n.78 VII anno, 1 settembre 2010
XXVI capitolo: Panta Rei

Di Maria Prosdocimo
La pioggia cadeva incessantemente da ore, un’improvvisa perturbazione era giunta a ricordare che i giorni di quella torrida estate stavano per finire.
Maria fu sorpresa nel sonno dal fragore dei tuoni, via via più vicini; l’odore dell’asfalto bagnato ed il latrare dei cani spaventati riempirono il buio della sua stanza.
La bambina si precipitò a chiudere la finestra, recuperando le tende svolazzanti e mezzo fradice che il vento aveva risucchiato all’esterno.
Fuori, nella notte, l’addensarsi di grossi nembi aveva oscurato del tutto le stelle ed il profilo degli alberi e delle case appariva e spariva improvvisamente nel bagliore dei fulmini.
Rimase in piedi davanti alla finestra, col naso appiccicato al vetro, affascinata dal buio tempestoso.
Il mese di agosto era giunto ormai alla conclusione, nei giorni successivi sarebbero tornati tutti: Marta, Costanza ed anche Angelo.
Settembre sarebbe volato via, come ogni anno, velocemente, fra il ripasso dei compiti per le vacanze ed i preparativi per l’inizio del nuovo anno scolastico. La vacanza al mare non l’avrebbe avuta, questa volta, mamma e papà non se la sarebbero potuta permettere. Poco male, si sarebbe rifatta in altre occasioni. E poi quel temporale sicuramente era solo un anticipo di altre precipitazioni, lo aveva sentito dire tante volte dai vecchi del paese: i temporali del dopo ferragosto arrivano ad annunciare l’imminenza dell’autunno, a fare il funerale all’estate.
La telefonata di Angelo non era ancora arrivata e ormai mancavano pochi giorni alla sua partenza per il Canada.
Lui aveva fatto una promessa e l’avrebbe mantenuta, ne era certa, doveva solo avere pazienza e non lasciarsi prendere dalla frenesia.
Il mattino dopo, il giardino di casa era disseminato di foglie caduche e di rami divelti dalle raffiche del vento notturno; nella sua cuccia Cuba, la figlia del setter Silna, se ne stava rintanata e ancora impaurita.
Nemmeno la fame l’aveva convinta a mettere il muso fuori dalla tana; Maria era ormai troppo grande per infilarvisi, come faceva da piccina, e farle compagnia. “Dai, su, vieni fuori, è tutto passato!”, disse incitando l’animale ad uscire dalla cuccia. “Fa’ un po’ come vuoi! Da mangiare lo trovi qui fuori, se hai fame.”, borbottò spazientita. Il trillo del telefono risuonò in quel momento, andò a rispondere la madre come sempre e dopo qualche istante la ragazzina si sentì chiamare a gran voce: “Maria, vieni al telefono, è per te!”
“Pronto?”; dall’altra parte del cavo telefonico la voce di Angelo la sorprese felicemente; “Quando sei arrivato?”, gli chiese emozionata.
Il ragazzo era tornato a Motta la sera precedente, al mare il temporale era arrivato prima che in pianura e la nonna aveva deciso di anticipare di due giorni il rientro.
“Ascolta, Maria, oggi resterò da solo tutto il pomeriggio. La nonna deve andare a trovare un’amica ammalata; posso uscire di nascosto e incontrarti. Ti va?” Lei non aspettava altro da giorni.
L’appuntamento fu fissato per le tre del pomeriggio, nel chiostro interno della basilica dei Miracoli, vicino alle voliere degli uccelli esotici.
Maria andò all’incontro con il cuore leggero ed esultante di chi sente il mondo appartenergli, indossando i suoi pantaloni azzurri a zampa di elefante e un grazioso top coloratissimo fatto all’uncinetto con le sue mani.
“Sei molto bella oggi...” le disse sorridendo il ragazzo, vedendola arrivare; “Grazie!”, rispose lei, arrossendo.
Seduti sul muretto perimetrale del chiostro, rimasero per un po’ in silenzio, senza riuscire a trovare argomenti dopo i convenevoli iniziali.
Alla fine fu il ragazzo a rompere gli indugi: “Questa è l’ultima volta che ci vediamo, parto dopodomani. Volevo salutarti di persona e dirti che...sono felice di averti conosciuta. Sei una ragazza speciale, lo sai vero?”
Maria lo guardò smarrita; sapeva che sarebbe arrivato quel momento, ma ora che lo stava vivendo si sentiva più male di quanto non avesse previsto.
No, non sapeva di essere una ragazza speciale. Lei era per tutti quella stramba della Maria, buona a fare a botte per difendere un amico e capace di battere tutti i compagni di classe a braccio di ferro.
Ricercata dai coetanei maschi per le avventure più rocambolesche, ma guardata con sospetto e sufficienza dalle altre femminucce che non la consideravano una loro pari, a causa della sua selvatichezza.
Marco non l’aveva mai guardata come la stava guardando Angelo, nessuno le aveva mai parlato come lui le stava parlando e il bibliotecario era solo un porco, non faceva testo.
No, non si sentiva una creatura speciale.
“Tornerai?”, gli chiese cercando di non lasciarsi sopraffare dall’emozione; “Credo di sì, spero di sì, e se tu abiterai ancora qui vorrò sicuramente rivederti.”
Giunsero a casa appena in tempo per non incrociare la nonna del ragazzo, di ritorno dalla visita all’amica.
L’ultimo, tenero abbraccio, prima dell’addio definitivo le piegò le ginocchia e il tragitto a piedi verso casa le parve interminabile.
Il saperlo ancora per un giorno in paese e non poterlo vedere né sentire, la tormentò per buona parte della nottata e l’indomani, incurante dell’irragionevolezza di un comportamento azzardato, decise che avrebbe fatto qualcosa perché lui la sentisse vicina, per poterlo rivedere una volta ancora. Aveva da parte qualche spicciolo, appena sufficiente per un gelato o per una pastina; corse al negozio di alimentari e curiosando fra gli scaffali trovò finalmente quel che faceva al caso suo: una confezione di stick salati, i sottili e croccanti bastoncini di pane ricoperti di piccoli grani di sale che sapeva piacere particolarmente al suo Angelo.
Il portone d’ingresso del condominio era aperto: fortunata per la seconda volta, pensò. Salì le scale silenziosamente, arrivando davanti all’ingresso dell’appartamento dell’amico. Rimase qualche istante lì davanti, tendendo l’orecchio per intercettare qualche rumore al di là della porta. La voce della vecchia la raggiunse all’improvviso, facendola indietreggiare istintivamente; la donna stava impartendo al nipote alcune disposizioni per i preparativi della partenza.
Maria sentì di non farcela ad affrontarla. Stringendo nel pugno il modesto regalo, si chinò a terra e lo adagiò sullo zerbino, affidando all’anonimo pacchettino tutte le parole che avrebbe voluto dire all’amico, tutte le emozioni che avrebbe desiderato trasmettergli.
Tremando per l’agitazione, premette il campanello d’entrata e senza aspettare risposta corse giù per le scale a perdifiato.
Lui avrebbe capito, ne era sicura.
Più tardi, nel campetto da calcio dell’oratorio, la bambina rimase per un po’ a guardare in su, verso il terrazzo del suo amore impossibile e finalmente lo vide apparire.
Angelo le sorrise, salutandola con un cenno della mano; teneva nell’altra il pacchetto di stick e lo portò al petto, vicino al cuore.
La sera a cena zia Agnese, trattenutasi con l’intera famiglia dopo aver riaccompagnato a casa Marta, divertì tutti quanti raccontando le prodezze acquatiche della nipotina.
Marta sembrava esausta, ma felice, la sua vacanza era stata divertente e piena di gradite sorprese.
Raccontò alla sorella di aver conosciuto dei bambini tedeschi simpaticissimi, con i quali si era divertita davvero tanto anche senza capire niente di quello che dicevano.
Disse di aver visto anche tanti vecchi mutilati, senza un braccio e addirittura privi di entrambi gli arti superiori; non sembrò essere rimasta particolarmente impressionata dalla cosa, più incuriosita semmai, e la madre le spiegò che si doveva sicuramente trattare di mutilati della seconda guerra mondiale.
I cugini e il fratello maggiore sembravano disinteressati tanto ai racconti della piccolina quanto a ciò che faceva Maria, intenti a passarsi l’un l’altro alcune grosse conchiglie contenute in una scatola di cartone e a guardarle incantati. Le avevano trovate fra gli scogli, ma alcune, le più belle ed esotiche, le avevano comperate da certi ragazzi della località balneare che avevano allestito una sorta di mercatino all’aria aperta.
La “pesca”, così veniva chiamato l’ingenuo commercio allestito dai bambini un po’ ovunque, al mare come in campagna.
La preziosa mercanzia, adagiata su un lenzuolo o su una vecchia tovaglia, era in genere roba usata, giocattoli, cianfrusaglie varie, vecchie copie di giornaletti a fumetti di cui gli improvvisati venditori si disfacevano per racimolare qualche soldo per nuove spesucce.
L’abilità dei piccoli commercianti si misurava sulla quantità di venduto e sulla capacità di fissare il prezzo migliore.
Maria stessa era più volte ricorsa a questo approvvigionamento improvvisato di denaro fresco organizzando dei mercatini insieme ai coetanei del vicinato. In un’occasione in particolare s’era distinta per la sua speciale abilità, riuscendo a rifilare ad una ragazzina del paese una scatolina rosa da gioielliere, piena di minuscoli, ma perfetti frammenti di un bicchiere di cristallo del servizio della madre, spacciandoli per diamanti grezzi dell’Africa.
Ne aveva ricavato ben 500 lire che tuttavia aveva potuto possedere solo per poche ore, dal momento che l’infuriato padre della sprovveduta compratrice s’era presentato a casa sua, trascinando per un braccio la figlia imbelle e reclamando la restituzione dell’intera somma.
In presenza dell’imbarazzata madre, Maria era stata redarguita pesantemente dall’uomo che l’aveva apostrofata con un epiteto eccessivamente pesante rispetto alla portata dell’accaduto, “truffatrice in erba”, e tuttavia lei era rimasta impassibile, aspettando che la foga dell’adulto scemasse un po’.
Alla fine aveva risposto di non aver volontariamente imbrogliato la coetanea, dal momento che lei stessa era convinta che si trattasse di diamanti e non di pezzi di vetro.
La giustificazione le era venuta in mente all’improvviso, un’insperata ancora di salvezza, ricordando un discorso fatto in classe dal maestro su un argomento che non ricordava bene ma che aveva a che fare con l’impossibilità di “fare il processo alle intenzioni”.
Quel concetto le era rimasto talmente impresso che lo piegò alle sue necessità del momento.
Aveva restituito il denaro con elegante distacco e preso congedo da quelle persone ostentando dignità e fierezza.
Rimasta sola con la madre, poi, s’era scusata con lei, avendole letto in volto la delusione e una notevole dose di disapprovazione.
Niente le bruciava come un eventuale giudizio negativo della madre; non le offese del padre, né le prese in giro dei cugini e del fratello e neppure i dispetti delle ragazzine più bisbetiche.
Ai suoi occhi la madre incarnava ogni virtù, tutto ciò che di meglio poteva esserci in una sola persona.
Deluderla era una colpa imperdonabile e Maria non avrebbe mai voluto macchiarsene. Salutati i parenti, dopo cena, le bambine trascorsero ancora una mezz’oretta a chiacchierare nella loro camera; Marta mostrò inorgoglita alla sorella il peluche vinto al luna park una sera che la zia ce l’aveva portata e le raccontò ancora episodi divertenti di quei giorni speciali.
Vinte dalla stanchezza alla fine si addormentarono entrambe, serene.
Quella notte Maria fu visitata da sogni incredibili; rimasta sospesa in aria, al culmine del giro della grande ruota panoramica di un luna park deserto, guardava in giù, spaventata ma irresistibilmente attratta dal vuoto e alla fine scorgeva il suo Angelo che, a faccia in su, la salutava agitando entrambe le braccia. I ruoli s’erano invertiti; finalmente era lei Giulietta, sebbene senza le lunghe trecce e il suo Romeo stava là sotto, ad attenderla.
La scena era poi improvvisamente cambiata; accostato ad un bancone e armato di un fucile rilucente, Angelo mirava a strani bersagli in movimento, figure antropomorfe con il corpo di animale e le facce delle antipatiche ragazzine di Motta. Il ragazzo sparava con estrema precisione, riuscendo a colpire immancabilmente tutte le sagome, vincendo decine e decine di morbidi peluche dai colori sgargianti che ogni volta porgeva a lei.
Ad un certo punto era comparsa la figura di un grosso orso bruno con il volto del bibliotecario ed un ghigno malefico. Angelo lo aveva impallinato ed abbattuto, scaricandogli addosso tutto il caricatore e il premio era stato, questa volta, un ciondolo d’oro al cui centro, incastonato, riluceva un rubino rosso come il sangue, a forma di cuore.
Spariti il luna park e la montagna di peluche, Maria s’era ritrovata a passeggiare insieme all’amico su un prato verdissimo e fiorito; sulla linea dell’orizzonte vedeva tremolare la luce del sole riflessa nello specchio di un lago immenso, circondato da alberi frondosi e altissimi. Erano in Canada e di Motta Maria aveva perduto persino il ricordo; solo la figura di uno strano uomo, in pantaloncini corti e a torso nudo, con una lunga capigliatura biondastra, intento ad infilzare esche all’amo di una canna da pesca le sembrava familiare. Seduta a terra, accanto a lui, una ragazzina dell’apparente età di Maria, con i vestiti bagnati e i capelli grondanti d’acqua, le sorrideva dolcemente, con espressione angelica.
La mattina seguente suonò alla sua porta Costanza; Maria, immersa nella lettura delle vicissitudini della piccola lady Jane e del suo airone blu, non rispose alla madre che le chiedeva di scendere.
Costanza entrò nella sua stanza, trovandola stesa a letto, sopra il libro aperto. “Ma dico, sei dura di orecchi!”, esclamò l’amica ridendo.
“Costanza! Finalmente! Come sono felice di rivederti!”
Maria balzò dal letto e corse ad abbracciarla, come se non vedesse l’amica da secoli.
Rimasero a parlare fino all’ora di pranzo, raccontandosi reciprocamente tutto ciò che era accaduto nei giorni della loro separazione, eccitate e felici.
“Dai, fermati a mangiare con noi!”, disse Maria, che non voleva interrompere l’idillio.
Costanza avvisò la famiglia e si trattenne per il pranzo.
A tavola i familiari di Maria furono molto carini con l’ospite, cercando di intercettare ogni suo desiderio, soprattutto il fratello maggiore, rimasto soggiogato dall’eterea bellezza della bionda fanciulla.
Abituato all’esuberanza e ai modi ruspanti della sorella che egli considerava un maschiaccio, non si capacitava che una creatura così aggraziata e delicata potesse esserle tanto amica.
Costanza se ne accorse e ne fu lusingata; l’interesse che quel ragazzo molto più grande di lei le manifestava la fece sentire una principessa, corteggiata da un aitante cavaliere.
Maria osservava divertita la metamorfosi del fratello, pensando a quanto egli fosse diverso nei momenti delle loro baruffe, ma non volle sottolineare la cosa. Era così divertente, e romantico in fondo, il gioco sottile e allusivo fra quelle due persone a lei care.
Il ragazzo si offerse di accompagnarle ovunque dovessero andare, dopo pranzo, ma Maria fu perentoria, non ce n’era bisogno e quello che avrebbero dovuto fare era molto noioso, si sarebbe stancato subito.
Presa dalla novità, Costanza avrebbe volentieri accettato la compagnia del corteggiatore, ma erano troppe le cose di cui le due bambine avrebbero dovuto parlare in segreto fra loro, a cominciare dagli sviluppi delle ricerche compiute da Maria in sua assenza e delle eventuali novità sulla vicenda di Emma.
“Ti ho portato un regalino.”, le disse Costanza, porgendole un pacchettino di carta crespa verde, stretto in un bel nastro giallo oro annodato in un ampio fiocco.
Maria scartò il fagottino con trepidazione e fra le sue mani si materializzò una scatolina di cartoncino rosso; l’aprì e, adagiato su un batuffolo di cotone, vide un brillantissimo pendaglio swarovski, a forma di trifoglio.
“Volevo prenderti un cuoricino di cristallo, ce n’era uno bellissimo che ti sarebbe stato bene al collo, ma costava troppo e poi è meglio che quello te lo regali un ragazzo. No?”, sorrise allusiva Costanza.
Maria, al colmo della gioia, prese da un cassetto del comò una bellissima edizione rilegata di Peter Pan, quella che amava tanto e gliela mise fra le mani: “Non posso comprarti niente, Costanza,”, sussurrò, “ma questo libro per me vale come un tesoro, tienilo, è tuo.”
Giunte alla villa di Costanza e sedutesi sotto il grande noce del giardino le due ragazzine trascorsero le ore successive in amabile conversazione.
Maria le confidò le emozioni vissute con il canadese mentre l’amica le raccontò della serata di gala a cui aveva partecipato nel principesco albergo della Costa Azzurra dov’era stata ospite con la famiglia per le vacanze.
Tranquillizzata infine sulla situazione di Emma, Costanza volle conoscere tutti gli sviluppi della loro indagine e a lei Maria raccontò anche delle molestie subite in biblioteca.
“Brutto maiale!”, esclamò irata Costanza, “Dobbiamo fargliela pagare!”
Maria la calmò, non aveva nessuna intenzione di rendere pubblica la cosa, s’affrettò a dire, sarebbe stato peggio se fossero venuti a saperlo tutti, in lei la vergogna superava di gran lunga il risentimento.
Costanza dovette chetarsi ed accettare di restare la sola depositaria di quel terribile segreto, per sempre. Promise di non farne parola con nessuno, aggiungendo tuttavia che se solo se ne fosse presentata l’occasione in futuro uno scherzetto di qualche tipo lo avrebbe sicuramente fatto allo sporcaccione.
casiestremi@yahoo.it
Di Maria Prosdocimo


 
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