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N. 57, V anno, 2008 Lunedì 1 Dicembre  2008
 
 
 


  La mela

Di Luccia Danesin

L'alunna Luccia DanesinBurri era il cognome della mia compagna di banco durante tutti i cinque anni delle elementari. Una ragazzina piccola e minuta, dagli occhi rotondi e scuri-scuri come i suoi capelli lisci che erano trattenuti al centro del capo da un nastro infiocchettato di colore blu, quello regolamentare. Tutte le ragazzine della scuola, comunque avessero i capelli, anche cortissimi, dovevano avere quel fiocco in testa, forse per fare da pendant con l’altro che chiudeva il collettino bianco, sempre perfettamente inamidato, che portavamo al collo sopra il grembiule nero.
Carla era una bambina timida, sempre diligente e attenta a quanto diceva la maestra. Eh già, la maestra: tutto un programma. Intanto si chiamava Merlin ed era la sorella di quella che aveva chiuso le case chiuse. Non che al tempo io lo sapessi naturalmente, ma circolava la voce nella scuola che avesse una sorella “comunista” e che certamente lo era anche lei. Il socialismo, a quell’epoca, veniva spesso equiparato a quel Rosso fratello più temibile. “I comunisti non vanno a messa come noi, non dicono le preghiere come noi. Non vogliono il prete neanche prima di morire! Insomma: sono strani, diversi…”. La suora del catechismo aveva la sua ferma opinione in merito e poi chiudeva il discorso con un: “Ma, lascia stare queste domande, capirai…capirai”.
La scuola era vicina un centinaio di metri dalla nostra casa. Al mattino dovevano solo farmi attraversare la strada - una via trafficata già allora - e mi trovavo a dover fare solo una corsetta per arrivare ai grandi cancelli di ferro già aperti per gli alunni. A quel tempo, ricordo, che per qualsiasi spostamento, mi trovavo a correre e, mentre rallentavo perché – mi dicevo: “perché devo correre se non ho fretta” – senza accorgemene - era più forte di me - mi ritrovavo che correvo. Forse camminare, solo camminare è una delle tante discriminanti fra l’adulto e il bambino. Il tragitto è tempo perso ai giochi, all’incontro: non ci si è ancora esercitati abbastanza all’attesa, non si capisce il dopo.

Poiché fin da piccola non amavo molto la frutta, (anche se era sempre presente in tavola perché invece mia madre l’adorava), era volontà di questa che durante il breve percorso da casa a scuola mi fermassi da Vittorio, il fruttivendolo e con le poche lire che mi metteva dentro al pugnetto, mi comprassi un bel frutto, “quello che ti attira di più” diceva. Le prime volte optai per delle grosse noci. Erano lucide, compatte e quelle dentro la tasca strusciavano con un bel rumore; ma poi mi trovavo nella ricreazione a non sapere bene come romperle, come schiacciarle. Così nei giorni a venire e per tutto l’anno scolastico, dovetti ripiegare sulle mele, sulle arance, sulle pere, a seconda della stagione; le banane, che mi sarebbero piaciute, anche per quel misto di esotismo suscitato dagli avventurosi film di Tarzan visti al patronato, c’erano di rado e poi costavano troppo: di più del mio budget.
Così, arrivavo a scuola, il più delle volte con una bella mela. Vittorio me l’aveva fatta scegliere fra le tante della cassetta: rossa e lucida dalla pasta un po’ asprigna, quelle che crocchiavano di più. Odiavo quelle farinose, le canadà, che comperava la nonna e che tentava sempre di farmi mangiare. Aveva una sua arte seduttiva nell’offrirmi quello spicchietto di mela sbucciata ed infilzata poi sulla punta del coltellino. “La mela è il sapone dello stomaco” diceva. “Embeh!” Pensavo io.
Al suono della campanella d’intervallo, mentre la signora Dolores con il grande bricco di ceramica frangiato passava per ogni banco a versare l’inchiostro nei calamai, pescavo dalla cartella la famosa mela.
La sbocconcellavo pian piano, senza tanta passione, lasciando il più delle volte il torsolo non troppo scarnificato sotto il banco alla ripresa delle lezioni. Sì, lo so, avrei dovuto gettarlo nel cestino, ma se non lo facevo prima che rientrasse la maestra, finiva sempre che all’ultima campanella, nella fretta di ritornare a casa, restasse là.
Questo è quanto pensavo. Il torsolo invece nella seconda parte della mattina spariva. Non lo sapevo fin quando un giorno, a fine anno, l’avevo in mano e mi apprestavo a portarlo nel cestino. “Non buttarlo via, dallo a me”. Burri mi guardava seria e un po’ timorosa. Al momento non capii, glielo diedi pensando che volesse gettarlo lei nel cestino: farmi un piacere. Mi diede le spalle e incominciò invece a mordicchiarlo e poi a masticarlo con lentezza. Mangiò tutto. Tutto.

Carla abitava in una casetta non lontana dalla scuola. Ci si arrivava prendendo una stradina che s’inoltrava in appezzamenti di terreno coltivati ad orti. Qualche casa fatta in economia cresceva un po’ qua un po’ là ma prevalevano questi fazzoletti di terreno ben curati; camminando si poteva sentire l’odore dei vari ortaggi di stagione. Un giorno, verso le feste di Natale, volle che andassi a casa sua a prendere un quaderno che le avevo prestato. Mi fece entrare in una grande stanza a pianterreno che fungeva da cucina e da piccolo salottino: un ordine, un lindore tutt’intorno che negli anni non ho più ritrovato in nessun’altra casa. Sentii però che in quel luogo, pur tenuto con così tanto amore, mancava qualcosa. In quei giorni di festa non c’era un segno del Natale se non un rametto di pino con piccoli fiocchi rossi. A scuola, il giorno dopo chiesi all’amica perché non avesse fatto l’albero, il presepe, qualcosa insomma: da noi ogni anno tiravamo fuori lo scatolone con gli addobbi già ai primi di dicembre …
“Vorrei tanto avere un bell’albero di Natale, ma … e le palline?” rispose. Prima mi guardò per vedere se avevo capito poi, abbassando leggermente lo sguardo, disse: “Noi siamo poveri”.

C’era vicino a scuola un casolino, quasi un bazar tante erano le cose varie e diverse stipate dentro: dal baccalà, che impregnava tutto con il suo odore acre, alle stringhe da scarpe, ai giochi: aveva anche palline e addobbi di natale. Devono essersi incuriositi i gestori, marito e moglie, nel vedere quelle due bambine che ogni giorno – tutti i giorni - fino a Natale, con quel poco che avanzava dal fruttivendolo - ora sorpreso per le due piccole mele che doveva incartare - sceglievano con cura una sola pallina, una volta rossa, una volta verde, una volta dorata.

Per Natale non faccio l’albero. Come centro-tavola metto un grande piatto rotondo filettato d’oro e blu, Richard Ginori lasciato dalla mamma e lo riempio colmo di palle di vetro rosse, verde, blu e anche dorate.
Mangio raramente la frutta, se non in macedonia e con un filo di Maraschino.

Di Luccia Danesin


 
 
 
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