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N. 53, V anno, 2008 Venerdì 1 agosto  2008
 
 
 


  Panta Rei: il terzo capitolo del romanzo di Maria Prosdocimo

Abcveneto

Il comune di Motta, paese di modeste dimensioni sorto lungo le rive del fiume Livenza, rimaneva avvolto in nebbie dense ed impenetrabili per buona parte dell’inverno; le superfici delle abitazioni più vetuste erano disegnate dalle muffe, dal terreno scure chiazze di umidità risalivano i muri ed una diffusa patina opaca spegneva ogni colore. Le poche strade asfaltate erano prerogativa del centro cittadino e, in qualche caso, dell’immediata periferia; per il resto le zone più esterne e le isolate frazioni si potevano raggiungere percorrendo strade bianche, polverose nella bella stagione, scivolose per le piogge in autunno, quasi sempre ghiacciate d’inverno.
Grandi fossi scavati per lo scolo delle acque piovane, sulle cui rive crescevano alti arbusti e spontanee piante spinose, seguivano spesso il tracciato delle strade che dal centro portavano alle zone più periferiche.
L’acqua stagnante ghiacciava puntualmente per le rigide temperature invernali, ed il fosso si trasformava così in una splendida pista di pattinaggio, sulla quale i ragazzini scivolavano, scapicollandosi e divertendosi pazzamente, fino a quando non venivano raggiunti dalle voci stentoree della madri che li richiamavano per la cena.
L’Italia degli anni sessanta, attraversata dai fermenti sociali e culturali che altrove avevano dato vita alla contestazione studentesca giovanile, stava imboccando la tragica via che l’avrebbe condotta all’omicidio Moro nel ’78.
La notizia dello scontro violentissimo di Valle Giulia fra studenti e poliziotti avvenuto qualche anno prima a Roma, nel marzo del ’68, raggiunse anche il paesino, senza tuttavia scuotere profondamente le coscienze della popolazione. Roma era pur sempre una grande città, come Milano e altre in Italia, mai qualcosa di simile sarebbe potuto accadere nei piccoli centri come Motta, non era il caso di preoccuparsi inutilmente.
Quelle poche decine di giovanotti scalmanati non sarebbero arrivate da nessuna parte, e la gente di provincia bollò le loro manifestazioni di protesta come “mattate di gioventù, cose che presto sarebbero state dimenticate. “I ani i fa i cristiani”, gli anni maturano le persone, dicevano i più. Tale fu la percezione dell’uomo comune che aveva giudicato degli esaltati coloro che inneggiavano all’“immaginazione al potere”, e come delinquenti comuni quelli che lanciavano molotov nelle manifestazioni delle piazze romane o milanesi.
Con la testa ben ficcata nelle sabbie dell’ignoranza e dell’ottusità di chi non sa vedere al di là del proprio naso, buona parte della gente del paese conduceva la vita di sempre, procedendo su binari tranquilli e collaudati, senza alcun presentimento di ciò che sarebbe accaduto nel decennio appena iniziato.
Salvo alcuni, isolati, epigoni locali del movimento studentesco, ben presto neutralizzati ed emarginati con la velocità degli anticorpi di un organismo sano aggredito dal morbo, la totalità della popolazione avvertì come fatti estranei e lontani anni luce le violenze che turbavano la nazione, non partecipando in alcun modo delle gravi lacerazioni sociali e politiche che altrove dilaniavano in profondità la società civile.
Per la salvezza dell’anima i residenti si affidavano alle amorevoli cure di santa madre chiesa, mentre per quella delle proprie sostanze la protezione arrivava dalla “balena bianca”, il partito della Democrazia Cristiana che in quell’area monocromatica del Paese contava su un consenso pressoché unanime e, per mantenerlo, non lesinava elargizioni e prebende.
La domenica mattina gli abitanti del centro si raccoglievano abitualmente in preghiera nel duomo cittadino; i bambini davanti a tutti, in prossimità dell’altar maggiore, il resto della popolazione dietro, ad ascoltare l’omelia del monsignore in intimo raccoglimento o più spesso con il pensiero rivolto alla nuova pasticceria, da poco aperta e divenuta tappa irrinunciabile per masse di fedeli che uscivano dalla messa con lo spirito sazio di insegnamenti evangelici e lo stomaco illanguidito dal digiuno pre eucaristico. Identica situazione si presentava all’altro capo del piccolo paese, dove sorgeva il santuario francescano dedicato alla Madonna edificato alcuni secoli prima, dopo che la Vergine Maria era apparsa ad un umile contadino del posto e gli aveva promesso protezione per le popolazioni locali a patto che erigessero un tempio nel suo nome. Raramente “quelli della Madonna” disertavano il loro tempio per assistere alle funzioni celebrate in duomo e lo stesso valeva per “quelli del centro”, tranne che in occasione delle messe solenni dell’anno, quando ad alcuni pareva più chic recarsi al santuario mariano.
La fedeltà al proprio luogo di culto apparteneva anche a Maria per la quale l’incentivo costituito dalla nuova pasticceria
non rappresentava l’unica attrattiva che rendeva più piacevole l’obbligo di partecipare alla messa domenicale.
La casa dei nonni paterni distava pochi passi dalla chiesa; lì si consumava il secondo, importante rito del giorno della festa.
La degustazione del buonissimo gelato bicolore, di panna e cioccolata che, sinuoso e abbondante, scendeva dal beccuccio di un rivoluzionario distributore automatico, riempiendo il croccante cornetto di cialda, era infatti solo il primo dei due irrinunciabili e gustosi appuntamenti domenicali. La ragazzina impazziva letteralmente per il sugo di pomodoro e burro della nonna e, all’ora in cui insieme alla sorella Marta usciva dalla chiesa terminata la messa, la donna aveva già quasi finito di preparare il pranzo.
Il profumo buono di cucina e l’odore inconfondibile della legna arsa si spandeva nell’aria, aprendo lo stomaco e preparando lo spirito alle delizie culinarie del giorno di Dio.
Le bambine salivano correndo i pochi gradini della casa dei nonni e giocherellavano un po’ con le foglie dei due grossi oleandri sistemati ai lati dell’ingresso, in attesa che la nonna aprisse loro, infine entravano allegramente e rumorosamente nell’austera dimora.
L’ingresso introduceva subito nel salone principale, di rappresentanza, dove il nonno riceveva i committenti che spesso giungevano anche da fuori regione; appesi alle pareti e impreziositi da splendide cornici di legno dorato, facevano la loro bella figura enormi e antichi quadri ad olio. Per lo più erano dipinti a soggetto sacro, di eccellente fattura. Si trattava talvolta di tele già restaurate dal nonno, pronte per essere riconsegnate al proprietario, altre volte erano invece opere ancora in attesa dell’intervento del maestro.
Il vecchio artista era sempre contento di ricevere la visita dei nipoti e manifestava la propria felicità con un sorriso complice e bonario; la nonna invece, pur nutrendo dell’affetto per la propria discendenza, non era facile alle smancerie e ben si guardava dal mostrarsi condiscendente.
La scaltra donna, con un passato di avvenente barista, avvezza alle lusinghe del cliente, non si faceva illusioni sulle reali aspettative delle nipoti e, puntualmente, faceva trovar loro sul tavolo di cucina due distinti piatti con qualcosa di speciale ed un bel pezzo di pane da intingere nel sugo di pomodoro che non mancava mai.
Quando il rituale era stato finalmente consumato le bambine riprendevano la via di casa, dove le aspettava il resto della famiglia. Felici, correvano a perdifiato, facendo volteggiare nell’aria i candidi veli di pizzo ricamato che coprivano le loro testoline durante la messa.
“Dai! Sbrigatevi voi due, siete sempre le ultime! Gli altri sono già a tavola; lavatevi le mani e fate presto”
Mamma non sapeva essere dura nemmeno quando era irritata.
“Guarda Maria cosa ho qui dentro” le disse eccitato il fratello, accostandosi a lei e sollevando delicatamente il coperchio di una scatola da scarpe forata in più punti.
“E’ piccolissimo! Ma è un topo?”, chiese lei, già dimenticando il pranzo; “Fai vedere anche a me, fammi vedere!”, strillò Marta, sollevandosi il più possibile sulle punte delle scarpine di vernice bianca.
“Adesso, adesso, non sbattere così la scatola che si spaventa!”, il ragazzino si chinò verso la sorellina che alla vista della piccola creatura emise un gridolino di meraviglia. “Posso toccarlo?”, “Sì, ma stai attenta a non fargli male.”
Amici di famiglia avevano portato dalla montagna il minuscolo roditore e lo avevano regalato al ragazzino, il cui viscerale amore per gli animali era loro ben noto.
“Come lo hai chiamato?”, chiese Maria al fratello, mentre con le piccole dita accarezzava il pelo morbido e folto dell’animale, appallottolato su sé stesso in un angolo della scatola per la paura, “Ancora non gli ho dato un nome, voglio pensarci bene, per oggi lo chiamo “topo”, adesso però andiamo a mangiare sennò papà si arrabbia.”
Il pranzo fu consumato a tempo di record ed il resto della giornata i bambini lo trascorsero nella cameretta del ragazzo a tormentare di dolcezze il povero topo, sempre più terrorizzato. Andate a letto, Maria e Marta trascorsero buona parte della nottata confabulando sottovoce sul da farsi, nel buio fitto della cameretta, immaginando tutte le possibili soluzioni abitative per la bestiola.
Ipotizzarono di destinargli l’intera superficie della grande terrazza di casa, impedendone l’accesso ai familiari, dopo aver tappato per bene i fori per lo scolo delle acque piovane, senza dimenticare di chiudere il lato aperto del terrazzo con una rete dalla trama sottilissima, per far passare l’aria ma non la bestiola.
Si addormentarono senza aver risolto l’interrogativo su cosa esattamente mangiasse l’animale, ripromettendosi di verificarlo il giorno seguente.
La mattina dopo fu il ragazzo a fare l’amara scoperta: il topolino era annegato nell’acqua del piattino che avevano messo nella scatola per l’eventuale sete dell’animale.
Maria non volle crederci, rifiutandosi di accettare l’evidenza dei fatti.
Era cresciuta nel timor di Dio, Gli aveva dedicato decine e decine di “fioretti”, e confidava ciecamente nella protezione del proprio angelo custode al quale rivolgeva ogni sera la preghiera più amata.
In un solo momento tutte le rassicurazioni ricevute dalla madre circa il mistero della morte, sul quale la piccola si era precocemente interrogata più volte, le parvero inutili di fronte alla imprevedibilità della fine quasi ridicola del minuscolo animale.
Lo afferrò e si allontanò da sola, intimando agli altri di non seguirla; rifugiatasi nel sottoscala allestì un piccolo altarino su quale adagiò quel grumo di ossicini e pelo.
Sarebbe bastato invocarne con forza il risveglio, recitando con la più grande convinzione tutte le preghiere che conosceva, ne era certa. Pregò per più di due ore, tra fiumi di lacrime, costringendosi al pianto ogni volta che gli occhi le si asciugavano. Alla fine, vinta, si arrese.
La sua fede fervida ed intatta nella forza della preghiera non era servita a riportare in vita il topolino, la cui morte le apparve assurda, priva di senso e, per la prima volta, in lei si insinuò il dubbio che non sempre esistessero delle spiegazioni accettabili per gli accadimenti della vita. Seppellì il roditore in un angolo del giardino, sotto ad un bellissimo alberello chiamato “del Getsemani”, dopo averlo chiuso nel contenitore di plastica gialla del cacao in polvere terminato la mattina stessa a colazione.

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