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N. 57, V anno, 2008 | Lunedì 1 Dicembre 2008 | ||
Di Luccia Danesin
Burri era il cognome della mia compagna di banco durante tutti i cinque anni delle elementari. Una ragazzina piccola e minuta, dagli occhi rotondi e scuri-scuri come i suoi capelli lisci che erano trattenuti al centro del capo da un nastro infiocchettato di colore blu, quello regolamentare. Tutte le ragazzine della scuola, comunque avessero i capelli, anche cortissimi, dovevano avere quel fiocco in testa, forse per fare da pendant con l’altro che chiudeva il collettino bianco, sempre perfettamente inamidato, che portavamo al collo sopra il grembiule nero.
Poiché fin da piccola non amavo molto la frutta, (anche se era sempre presente in tavola perché invece mia madre l’adorava), era volontà di questa che durante il breve percorso da casa a scuola mi fermassi da Vittorio, il fruttivendolo e con le poche lire che mi metteva dentro al pugnetto, mi comprassi un bel frutto, “quello che ti attira di più” diceva. Le prime volte optai per delle grosse noci. Erano lucide, compatte e quelle dentro la tasca strusciavano con un bel rumore; ma poi mi trovavo nella ricreazione a non sapere bene come romperle, come schiacciarle. Così nei giorni a venire e per tutto l’anno scolastico, dovetti ripiegare sulle mele, sulle arance, sulle pere, a seconda della stagione; le banane, che mi sarebbero piaciute, anche per quel misto di esotismo suscitato dagli avventurosi film di Tarzan visti al patronato, c’erano di rado e poi costavano troppo: di più del mio budget.
Carla abitava in una casetta non lontana dalla scuola. Ci si arrivava prendendo una stradina che s’inoltrava in appezzamenti di terreno coltivati ad orti. Qualche casa fatta in economia cresceva un po’ qua un po’ là ma prevalevano questi fazzoletti di terreno ben curati; camminando si poteva sentire l’odore dei vari ortaggi di stagione. Un giorno, verso le feste di Natale, volle che andassi a casa sua a prendere un quaderno che le avevo prestato. Mi fece entrare in una grande stanza a pianterreno che fungeva da cucina e da piccolo salottino: un ordine, un lindore tutt’intorno che negli anni non ho più ritrovato in nessun’altra casa. Sentii però che in quel luogo, pur tenuto con così tanto amore, mancava qualcosa. In quei giorni di festa non c’era un segno del Natale se non un rametto di pino con piccoli fiocchi rossi. A scuola, il giorno dopo chiesi all’amica perché non avesse fatto l’albero, il presepe, qualcosa insomma: da noi ogni anno tiravamo fuori lo scatolone con gli addobbi già ai primi di dicembre … C’era vicino a scuola un casolino, quasi un bazar tante erano le cose varie e diverse stipate dentro: dal baccalà, che impregnava tutto con il suo odore acre, alle stringhe da scarpe, ai giochi: aveva anche palline e addobbi di natale. Devono essersi incuriositi i gestori, marito e moglie, nel vedere quelle due bambine che ogni giorno – tutti i giorni - fino a Natale, con quel poco che avanzava dal fruttivendolo - ora sorpreso per le due piccole mele che doveva incartare - sceglievano con cura una sola pallina, una volta rossa, una volta verde, una volta dorata.
Per Natale non faccio l’albero. Come centro-tavola metto un grande piatto rotondo
filettato d’oro e blu, Richard Ginori lasciato dalla mamma e lo riempio colmo di palle di vetro rosse, verde, blu e anche dorate. Di Luccia Danesin |
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