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N. 57, V anno, 2008 Lunedì 1 Dicembre  2008
 
 
 


  Resistenza ancora.

Di Valentino Venturelli

Salvatore QuasimodoSalvatore Quasimodo fu testimone della tragica guerra di tutti contro tutti chiamata Resistenza. Dietro ogni siepe e via di periferia si poteva trovare la morte; le assurde motivazioni di questa lotta fratricida erano, per lo più, indotte dalla spirale della paura e della vendetta. Gli italiani sparavano sui tedeschi ex- alleati, ma diventati invasori dopo la guerra perduta; altri italiani combattevano contro i partigiani e gli anglo- americani. Vecchie e sedimentate contrapposizioni mai pacificate esplosero in quel momento storico.
Le crudeltà della guerra civile ci inducono tuttora alla pietà per questo olocausto di esistenze troncate più che altro per motivi di militanze ideologiche o per un patriottismo post-armistizio inutile, ormai, a contrastare l’andamento ineluttabile della storia. Non si potrebbe dare altro nome allo sterminio tra italiani se non quello di un improvviso desiderio di morte indotto dalla reazione al fascismo e alla guerra perduta. Ma chi pagava sopra tutto, sia a causa di rappresaglie sia per i cruenti bombardamenti anglo-americani, erano proprio i civili che avrebbero voluto stare fuori di quella follia di morte che non capivano.
Il poeta è tutto dentro questo disorientamento delle coscienze di quel tempo; e questi suoi scarni versi li citiamo per la loro attualità e per qualche riflessione sul significato di questa italica guerra:

“E come potevamo noi cantare
con il piede straniero sopra il cuore
fra i morti abbandonati nella piazza
sull’erba dura di ghiaccio,al lamento
d’agnello dei fanciulli, all’urlo nero
della madre che andava incontro al figlio
crocifisso sul palo del telegrafo?
Alle fronde dei salici, per voto,
anche le nostre cetre erano appese
oscillavano lievi al triste vento.”

Malgrado siano passati 60 anni, malgrado gli orrori di altre guerre, noi italiani torniamo, tutti gli anni, a rammentare e onorare gli eroismi della resistenza che è stata, comunque, anche una cruenta guerra civile. Sembra che non abbiamo il coraggio di scoprire anche le barbarie di quel tempo che erano unite agli innumerevoli eroismi per contrastare l’italiano diventato il nemico o le vendette del nazista tradito. E’ stato il momento in cui, con la perdita della pietà tra gli uomini, veniva anche perduto il senso dell’unità italiana. Le giustificazioni politiche successive hanno prodotto e continuano a perpetuare solo retorica di quella “temperie”; c’è ancora molta titubanza nell’ammettere che la guerra civile era una inutile guerra di sterminio tra repubblichini e partigiani italiani. Essa poteva avere qualche motivazione opportunistica, come quella di farla finita con la guerra mettendosi al fianco di chi l’avrebbe per primo conclusa. Vero: c’erano tra quelle rovine anche ideali molto nobili, però contraddetti dai delitti quotidiani. Ideali che, poi, l’evolversi della storia mondiale si è incaricata di smantellare. Allora, dopo una dittatura fascista, dopo una guerra disastrosa che aveva portato italiani a morire in Russia o nei deserti dell’Africa, dopo il proditorio rovesciamento delle alleanze per cui divenimmo nemici dei nostri alleati tedeschi a fianco degli alleati ex-nemici, dopo la caduta del regime fascista e la fuga della casa regnante, dopo lo scompaginamento dell’ 8 settembre 1943, dopo i bombardamenti sulle città e le deportazioni germaniche di civili inermi e di ebrei, la confusione delle coscienze era totale. Il sangue versato da partigiani e da repubblichini è il risvolto di culture violente soggiacenti nel popolo italiano, sempre riemergenti. Con la Resistenza appare nuovamente ripresentarsi quella contrapposizione violenta tra sinistra e cultura liberale, già manifesta ai primi del novecento, capace di dividere il popolo in fazioni l’una contro l’altra armata. Questa tendenza strisciante di risolvere con l’eliminazione fisica il dissenso appare tuttora presente ( vedi brigate rosse o nere, ecc.). La stessa divisione tra italiani sempre pronti a combattere contro la parte avversa ha origini antiche , risalendo al Medioevo e all’epoca dei comuni e delle signorie . Prosegue anche oggi negli estremismi delle parti politiche contrapposte, anche se fortunatamente con altre modalità della violenza tra bande armate.
La memoria della Resistenza ci dice anche che non è avvenuta vera pacificazione politica tra italiani, quella pacificazione di livello superiore che può solo derivare dal desiderio di seppellire definitivamente l’ascia di guerra sollevata in quei tragici anni. L’ascia di guerra sollevata allora, evidentemente, ha ancora qualche funzione se non è stata ancora definitivamente sepolta.
Non è ancor completata la revisione critica di quel tempo. Così, si pone giustamente l’enfasi sugli eroismi di alcuni gruppi partigiani e non si parla con schiettezza degli orrori commessi di partigiani italiani alleati agli iugoslavi filocomunisti di Tito, disponibili alla sovietizzazione del Veneto, dopo aver scacciato il nemico nazifascista. Ma erano solo i nazifascismi i loro nemici diretti? Perché non lo si esprime a caratteri forti che la Resistenza contempla anche il massacro di partigiani da parte di altri partigiani solo perché ideologicamente diversi o di diversa demarcazione politica? Perché non deplorare la sequenza attentati – rappresaglie, che sincronicamente si susseguivano e che erano pagate proprio da cittadini inermi e avulsi da una simile strategia di morte ? Queste celebrazioni dovrebbero sollecitare una nuova modalità di lettura di questi fatti, che dovrebbe partire da una chiara identificazione dello stato patologico della società di allora, dato che allora nessuna struttura istituzionale poteva fare da argine alla sbrigativa soluzione dei problemi. Se si insegnasse che, date le circostanze storiche di allora, non c’erano buoni o cattivi, ma solo animi esasperati; e che il sangue versato dall’una e dall’ altra parte era sempre dei figli di una stessa patria: allora potremmo vedere questa tragedia in un nuovo contesto. Più che lotta fondante la nostra stessa identità nazionale, dovremmo riconsiderare quel profondo buio in cui eravamo precipitati, dal quale risalire per un cammino virtuoso verso un diverso sentimento dell’unità nazionale.
Purtroppo, le cetre resteranno ancora appese “alle fronde dei salici, per voto….” , finché perdura la memoria del sangue fraterno versato e fino a quando non si indicherà quella stagione come una crisi della nostra civiltà. Nessuno può , ora come allora, riprendere un canto liberatorio su quelle cetre dimenticate; perché solo la pietà, il pudore e il pentimento per quella confusa violenza di animi e di sangue è il canto nuovo che attendono. Ma esse sono silenti al vento della storia, come se la nostra coscienza fosse rimasta bloccata da quelle vicende.

Di Valentino Venturelli


 
 
 
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