pista, e dimenticandosi di lei. La ragazzina non se n’ebbe a male, guardare le piaceva e guardare loro due le piacque ancor di più.
Com’era strano quel fratello! Da tempo ormai erano venute meno fra loro la confidenza e le complicità che li avevano legati fino a qualche anno prima, quando lui non era ancora diventato suo antagonista, alleandosi con i cugini.
Lo vedeva ora sotto una luce diversa, provando tenerezza e persino simpatia.
Decise di non restare a reggere il moccolo e di andare a fare un giro per la fiera, tanto quei due non si sarebbero nemmeno accorti della sua assenza.
Aveva quasi raggiunto il banchetto del venditore di angurie quando sentì pronunciare il suo nome: “Ehilà! Maria! Dove vatu tuta da soêa?” Era Vally.
Fasciata da uno dei suoi vestitini provocanti, ai piedi un paio di sandali dorati con tacchi vertiginosi, avanzava sculettando graziosamente e reggendo fra le dita una sigaretta accesa sul cui filtro era ben evidente l’impronta del rossetto carminio.
Bellissima, per niente volgare, nonostante i colori sgargianti dell’abito e l’acceso rame della chioma, Vally avanzava sorridendo verso la bambina che, colta dall’imbarazzo, si guardò istintivamente intorno per controllare se qualcuno stesse osservando la scena.
“No state preocupár, picinina, nissún te giudicarà mal se te fa do paroe co mi! In fondo un saêudo no se ghe 'o nega gnanca a 'na putana, giusto?”, disse la donna, senza mostrarsi offesa.
“Mi scusi signora, non è per questo, non volevo essere scortese, guardavo solo per vedere dov’è mio fratello, sono venuta con lui, l’ho perso di vista e magari mi sta cercando...”, rispose piena di vergogna Maria. “El te trovarà lu, sta tranquía, el te trovarà lu. Dès' l'a altri pensieri par la testa, te ó assicure mi”, disse sorridendo la donna che confessò alla ragazzina di sapere bene chi fosse suo fratello e cosa stesse facendo in quel momento.
“Come fa a conoscerlo?”, chiese Maria stupita.
Si sedettero ad un tavolo e presero due fette di cocomero; la donna le raccontò che il ragazzino aveva bazzicato per un po’ il fiume nei pressi di casa sua, fino a qualche anno prima, per guardare Ernesto mentre pescava e fra i due era nata un’intesa profonda, fatta di lunghi silenzi, carichi di significati e di ammaestramenti sull’arte della pesca. Maria si rese conto che il fratello le era più sconosciuto di quanto lei stessa credesse.
“Varda che Ernesto mio nol ghe déa mia confidensa a tuti, sa!”, aggiunse Vally, “A lu ghe piasea soêo la 'sènt sincera, de cuor, i falsi li féa corer, altroché!”
Una volta, seppe ancora dal racconto della donna, l’uomo s’era sentito male in riva al fiume; il troppo vino, un colpo di calore forse, sta di fatto che s’era accasciato a terra e così lo aveva trovato il fratello di Maria, sopraggiunto per una delle sue consuete visite. Non c’era nessuno in casa e chiamare aiuto non sarebbe servito a niente, perciò lo aveva trascinato da solo fino alla casupola, riuscendo a portarlo di peso fin sul letto, dove lo aveva poi rinfrescato con delle pezze imbevute di acqua fredda.
Ernesto non lo aveva mai dimenticato e, talvolta, preparava con le sue mani, per il piccolo amico, qualche delicato temolo o gustosissimi granchi di fiume. Era il solo modo che conosceva per esprimere gratitudine.
L’unica cosa che Vally gli aveva impedito puntualmente di fare era condividere con il ragazzino anche il vino e aveva sempre dovuto stare attenta che non gliene versasse.
“Perciò to fradèl lo conosse ben e lu el me conosse mi. No sta a preocuparte, no ghe inporta del giudissio dêa 'sènt a lu! Te vedarà che col me vede el sarà contento.”
“Neanche a me importa.”, protestò Maria, desiderando ricambiare la simpatia della donna.
Mangiarono il cocomero, l’adulta addentando la rossa polpa, chinata sulla sua fetta, con evidente godimento e velocemente, la bambina tagliandone un pezzettino alla volta e portandolo alla bocca lentamente e masticando piano.
Non avrebbe potuto mai invitare a pranzo nemmeno la Vally, pensò Maria osservando la voracità della donna. Sorrise al pensiero che Marta restava ancora e sempre la sola alla cui presenza non si sarebbe mai sentita in imbarazzo durante un pranzo, e tuttavia provò per quella donna un sentimento di autentica simpatia. Nella sua spontaneità ed immediatezza le parve di riconoscere qualcosa che apparteneva anche a lei, che le era propria: l’allegra irriverenza verso chiunque pretenda di essere considerato per quanto possiede, titoli o beni, piuttosto che per ciò che è nell’intimo.
In Ernesto il fratello aveva forse trovato le stesse cose; come il pescatore solitario anche il ragazzo era innamorato del fiume, ne amava visceralmente la natura ancora selvaggia che animava le rive, lontano dal chiasso e dai ritmi della vita del paese.
Benché a pochi passi dall’abitato, quell’oasi naturale costituiva realmente un mondo a sé, dove gli spazi offrivano suggestioni nuove ed il tempo era scandito solo dal fluire perpetuo dell’acqua.
Fra gli arbusti spontanei che crescevano lungo la riva nidificavano uccelli delle specie più comuni, ma talvolta era possibile avvistare anche qualche rapace diurno come il gheppio o la solitaria poiana appostata sui rami più alti della vegetazione spontanea delle rive o in volteggio alto a disegnare nell’aria il tipico volo a festoni. L’airone bianco e qualche esemplare di cinerino frequentavano abitualmente le sponde del corso d’acqua, rovistando nel fango col lungo becco.
Molto raramente qualche pavoncella, che aveva compiuto una piccola deviazione dalla consueta rotta, si spingeva fin lì e allora era possibile udirne l’inconfondibile lamento, più difficile era avvistarne il ciuffo.
Il gracidare delle rane era poesia nelle tiepide sere estive e accompagnava le effusioni delle coppiette appartate poco lontano dalla casupola dove Vally intratteneva il cliente di turno, al quale offriva le sensazioni fugaci, ma autentiche di un gioco amoroso istintivo e senza pretese, privo d’ipocrisia.
“Cossa situ drío pensar?”, le chiese Vally, vedendola assorta e distratta; “Stavo immaginando come poteva essere questo posto prima che gli uomini lo trasformassero con le loro costruzioni.”, rispose Maria sospirando, “Dev’essere stato magnifico!”, aggiunse emettendo un secondo e prolungato respiro.
“Lo crede anca mi.”, disse la donna entrata subito in sintonia con la visione della piccina, “Soltanto piante e animai, gnént rumori e fastidi. Gnént òmeni in giro, mas'ci intende. Un paradiso!”, aggiunse poi ammiccando con un mezzo sorriso e indicandole un gruppetto di individui che guardava verso di loro insistentemente.
Maria diede una sbirciatina di sottecchi, quindi la scrutò interrogativamente.
“I é drío 'spetár che ghe fasse un ceno, ma par Diana, stasera no lavore! Vòi gustarme 'sta bona anguria e la to bèa compagnía. Che i vade al divoêo, che i se serche 'naltra!”
Trascorsero una mezz’oretta ancora conversando di paesaggi solo immaginati, di colori e profumi mai sentiti, poi la bambina si alzò e la salutò, dicendo che era arrivato il momento per lei di andare a cercare il fratello, di lì a poco sarebbero dovuti rincasare e non le andava di far preoccupare i genitori.
“Va' pur, Maria, se to fradèl l'é stat bravo te ghe vedarà un bèl soriso èbete su 'a facia. Daghe un baso da parte mia!”
Costanza ed il ragazzo erano seduti su una delle balle di fieno che delimitavano la pista da ballo, la ragazzina succhiava con discrezione dello zucchero filato avvolto intorno ad un lungo bastoncino: “Hai visto com’è stato gentile?”, disse a Maria vedendola arrivare, “Me l’ha comprato lui.”
Maria osservò il fratello, in effetti la bocca del ragazzo sembrava essere rimasta paralizzata in un sorriso enorme, a ventotto denti; la Vally aveva ragione, lei li conosceva bene i maschi. Chissà quanti di quei sorrisi aveva già visto in vita sua!
“Si è fatto tardi, è meglio tornare a casa.”, annunciò Maria, ricordando agli altri due l’impegno preso con le rispettive famiglie, “Magari possiamo uscire qualche altra volta insieme...”, si affrettò a proporre il ragazzo, guardando Costanza con una supplica disegnata in volto, “Per me va bene, se va bene anche a te”, rispose quest’ultima rivolgendosi a Maria che sorrise annuendo.
Accompagnata l’amica, i due fratelli fecero la strada verso casa in silenzio, timorosi entrambi, per ragioni ben diverse, di iniziare un qualsiasi discorso che potesse toccare l’argomento clou della serata. Nel dargli la buona notte, Maria lo squadrò per bene, voleva imprimersi nella mente l’espressione insulsa del maschietto per ricordarsela, quando fosse capitato anche a lei di essere oggetto di un corteggiamento così appassionato.
“Bada che però non ho alcuna intenzione di farvi da paravento! Fate quel che volete, ma io non voglio essere messa in mezzo; ok?”, ribadì al fratello che nemmeno la stava a sentire, perso nelle sue fantasie, “E ricordati che è la mia migliore amica; se la fai star male poi te la vedi con me!”
Si ritirarono entrambi nelle rispettive camerette, il ragazzo mostrando una gran smania di restare da solo, Maria cercando di non fare troppo rumore, pur muovendosi al buio nella stanza, per non svegliare la piccola Marta che dormiva già da un pezzo.
casiestremi@yahoo.it
Di Maria Prosdocimo


 
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