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N. 57, V anno, 2008 Lunedì 1 Dicembre  2008
 
 
 


  VII capitolo di Panta Rei

Di Maria Prosdocimo

Il giorno della prima comunione era stato davvero speciale, Maria non aveva potuto non notare che anche Lucia sembrava più bella nel suo candido abitino, impreziosito dal velo bianco. Lucia, una bambina piuttosto grassottella e bruttina, non era in classe con lei; erano nate lo stesso anno ma la coetanea frequentava una delle classi della cosiddetta “scuola speciale”. Un’intera ala dell’edificio scolastico era stata infatti destinata agli alunni considerati anormali, come si diceva allora.
In genere si trattava di ragazzini affetti da forme tenui di mongolismo o da altri lievi handicap, non così gravi da segnarne un destino di reclusi in istituti specializzati.
Venivano tuttavia confinati in quella sorta di ghetto anche certi bambini che semplicemente provenivano da famiglie poverissime ed emarginate, la cui unica colpa era quella di essere spesso abbandonati a sé stessi, quasi sempre carenti nell’igiene personale e trasandati. La loro presenza in una classe “normale” non era mai gradita e ciò ne determinava l’emarginazione sociale persino a scuola.
Con Lucia, Maria aveva avuto solo alcuni sporadici contatti, superando la ritrosia della sfortunata ragazzina che non era abituata all’attenzione della gente.
Decise di scoprire dove ella vivesse e volle verificarlo di persona senza chiedere informazioni ad alcuno ma seguendola all’uscita da scuola, uno dei giorni successivi.
Non aveva mai raggiunto quella zona esterna all’abitato, ci si doveva arrivare di proposito, tanto era tagliata fuori dalle direttrici del traffico cittadino e praticamente resa invisibile da siepi intricate ed alte.
“Villaggio azzurro”, dal colore indaco dei prefabbricati di legno in cui abitavano numerose famiglie fra le più colpite dalla disgrazia dell’alluvione di qualche anno prima, era il nome dato dalla gente del paese al quell’agglomerato di povere baracche.
Rifugi di fortuna e provvisori nelle intenzioni, costruiti nell’emergenza dell’evento catastrofico per coloro che avevano perduto ogni cosa e divenuti invece, col tempo, la sola possibile casa per quegli sfortunatissimi, tra gli sfortunati.
Maria fu subito raggiunta da alcuni grossi cani, attirati dalla sconosciuta. Rimase immobile, paralizzata dal terrore, mentre questi l’annusavano con curiosità e diffidenza. “Cosa ci fai qui?”; la voce di Lucia le giunse come musica e il rullio dei battiti del suo cuore andò diminuendo non appena la ragazzina richiamò gli animali, facendoli allontanare. “Cosa sei venuta a fare?”, le chiese nuovamente Lucia.
“Volevo conoscerti meglio.”, rispose Maria, tranquillizzatasi; “Vai sempre via così in premura che non riesco mai a fermarti e allora ho deciso di venire io da te. E’ stato facile. Qual è la tua casa?”.
Lucia indicò una delle baracche dove, sull’uscio dell’ingresso, era comparsa una donna dell’apparente età di cinquant’anni che indossava una misera vestaglietta, stretta in vita da un grembiule lacero.
“E’ mia mamma, vieni!” La donna fece cenno alle bambine di entrare in casa ed esse la raggiunsero. “Situ so amiga?”, chiese a Maria, facendola accomodare su una delle sedie della cucina. “Sì, signora, andiamo a scuola insieme.”, rispose l’ospite. Gli occhi scuri e malinconici della donna la fissarono interrogativamente, Maria non le sembrava anormale e nell’insieme le appariva una bambina curata e di buona famiglia, non certo povera come la sua Lucia.
“Veramente non siamo in classe insieme ma ci troviamo durante la ricreazione.”, aggiunse la piccola per alleviare l’imbarazzo di Lucia che non sapeva cosa dire.
“Ho un poco de tè e qualche biscotin, ghin vutu?”, chiese la donna, sorridendo bonaria. Non aveva nemmeno quarant’anni ancora ma il volto scavato dalla magrezza e alcune rughe profonde la facevano sembrare di almeno dieci anni più vecchia.
Parlava piano, accompagnando ciascuna frase con movimenti nervosi delle mani ossute, come se persino trovare le parole per raccontare la fatica del loro vivere richiedesse uno sforzo immane. La vista dell’ambiente misero e spoglio in cui Lucia viveva con la famiglia aveva immediatamente stretto in una morsa dolorosa il cuore di Maria.
Ascoltò con attenzione la donna, venendo così a sapere molte delle circostanze che avevano condotto alla rovina la sfortunata famiglia.
Ebbe l’impressione che non fossero frequenti le occasioni di conversazione per le sue ospiti e non poteva certo sapere quanto fosse azzeccata la sua intuizione, dal momento che non solo Lucia veniva emarginata dai coetanei a scuola ma anche tutti gli altri abitanti di quei prefabbricati venivano puntualmente ignorati dal resto della cittadinanza.
Testimonianza del disastro della recente alluvione, l’agglomerato di baracche era nettamente separato dall’abitato di Motta da un muro invisibile ed impenetrabile di indifferenza e ignoranza. La presenza di quelle famiglie, che la furia dell’acqua aveva privato di ogni cosa e che non avevano potuto contare sul sostegno di nessuno, costrette a vivere nell’indigenza e nell’incuria, era mal sopportata dalla collettività che dell’inondazione avrebbe preferito cancellare persino la memoria.
La generale rimozione dell’evento induceva chi aveva potuto ricominciare daccapo a non pensare a chi invece non ce l’aveva fatta, giudicando anzi questa una conseguenza della presunta poca voglia di riscatto degli occupanti le scandalose baracche, ai quali era assicurato un minimo di assistenza sociale.
Era opinione comune che in buona parte quei cittadini, giudicati di serie B, si fossero volentieri abituati alla situazione, preferendo il poco ricevuto dall’ufficio assistenza del comune o da qualche benefattore, piuttosto che mettersi in gioco seriamente, lavorando e faticando. In fondo era propria delle genti di quei luoghi la convinzione che bastasse essere dotati di buona volontà e di due robuste braccia per uscire da ogni difficoltà; le fragilità dei singoli diventavano immediatamente vizi nell’opinione comune e mal giudicato era chiunque mostrasse le proprie debolezze di fronte alle avversità.
Il padre di Lucia era invalido, alcolista per giunta, elemento questo che invece di suscitare compassione negli altri li indispettiva maggiormente.
Aveva avuto la sconsideratezza di far figliare la moglie per ben cinque volte in pochi anni, pur non avendo un lavoro fisso ed essendo incapace di stare per più di un giorno lontano dalla bottiglia.
Fare figli era considerata legittima prerogativa di chi se lo poteva permettere, mentre appariva una leggerezza imperdonabile in chi non era in grado di assicurare alla prole un’esistenza dignitosa.
La madre di Lucia si soffermò a lungo sul racconto drammatico della morte del figlio maggiore, vittima di un incidente stradale.
Il pomeriggio in cui s’era consumata la tragedia la donna si trovava nell’orto dietro casa; sulla strada che poco lontano dai prefabbricati portava in paese, un’automobile aveva travolto il bambino in sella alla sua bicicletta, uccidendolo e continuando la sua corsa senza fermarsi. Qualcuno di passaggio doveva aver assistito al fatto e poco dopo era giunta sul posto un’ambulanza a sirene spiegate.
La donna s’era sentita trasalire al passaggio del mezzo di soccorso ma nessuno era venuto ad avvisarla. La sera, non vedendo rincasare il figlio, aveva cominciato ad avvertire un dolore lancinante al ventre che era andato via via aumentando col passare delle ore della penosa attesa. “Jèra come se qualchedún el me sbreghesse 'a pansa, el me cavesse le budèe.”, raccontò a Maria, con gli occhi velati di commozione.
Solo a notte fonda i carabinieri avevano bussato alla sua porta, dopo essere faticosamente risaliti all’identità del ragazzo, che nessuno all’ospedale aveva subito riconosciuto. Lucia si alzò dalla sedia e andò verso la madre, la strinse fra le braccia paffute e la baciò sulla fronte: “No sta pian'ser mama, son qua mi co ti.”, la donna alzò gli occhi arrossati verso il volto sorridente della figlia e il loro sguardo d’intesa toccò profondamente Maria che nello stesso istante avvertì una tristezza inspiegabilmente grande se attribuita alle circostanze presenti.
Il racconto di quella madre ferita l’aveva certo commossa ma l’emozione che l’aveva raggiunta fin nei recessi più insondabili del suo essere la sbaragliò. Ebbe la percezione di essere la destinataria di un messaggio diretto proprio a lei e vide sé stessa nella piccola Lucia.
Le due bambine trascorsero qualche ora conversando e sfogliando i libri di testo di Lucia che rivelò alla nuova amica il suo grande amore per la lettura.
Maria non ebbe alcuna esitazione a proporle il prestito di alcuni fra i suoi libri più cari, promettendole di portarglieli a scuola già la mattina successiva; “Cucciolo”, soprattutto, le parve una lettura che Lucia avrebbe saputo apprezzare e gliene parlò con entusiasmo, appassionatamente.
Verso l’ora di cena si salutarono ma Lucia volle accompagnare per un po’ l’amica, vista la paura di quest’ultima di essere seguita dai cani.
“Ci vediamo domani, d’accordo?”, disse Maria, salendo sulla bicicletta al momento del congedo; “Non ti vergognerai a farti vedere insieme a me?”, chiese di rimando Lucia, guardandola dritta negli occhi.
“Come ti viene in mente una cosa del genere? Vedrai, ci divertiremo insieme.”, la rassicurò e nel farlo sentì l’impulso di abbracciarla.
Lucia arrossì, non era abituata a certe manifestazioni di affetto da parte di estranei. La notte, insonne nel suo letto, immersa nel silenzio rotto dai respiri dei familiari addormentati, Lucia ripensò alle belle ore trascorse con Maria, alle cose che s’erano raccontate, alla dolcezza di quella ragazzina che s’era interessata proprio a lei e che sembrava volerle essere amica. Per la prima volta ebbe la sensazione che qualcosa nella sua vita sarebbe potuto cambiare, che non fosse così fatale il suo destino di emarginata, che la solitudine in cui era vissuta sino a quel momento si sarebbe potuta illuminare di speranza.
Si addormentò sul fare del giorno, quando l’emozione cedette il posto alla stanchezza, scivolando in un sogno colorato in cui cerbiatti dai grandi e umidi occhi le leccavano il volto e scorrazzavano intorno a lei e a Maria, immerse tra i profumati fiori di un verdissimo prato. La mattina successiva Maria giunse a scuola in anticipo sul suono della campanella, certa di trovarvi già l’amica.
Le consegnò il libro e le diede appuntamento per la pausa della ricreazione: “Ti farò conoscere le mie amiche, ti piaceranno.”
Lucia si adombrò un poco, “Ho paura, Maria, non mi vorranno...”, “Vedrai che andrà tutto bene, saranno contente, stai tranquilla! Ti dico un segreto...il capo sono io.”, aggiunse ridendo felice, sicura di sé stessa come mai lo era stata.
Così fu in effetti. Costanza ed Emma non ebbero alcun problema ad accogliere nel gruppo la nuova arrivata, mostrandosi interessate e partecipi alla sua storia.
“Però resterò sempre io la tua amica preferita, vero?”, le chiese Costanza, un giorno che erano rimaste da sole.
“Tu sarai sempre la prima, non devi preoccuparti di questo.”; Maria strinse l’amica in un forte abbraccio nel quale le paure di questa si stemperarono in un’emozione dolce, sparendo all’istante per lasciare il posto ad un sorriso colmo di gratitudine.
Negli anni a seguire furono molte le occasioni in cui le quattro bambine ebbero la possibilità di accrescere la reciproca conoscenza e consolidare l’amicizia, circostanza che consentì a tutte in ugual modo di entrare in contatto con un realtà diversa da quella sino ad allora vissuta e di prendere coscienza del mondo.

Chi volesse scrivere all'autrice, può farlo a questo indirizzo di posta elettronica: casiestremi@yahoo.it

Di Maria Prosdocimo


 
 
 
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