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Sulle Tracce degli scrittori di Federico De Nardi, Aurelia edizioni di Asolo
fotonotizie per la stampa: Marcellino Radogna
Direttore Federico De Nardi www.abcveneto.com Domenica 1 giugno  2008
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Panta Rei: I capitolo

Maria Prosdocimo

Piogge incessanti e abbondanti avevano tormentato per settimane il
piccolo paese di Motta e il mese di novembre, appena iniziato, non
prometteva nulla di buono.
L’alba livida, sorta da poco, cominciava a rivelare i contorni
delle cose che, lentamente, emergevano dalla tenebra.
Maria aprì gli occhi di colpo, bruscamente risvegliata da strani
rumori; dalla casa giungeva l’eco di passi frettolosi e concitati,
il rumore stridente di mobili spostati e trascinati da un posto
all’altro.
La bambina si raggomitolò fra le coperte, impaurita per l’insolito
trambusto, ancor più minaccioso nell’oscurità fitta della stanza.
Non riconobbe subito voci familiari ma udì il bisbiglio soffocato
di qualcuno in preda all’agitazione.
Trascorsero alcuni minuti che le parvero lunghissimi poi, spinta
dalla paura dell’ignoto, più forte di quella del buio, scese dal
letto e raggiunse la porta della camera che spalancò di botto.
In fondo al corridoio, nella cucina illuminata a giorno, intravide
mamma e papà, con le facce stravolte, intenti a sollevare il
grande frigorifero per sistemarlo sopra il tavolo da pranzo.
Non comprese cosa stesse accadendo, quale strano gioco stessero
facendo i genitori e, dal momento che essi non sembravano nemmeno
accorgersi della sua presenza, ne reclamò l’attenzione irrompendo
in un pianto singhiozzante.
“Cosa fai alzata, Maria? Torna nella tua stanza con Marta, non
stare qui adesso, poi vengo io da te” le sussurrò amorevolmente la
mamma, sforzandosi di nascondere il terrore che le spegneva le
parole in gola.
“Per Dio, Gabriella! Lascia stare la bambina e sbrigati a venire
qua; e tu fila a letto! Non ti muovere dalla stanza fino a quando
non te lo dico io! Vai!”
Papà era nero, non lo aveva mai visto così, esasperato e tuttavia
reattivo, la faccia di pietra, irrigidita in un’espressione
indecifrabile.
La bimba s’infilò nella cameretta del fratello maggiore, lo
scrollò energicamente costringendolo a svegliarsi di soprassalto.
“Che c’è, Maria? Cosa vuoi, non vedi che è ancora buio?”, “Non è
buio, alzati, papà e mamma stanno facendo baruffa!”, rispose la
piccola piangendo; “Come stanno facendo baruffa? Cosa cavolo stai
dicendo? E lasciami!”, esclamò il ragazzino divincolandosi da
quella presa tenace, “Adesso vengo, adesso vengo, smettila di
strillare!”.
Insieme tornarono verso la cucina e l’avevano già quasi raggiunta
quando la loro attenzione fu attratta da un rumore sconosciuto che
proveniva dal pian terreno. Scesero con circospezione alcuni
gradini della scala che collegava i due piani. Ai loro occhi
apparve una scena che li lasciò sbigottiti.
L’acqua aveva ormai raggiunto il metro e mezzo di altezza e
rumoreggiava, ribolliva creando mille vortici turbinanti.
In superficie, catturati in vorticose spirali di nera schiuma,
apparivano e scomparivano oggetti di ogni genere che l’onda aveva
incontrato e travolto nella sua rovinosa corsa, persino carogne di
piccoli animali, topi, ricci, uccelli, oltre a resti di
vegetazione divelta dalla violenza della corrente.
I due fratelli risalirono di corsa i pochi gradini e raggiunsero
di volata i genitori: “Che succede, papà? Cos’è quell’acqua?”,
nemmeno il ragazzino riuscì a trattenere l’emozione, era più
grande della sorella, certo, ma di soli cinque anni. “L’alluvione.
E’ l’alluvione, e dobbiamo fare in fretta per salvare tutto il
possibile”, rispose il padre freddo e distratto, “vai in camera
tua e portaci anche Maria, adesso non potete stare qui perché io e
mamma dobbiamo sbrigarci prima che l’acqua arrivi quassù.”, “Ma
allora annegheremo tutti, papà?”, chiese angosciato il bambino,
“No, no, per la miseria! Nessuno annegherà, ma adesso andate via,
dopo veniamo a prendervi noi e ci metteremo tutti in salvo, stai
tranquillo!”.
Inarrestabile l’acqua continuò a guadagnare terreno arrivando, a
metà mattina, a sommergere di poco i pavimenti delle stanze al
primo piano; le bambine erano state confinate dai genitori nella
loro stanzetta.
Là dove, fino alla sera precedente, si erano consumati i rituali
domestici di sempre, c'era ora la devastazione più completa che
nessuna lacrima avrebbe mai più lavato via dalla memoria degli
alluvionati.
La madre si aggirava per le stanze, con occhi sbarrati di animale
braccato, non esistevano vie di fuga, il livello dell’acqua
continuava a crescere e lei era rimasta sola perché il marito era
andato alla ricerca di aiuto, insieme al figlio e a due vicini di
casa, a bordo del loro minuscolo barchino.
Non sapeva nuotare e comunque non sarebbe riuscita a portare in
salvo le figlie, era incita per giunta e ciò accrebbe a dismisura
in lei il senso tragico della situazione, inabissandola in un
vortice di paura ed angoscia.
Maria, superato lo spavento iniziale, trovava ora persino
divertente la strana situazione; quella mattina non sarebbe andata
all’asilo e la possibilità di restare a casa la rese felice;
saltellava allegra sui letti disfatti, balzando da uno all’altro,
attenta a centrare il materasso e a non ricadere sul pavimento,
sotto lo sguardo rapito della sorellina più piccola.
Mentre nella stanza delle piccole regnava il divertimento, in
cucina la madre, annichilita dalla paura e ormai rassegnata
all’idea che non ne sarebbero uscite vive, visto che nessuno
giungeva in loro soccorso, si dava alla distruzione di lettere ed
effetti personali che per anni aveva conservato per sé sola e che
non avrebbe mai lasciato cadere nelle mani di estranei.
Alla fine il marito arrivò, a bordo di un grosso gommone sul quale
caricò moglie e figlie, traendole in salvo quando ormai l’acqua
aveva raggiunto gli interruttori elettrici delle stanze al primo
piano. Trovò la donna in piedi su una sedia, l’acqua ai polpacci e
le figlie aggrappate a lei, sul terrazzo di casa ad attendere lui
o il destino.
Silna, la femmina di setter che accompagnava il padrone nelle
battute di caccia da più di due anni, si era fatta piccola
piccola, trovando rifugio in un angolo; terrorizzata se ne stava
schiacciata contro il fondo dell’imbarcazione, le orecchie
abbassate e quasi appiccicate alla testa magra, lo sguardo
sperduto, uguale a quello della padrona.
Avrebbe partorito i suoi cuccioli entro tre settimane e il bambino
le accarezzava dolcemente il nobile muso maculato.
La famigliola si mise in salvo e raggiunse, con l’automobile di
alcuni parenti, la cittadina di Caorle, dove trovò sistemazione
presso l’abitazione di Alvaro, un amico fraterno del padre.
Come loro, molti altri concittadini furono costretti a riparare
presso parenti e amici, lontano dal paese completamente sommerso.
L’acqua raggiunse i cinque metri di altezza in certi punti.
L’enormità della disgrazia rese tutti uguali, azzerando di colpo
tanti antagonismi e incancreniti dissapori personali che
scivolarono via, come d’incanto, insieme all’acqua fetida,
rientrata nell’alveo del fiume pacificato, dopo interminabili
giorni di immobile ristagno.
A Motta, come a Firenze in quegli stessi giorni, tutti aiutarono
tutti e come nella incantevole città toscana anche qui apparvero
dal nulla gli “angeli”, portando soccorso a chiunque ne avesse
avuto bisogno.
Nelle settimane precedenti l’evento, le piogge abbondanti ed il
repentino aumento del livello dei fiumi in pianura avevano
allarmato le popolazioni dell’area, ricca di corsi d’acqua
importanti e notoriamente “traditori”, nessuno tuttavia aveva
concepito un vero e proprio piano di fuga.
L’onda arrivò di colpo, preceduta da un boato che raggelò il
sangue nelle vene di coloro che l’udirono.
Era partita da qualche chilometro più in su, in terra già
friulana, dove il fiume ruppe in una località la cui
toponomastica,“Tremeacque”, sembrava recare un presagio funesto.
Quel giorno la terra parve davvero tremare, scossa con violenza
dall’urlo scaturito dalle sue profondità più remote.
Lontano, in montagna, qualche anno prima una castastrofe di
dimensioni bibliche, per numero di vittime e portata della
devastazione, aveva annullato ogni precedente memoria tragica,
condannando in eterno il fiume Vajont a rappresentare nella
memoria collettiva l’idea stessa di disastro, ad evocare per
sempre l’evento tragico del 1963.
Dalla fine del secondo conflitto mondiale erano trascorsi appena
due decenni ed era ancora vivo il ricordo del pesante tributo di
giovani vite strappate dalla guerra alle famiglie ed al futuro di
quella terra.
La provincia veneta era ancora prevalentemente rurale e povera,
una povertà antica e maledetta che si indovinava nello sguardo dei
numerosi individui macilenti incontrati per strada, miseramente
vestiti, soprattutto in campagna.
In paese era diverso, generalmente gli abitanti del centro se la
passavano meglio; commercianti, impiegati, professionisti, operai,
con una percentuale superiore di individui in carne e qualche caso
di obesità, tuttavia così raro da costituire immancabilmente il
bersaglio di una bonaria derisione.
Si incontravano ancora, frequentemente, nelle più remote contrade
e nei borghi sperduti, mendicanti che non provenivano da altre
latitudini o lontani continenti, ma erano oriundi dei paesi
limitrofi, distanti anche solo poche decine di chilometri.
Uomini e donne derelitti, nei loro abiti laceri e lisi, che, con
evidente e triste imbarazzo, chiedevano l’elemosina al passante.
Portavano spesso a tracolla una borsa consunta, nella quale
custodivano gelosamente i pochi averi: un berretto di lana per le
giornate più fredde; una roncola, piccolo coltello ricurvo a
serramanico, brítoêa nel dialetto locale, per raccogliere erbe
spontanee in primavera e sradicare la gustosa radice di topinambur
in autunno o, talvolta, sgraffignare qualcosa di più gustoso da
qualche orto incustodito; qualche straccio in cui avvolgersi per
ripararsi dal freddo pungente dell’inverno o per asciugarsi,
d’estate, dall’acqua fresca e ferruginosa delle fontane che si
incontravano numerose lungo le principali vie cittadine o
percorrendo le strade di campagna.
Nella sporta dell’accattone era sempre presente qualche tozzo di
pane raffermo, spesso ammuffito ma ugualmente conservato per i
momenti più duri, insieme alle immancabili cipolle da consumare
nel più classico degli abbinamenti gastronomici della povertà, in
quelle zone.
L’Italia stava sperimentando, dopo decenni di miseria, l’eccitante
ottimismo del boom economico che avrebbe traghettato anche il Nord
Est del Paese verso le proprie “magnifiche sorti e progressive” ma
la pellagra era stata debellata da troppo poco tempo per
costituire solo un ricordo lontano.
La spettro della fame non aveva abbandonato del tutto il cuore e
la memoria degli anziani, in talune plaghe delle aree più interne
ed isolate, nemmeno sfiorate dall’ottimismo del nascente
progresso, perciò nulla andava mai sprecato nell’economia
domestica.
Il Veneto non era comunque più soltanto la terra d’origine delle
tante balie prosperose, donne sane e robuste, cariche del prezioso
latte destinato a crescere in salute e forti i figlioli delle
famiglie ricche, nella capitale o nella metropoli lombarda.
Motta assisteva, come altrove in Italia, al fermento di tante
spontanee iniziative imprenditoriali.
Tanti figli di contadini, riottosi al giogo dell’antico padrone,
avevano tenacemente preteso di accedere almeno alla locale scuola
professionale e, appresi i segreti del tornio e della fresa,
avevano avviato una prima e spontanea fase di industrializzazione
del territorio, costruendo capannoni e piccoli stabilimenti.
I “disertori déa sapa”, disertori della zappa, come talvolta
venivano chiamati con irridente sarcasmo dagli abitanti del
centro, diedero, inconsapevolmente, l’avvio ad un radicale e
inarrestabile cambiamento della società civile.
Si andò così delineando una nuova geografia urbana, caratterizzata
sempre più spesso da una commistione fra abitazioni e capannoni,
fra le pareti domestiche e i locali dove spesso l’intera famiglia
partecipava all’attività dell’impresa.
L’alluvione del ’66, con il suo carico di devastazione e
distruzione, nel giro di poche ore ricacciò nella miseria buona
parte della popolazione, segnando una battuta d’arresto nel
processo di sviluppo dell’intero territorio.
Non mancarono purtroppo episodi di sciacallaggio, pertanto, messa
in salvo la famiglia, il padre di Maria rimase a presidiare la
casa, in attesa che l’acqua defluisse del tutto per poter
finalmente iniziare il lavoro di ripulitura dal fango e dal
catrame.
Aveva rimediato un giaciglio abbastanza asciutto e vi trascorse la
quarta notte, dall’evento, non riuscendo tuttavia a prender sonno.
La casa nuova, finita di costruire solo l’anno precedente,
completamente devastata dal fango, i pochi mobili irrecuperabili e
ridotti in macerie, la lavatrice, per la quale mancava ancora
qualche rata da pagare, irrimediabilmente danneggiata. Tenuto
desto dallo sconforto e dalla rabbia, si lasciò invadere l’anima
dal senso di sconfitta e finalmente poté piangere, a lungo, ora
che la famiglia era al sicuro, lontana da quella terribile
desolazione.
Maria aveva iniziato a frequentare l’asilo infantile solo da
alcune settimane, non si era ancora abituata al nuovo ambiente e
l’improvvisa interruzione giunse come un regalo per lei.
L’imponente ed austera sagoma dell’edificio, di proprietà della
Curia e gestito da suore, non suscitava un’impressione piacevole
nei piccoli ospiti quando vi mettevano piede per la prima volta.
Il salone centrale, dove venivano radunati ogni mattina per
l’appello, aveva un soffitto altissimo ed era chiuso su un lato da
un portale enorme in ferro battuto e smaltato, con grandi vetrate
dalle quali si poteva guardare il cortile esterno, attraversato in
senso longitudinale da due file di altissime acacie.
Tra una pianta e l’altra erano state sistemate alcune altalene e
dei dondoli sui quali i piccoli si affollavano, durante la
ricreazione, raggiungendoli puntualmente al suono della
campanella, dopo una corsa trafelata e precipitosa.
Un giro toccava sempre a tutti, nel rispetto generale di una
regola non scritta e comunemente accettata che impediva a ciascuno
di mantenere il possesso ad oltranza di un gioco.
In fondo al cortile, seminascosta da un folto canneto e da vari
altri arbusti intricati, sorgeva una piccola grotta, ad imitazione
di quella in cui la tradizione costringeva la Madre di Cristo a
partorire il Figlio la notte di Natale.
La statua della Madonna, fasciata nell’abito rosso
dell’iconografia classica e avvolta nel suo bel manto azzurro, con
il capo incoronato dall’immancabile aureola dorata, era stata
collocata dietro all’altare, piuttosto in alto rispetto all’occhio
del devoto, a disposizione del quale c’era anche un
inginocchiatoio ed una discreta ma capiente cassetta per le
offerte.
Le religiose erano aiutate nelle faccende domestiche da
un’inserviente del posto, che lavorava tutto il giorno nella
struttura e condivideva con loro la medesima abitazione.
Teresa era donna di poche parole; grossa e grassa, cucinava per
tutti, rassettava le aule e lavava in continuazione, con
macbethiano furore, scale e pavimenti, quotidianamente imbrattati
da orde di scalmanati diavoletti.
Non aveva un aspetto rassicurante, benché fosse buona in fondo e
molto più tollerante di quanto non volesse dare a vedere.
Il suo vestire sempre di nero o grigio, con ampi grembiuli che la
fasciavano e a malapena ne occultavano le abbondanti forme,
insieme alla strettissima crocchia che intrappolava le sue chiome
ingrigite, evidenziando maggiormente la mascella ferina, la
rendevano presenza inquietante.
I bambini preferivano fingere che non esistesse, come fanno con i
mostri notturni, ficcando la testa sotto le coperte.
Erano rassegnati a sostenere le sue torve occhiate e a subire le
puntuali, sonore sgridate quando proprio non avevano via di
scampo, visto che era lei l’incaricata ad accompagnarli ai
servizi, a gruppi di qualche decina ed in orari prestabiliti.
Alcuni fra loro, i più tranquilli e sornioni, trascorrevano gli
anni della scuola materna senza mai attraversare il suo orizzonte;
la sorte di Maria fu ben diversa.
La piccola infatti entrò subito in rotta di collisione con
l’anziana inserviente e, come in ogni rapporto privo di sfumature
che si rispetti, la loro relazione fu segnata dall’alternarsi
costante di momenti accettabili e situazioni critiche, fino alla
conclusione del ciclo scolastico.
La lontananza forzata dall’asilo sancì una sorta di tregua ma con
il ritorno di entrambe, a primavera, nel medesimo “recinto”, tutto
ricominciò esattamente come prima.

Maria Prosdocimo

V anno,  2008
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