Tre artisti e un contadino: vin che dorme
A cura di Abcveneto
INAUGURAZIONE: SABATO 30 OTTOBRE ORE 15.15
In una cornice insolita tra Italia e Slovenia nelle dolci colline del Collio tra barriques e magnum di Collio e Collio Riserva (vin che dorme) del contadino produttore Edi Keber, sabato
30 ottobre si terrà il vernissage di 3 ARTISTI E UN CONTADINO, opere recenti di pittura, grafica, fotografia ed installazioni degli artisti Maurizio Armellin, Ivan De Menis e Maurizio Frullani, presentazione critica di Fulvio Dell'Agnese.
TITOLO Evento: 3 ARTISTI E UN CONTADINO / VIN CHE DORME
ARTISTI: Maurizio ARMELLIN, Ivan DE MENIS, Maurizio FRULLANI
CONTADINO: Edi KEBER
Introduzione critica di Fulvio Dell'Agnese
Progetto a cura di Maurizio Armellin per Piccolo COLLIO
Catalogo in galleria
SEDE: Cormòns (GO)-loc. Zegla 17
PHONE +39 048161184
E-MAIL:
info@piccolocollio.it -
maurizio.armellin@alice.it
WEB:
www.piccolocollio.it -
www.armellinmaurizio.blogspot.com
PERIODO: 31 Ottobre 2010 / 1 Maggio 2011
ORARIO: tutti i giorni esclusi i festivi dalle ore 9.30 alle ore 12.30
e dalle ore 15.30 alle ore 19.00
Pordenone, 10 ottobre 2010, Fulvio Dell’Agnese: La gallina… non è!... un animale intelligente, recitava una canzone che subito
torna alla memoria a sentir parlare di “Tre artisti e un contadino”.
Allora (erano i bigi anni ’70, destinati ad essere riabilitati dal truce decennio
successivo, maculato di edonisti reaganiani, paninari in Timberland al posto
delle Clark’s e postmoderni vari) trattavasi di “Il poeta e il contadino”, folgorante
trasmissione televisiva costruita sulle facce di gomma di Cochi Ponzoni e Renato
Pozzetto, ma soprattutto radicata sui testi di gente come Enzo Jannacci, Beppe
Viola, Felice Andreasi.
Già in quel contesto la qualifica di contadino era fittizia: l’ingenua ottusità del
personaggio dalle braghe sopra la caviglia e con la sporta di plastica perennemente
allacciata al polso si dimostrava solo apparente; nella realtà il confronto con la
narcisistica supponenza dell’intellettuale rivelava proprio nell’outsider campagnolo
la più significativa lucidità e concretezza di pensiero.
Venendo a noi, è evidente che anche il “contadino” di Zegla non la racconta
giusta, celando sotto una cospicua dose di understatement, ovvero di consapevole
sottovalutazione formale del proprio ruolo, il prestigio di cui da anni è circonfusa
la sua sapiente attività di viticultore. Lo si capisce da come guarda la gente –
avrebbe poi intonato il duo – che, diversamente dall’immagine tradizionale di una
ruralità sana ma un po’ torpida, il nostro vignaiolo pensa eccome: non altrimenti
si spiegherebbero le sue meditate strategie produttive e di valorizzazione del
territorio e la propensione a contaminare i luoghi della propria attività con artistiche
divagazioni.
Così è nel Piccolo Collio di Edi Keber che sono approdate personalità creative
eterodosse come Maurizio Armellin. Le sue creature sono anzitutto i guardiani della cantina, sintesi apotropaica di colore fatto rilievo: due coppie di “bravi”
appostati all’ingresso dell’area sacra a Dioniso, zazzeruti e ringhianti, che filtrano
l’accesso all’alchemica bottega.
Da un lato, essi difendono il locale dove le bottiglie già mature attendono di
prendere la propria strada verso distanti contesti domestici e amicali, nei quali
spandere il proprio effluvio “oracolare”, che profuma e parla dei gusti profondi di
una terra che tante ne ingloba, nello spessore umano della sua storia. Contesti in
cui la bottiglia-bossolo di Collio, con la sua forma vagamente boccioniana, andrà a
inserirsi con la medesima dose di irriverente eleganza presente nelle Nature morte
di Maurizio: oggetti e brani di vita vegetale che – in foto di gruppo o in singolo
ingrandimento – si caricano di un’accentuazione visiva che li potrebbe rendere
drammatici o grotteschi, se non intervenisse a salvarli l’ampia dose di ironia che
pervade il “mondo secondo Armellin”.
Il sorridente rigore di Maurizio, che in nome del paradosso inchioda alla
triangolazione geometrica di una tovaglia forme e spazi instabili, subito destinati
a scivolare liberi nella colata pittorica di una Natura metropolitana, sovrintende
anche all’installazione nel cuore della collina, dove riposano le botti destinate
all’invecchiamento. I tubi luminosi al neon, in quell’antro pulsante di bozzoli di
rovere che covano il liquido amniotico della civiltà mediterranea, non ambiscono
certo a ridefinire i contorni percettivi dello spazio, come le luci collocate in involucri
vuoti di Dan Flavin; si offrono invece alla nostra lettura, serpentina fluorescente di
alambicchi, per rendere conto visivamente del senso di quanto viene amplificato
nel silenzio della cantina: il gorgoglio sommesso del Vin che dorme, e che nel
ribollire del suo sonno sta nascendo.
Se Armellin rende visibile quanto avremmo acusticamente faticato a fare nostro, le
opere di Ivan De Menis introducono a una dimensione più materica del divenire.
Sorprende nei suoi interventi la palpitante commistione dei materiali, dai
quali – a partire dalle resine – Ivan sa trarre tutta la carica espressiva che essi
implicitamente possiedono, proiettandoli ad assumere sembianze imprevedibili.
Sotto le sue mani una semplice sovrapposizione di pigmenti si trasforma in colata
di umori traslucidi o in dilatata, contemplativa stratigrafia; sulla quale ogni azione
sottrattiva determina un’erosione corporea che travalica la categoria del graffito o
del grattage, risolvendosi in effetti di insolita fisicità.
L’opera si offre alla visione frontale secondo una sorta di mappatura centuriata
della propria estensione sul piano: riquadri regolari che si intuiscono appena,
come ad uno stato di magma primigenio, nell’esame dello spessore laterale, che
a sua volta non è mai contorno dell’immagine ma ne fa parte integrante; anzi, per
certi versi è questa la sua componente decisiva, che proietta il nostro sguardo
nel farsi della forma dipinta e ci dà il senso di un’illusiva coesione del rilievo alla
parete. Tant’è che gli interventi di Ivan sembrano riallacciarsi, ancor più che alle
pratiche dell’Informale novecentesco, alle millenarie sperimentazioni che hanno
avuto il loro pittorico teatro sulle superfici murali, in un alternarsi continuo di
spessori traslucidi e porosità granulose, di chimiche carbonatazioni e glassature
ad encausto; e ne mantengono talora la suggestione di un diretto promanare del
testo visivo dall’elemento strutturale, a far palpitare la parete come se ne venisse
evidenziato un fremito sommesso fino ad allora non pienamente percepibile.
Non si tratta dello squarcio violento di cui è capace la natura, come nella
roccia che in fondo alla cantina s’intrude possente nella stanza, ma di piccoli,
umani sommovimenti, che alleggeriscono di pretese d’assolutezza le geometrie
e lasciano trapelare qualche filo di luce sulle inquietudini, sui dubbi associati
all’idea di profondità e alla prospettiva della riemersione. Uno che di profondità
psicologiche se ne intendeva, come Hans Blumenberg, avrebbe affermato che la
metafora visiva creata dall’artista vale a mostrare, con l’istintività del non detto,che “[…] in uno strato sotterraneo del pensiero era da sempre già stata data
risposta a queste domande, una risposta che pur non ricevendo una formulazione
nei sistemi ha tuttavia operato implicitamente con la sua presenza, nella tonalità,
nella coloritura, nella strutturazione”1.
E nella polpa delle nostre fantasie, ben sotto la superficie, affondano anche i
pastosi spessori visivi delle immagini di Maurizio Frullani.
Con le loro ombre così tanniniche – non a caso già al centro di una liaison con
l’aceto di Josko Sirk – esse paiono quasi tener desta la memoria dei rossi di grado
che fermentarono nella cantina di Keber prima del Collio paglierino. La sostanza
dell’immagine si lega d’altronde con naturalezza al contesto in divenire di una
pozione d’uva che lascia udire il sussurro del suo respiro. Perché il clima evocato
da Frullani ha sì la penombra fuligginosa delle fiabe e leggende del Centro Europa,
ma gli rimane abbarbicata una sospesa tensione mediterranea nel sentore di
metamorfosi – apuleiana, misterica, non sublimata nella sonorità del verso come
in Ovidio – che aleggia sull’odore di terra solforosa delle stoffe, che sembra di
sentir crepitare, lontano e attutito, tra le fenditure di epidermidi argillose.
Siamo forse noi, in questo caso, a spiare come il Lucius dell’Asino d’oro le
tenebrose mutazioni della strega, che “[…] dopo un lungo e segreto colloquio
con la lucerna, è scossa per tutto il corpo da un tremito insistente”2?
Lo sguardo del fotografo esplicita in tale occasione altre suggestioni letterarie,
accostando alle figure citazioni dalle liriche di František Halas e dal croato arcaico
delle Ballate di Petrica Kerempuh, di Miroslav Krleža, con il loro sapore di crudo realismo, ribelle al punto di fondarsi liberamente sull’artificio linguistico; e le
opere di Frullani provocano forse al gioco dei rimandi a quei testi proprio perché
consapevoli di possedere i caratteri di entrambi: raffinatezza formale e calcolata
grevità.
Baba Yaga ha abbandonato la casa sospesa su zampe di gallina assegnatale dalla
tradizione fabulistica, ma non ha smarrito la sua torbida ambiguità. Indossa abiti
frusti, che come le sue valigie e i velocipedi su cui viaggia paiono portarsi dietro la
storia di un secolo intero; danza con una sorta di Woyzeck, che un attimo prima o
subito dopo ci si trasforma sotto gli occhi in proboscidato spettatore alla Moebius
di un concerto ad personam.
Tutto pare filtrato attraverso i tempi lunghi di un antico scavo della luce su cloruri
d’argento, anche se è una Rollei bifocale che la crononauta tiene in mano, uscita
dal suo scafandro di pizzi oscuri. Una stampella ne sostiene soffertamente il
giovane corpo, reduce da epoche e battaglie lontane, ma a fare da baricentro è
– al posto della lucerna di Pànfile – la macchina fotografica: l’effettivo strumento
di magia.
A cura di Abcveneto