Sulle tracce degli scrittori si trova su ibs

Sulle Tracce degli scrittori di Federico De Nardi, Aurelia edizioni di Asolo
fotonotizie per la stampa: Marcellino Radogna
Direttore Federico De Nardi www.abcveneto.com Martedì 1 luglio  2008
prima pagina di Abcveneto editoriale contatti archivio
Ecco il secondo capitolo del romanzo di Maria Prosdocimo: Panta Rei

Maria Prosdcimo

L’incantevole paesino sul litorale adriatico, pulsante di vita e allegro durante l’estate, appariva agli occhi di Maria e del fratello quasi disabitato e intrappolato in una sorta di incantesimo silenzioso.

La bambina trascorreva le giornate insieme alla madre e alla sorellina, facendo lunghe passeggiate sulla spiaggia che servivano a sedare la loro turbolenza e a tenerle lontane dall’irritata padrona di casa, la quale mal volentieri ne accettava la presenza sotto il proprio tetto.

Alvaro, accontentandosi di un compenso poco più che simbolico, li aveva accolti generosamente e tuttavia, non assumendosi alcuna responsabilità nel gestire la nuova situazione, aveva di fatto caricato sulle spalle della vecchia madre vedova un peso per lei imprevisto e sgradito.

La donna assistette impotente all’invasione della propria casa da parte di quattro sconosciuti, tre dei quali erano bambini troppo vivaci per i suoi gusti, che la giovane madre stentava a tenere a bada.

Gli ospiti dormivano tutti in un’unica grande camera e con la vecchia condividevano la cucina ed il bagno. I piccoli avevano la tassativa proibizione di accedere al salotto buono di casa e il loro frequente contravvenire al patto costituiva serio motivo di recriminazioni da parte della padrona di casa, che non risparmiava umiliazioni alla loro madre.

Nella stanza proibita c’erano tutte le cose più interessanti, oggetti mai visti prima, ninnoli graziosi da osservare e toccare; le due poltrone ed il divano di velluto verde, interamente ricoperti con grandi centrini di cotone preziosamente lavorati ad uncinetto. Le sedute comodissime rappresentavano una tentazione irresistibile per i ragazzini, abituati alle rigide poltrone di casa loro, fatte di duro bambù.

Sin dai primi giorni, Marta puntò la grande colonna in legno intarsiato dell’orologio a cucù. Ogni volta che riusciva ad eludere la sorveglianza degli adulti penetrava nel salotto e le si parava davanti, rimanendo estasiata ad ammirare l’oscillazione del grande pendolo di ottone, protetto dallo sportello di vetro, fino a quando la madre sopraggiungeva trafelata a riacciuffarla.

Nei mesi di permanenza a Caorle la donna seppe escogitare sempre nuovi stratagemmi per addolcire e stemperare la nostalgia dei figli per la casa paterna, afflitti soprattutto per la lontananza dall’amatissima Silna, divenuta nel frattempo madre di otto splendidi cuccioli, accudita con amorevole cura dal loro padre, fra una pulizia e l’altra della casa.

Il figlio maggiore era stato iscritto alle lezioni di catechismo tenute per i bambini residenti nel paesino di pescatori, malgrado egli non volesse saperne di frequentarle.

Dopo una iniziale e infervorata opposizione, il ragazzino sembrò finalmente cedere all’insistenza della madre e, nei pomeriggi prestabiliti, usciva di casa in perfetto orario per raggiungere la scuola con il suo bel libricino senza più fare obiezioni.

Sapere il figlio sotto l’occhio vigile di altri adulti, almeno per qualche ora a settimana, restituiva alla giovane madre un po’ di tranquillità.

Al ritorno dalle lunghe assenza pomeridiane, il ragazzino raccontava sempre qualche aneddoto simpatico o curioso, ottenendo l’effetto di tranquillizzare completamente la madre.

Il giorno che la donna decise di fare la conoscenza dell’educatrice così brava e capace di guadagnarsi l’attenzione e l’affetto di quel ragazzino allergico allo studio e agli insegnanti, dovette setacciare l’intero paese prima di ritrovarlo.

I maestri interpellati le risposero di non aver nemmeno presente la fisionomia del ragazzo, il quale probabilmente aveva smesso di frequentare la scuola già dopo le prime lezioni.

Nessuno aveva considerato l’ipotesi di contattare la famiglia perché sapevano che si trattava di gente sfollata dai luoghi dell’alluvione e avevano supposto che il piccolo fosse tornato al proprio paese.

La madre lo ritrovò al porto, a bordo di un vecchio peschereccio attraccato al molo.

Vieni subito qui!” urlò, pallida e affaticata.

Si sentì venir meno e, tenendosi con entrambe le mani la pancia già prominente per l’avanzata gravidanza, si appoggiò al muretto di mattoni rossi che correva lungo tutto il perimetro della banchina, dividendo lo specchio d’acqua dalla strada.

Il bambino guardò verso di lei, poi rivolse lo sguardo spaurito al vecchio pescatore che gli sedeva accanto, sopra una montagnola di cordame, intento a ricucire una rete. Magrissimo e curvo sul rammendo, l’uomo appariva nodoso e storto come un tralcio di vite; sul volto scavato e smunto spiccava l’enorme naso butterato, arrossato per lo sfregamento continuo contro l’indice destro della mano che egli usava per asciugare la goccia perennemente colante dalle nari. In paese lo chiamavano “Duce”, riconoscendogli un’autorevolezza superiore a quella di tutti gli altri pescatori del porto, per l’età veneranda e l’esperienza ineguagliabile.

Senza interrompere il proprio lavoro, l’uomo alzò gli occhi verso la giovane madre agitata e la invitò a scendere nella sua barca: “La monti in barca, siora, ʼso par quêa scaéta là; se lasso la rede dèsso fasso un maêán.

Il bambino le tese la mano, aiutandola a scendere nella barca, poi velocemente si divincolò e sgattaiolò via, andandosi a rifugiare accanto al vecchio.

Non arrabbiarti mamma, voglio imparare a pescare, a scuola mi prendono in giro, la maestra è antipatica...”, “Non importa! Non dovevi dirmi bugie, non dovevi disobbedirmi; è sbagliato e adesso non mi posso più fidare di te!”, rispose la donna che cominciava già a calmarsi.

Dovette sedersi perché un’improvvisa spossatezza, dopo tanta paura, le aveva tolto le forze.

So fio vien sempre da mi, siora, el me domanda in continuassion robe sul me lavoro, el ga vòja de savér tuto sul mar, no a ʼse 'na roba bruta, mi credo.”; “Certo, ha ragione anche lei”, rispose la donna, “ma sicuramente non le ha detto che mentre si trovava con lei sulla sua barca avrebbe invece dovuto essere a scuola, altrimenti lei non lo avrebbe assecondato.”

Il vecchio fissò interrogativamente il fanciullo: “Ti ga fato 'na roba do volte sbajada, toéndo in giro to mare a anca mi. Ti o capissi questo?

L’intesa fra i due adulti fu immediata, il piccolo abbassò la testa e rimase in silenzio, non sapendo trovare le parole per chiedere scusa, né tanto meno escogitare una valida giustificazione al proprio comportamento.

Quella che gli era sembrata una bella avventura segreta, di nessun danno per alcuno, di colpo gli apparve nella sua dimensione meno giocosa ed entusiasmante.

Aveva deluso due persone importanti per lui e la mamma era stata persino male. Nella sua pancia forse anche il fratellino aveva patito.

Grosse lacrime gli rigarono il viso.

Caffelatte, la mascotte della barca, un piccolo bastardo bicolore, scodinzolava allegramente, saltellando e correndo in continuazione intorno alle gambe del ragazzino, nell’eccitata attesa di una carezza ma il fanciullo, rigido come un palo per l’imbarazzo, rimase immobile, le mani ficcate nelle tasche.

L’immagine del piccolo costernato fece breccia nel tenero cuore della madre, ormai ripresasi dallo spavento. Lo attirò a sé amorevolmente: “Devi sempre dirmi dove vai! Se ti succedesse qualcosa come potrei aiutarti, se non so nemmeno dove cercarti?”

Madre e figlio risalirono sulla banchina, dopo essersi congedati dal pescatore; lo sguardo severo del vecchio si addolcì nel saluto rivolto alla donna. Il ragazzo, dopo alcuni passi, si voltò indietro, guardando in direzione dell’uomo; sotto il folto sopracciglio, l’occhio cisposo si chiuse in una strizzatina complice che lo rincuorò.

Non sarebbero mancate altre belle giornate a bordo del peschereccio.

Le bambine, nel frattempo, erano rimaste in casa, sorvegliate malvolentieri dalla vecchia che non avrebbe certo potuto rifiutare aiuto alla donna esasperata per la scomparsa del figlio e costretta ad andarlo a cercare da sola per tutto il paese.

Giunti finalmente a casa, i due udirono delle urla disumane provenire dal suo interno; la donna si attaccò al campanello dell’ingresso e pochi istanti dopo la padrona di casa le venne ad aprire, strappandosi i capelli, livida in volto, con occhi rancorosi che parevano volerla incenerire lì, sull’uscio.

Marta, che doveva aver pianto parecchio a guardarle il musetto accaldato e le orbite gonfie e arrossate, se ne stava addossata ad una parete della cucina, Maria le faceva da scudo con il suo corpicino. La maggiore aveva un’espressione rabbiosa, di animale intrappolato ma deciso a dar battaglia.

La vecchia urlò che le avevano rotto l’orologio a cucù: “'Ste do pesti le me ga fato deventare mata! Ma dèsso la me paga tuto, cara la me signora, eccome che la me paga tuto! Le ga ciapà el pendoêo par na giostra; la pícoêa lo ga tirà ʼso co tuta êa coêòna, chea mata!”

La madre sbiancò, il pensiero corse subito alla piccolina, si era forse ferita? Si era rotta qualcosa? La perlustrò tutta, controllò anche Maria, che intanto continuava a fissare con odio la vecchia esagitata.

Grazie al cielo, la bambine non s’erano fatte nulla, erano solo molto spaventate e sconvolte dalla reazione della padrona di casa più che dall’incidente stesso.

Era comunque la metà di aprile ormai, la famiglia avrebbe lasciato il detestabile alloggio di fortuna entro pochi giorni e la gioia del ritorno a casa ne avrebbe cancellato presto anche il ricordo.


Fecero ritorno nella casa ripulita e sistemata alla meglio dal padre che la primavera era ormai sbocciata; quasi niente di familiare si era salvato dall’acqua, le stanze apparivano spoglie e ancora umide, non ostante papà le avesse quotidianamente arieggiate. Negli anni che seguirono i muri continuarono inesorabilmente a trasudare umidità e ricoprirsi di muffe, rendendo il freddo delle notti invernali più penetrante e persistente, mai veramente mitigato dall’unica stufa a gasolio che, da sola, avrebbe dovuto riscaldare tutte le stanze da letto.

Praticamente inutile rispetto alla sua funzione primaria, il rumore familiare che ne usciva quando era in funzione sembrava musica dolce, quasi un ninna nanna rassicurante, sulle cui note uguali i bambini si addormentavano serenamente, stretti alla provvidenziale borsa dell’acqua calda preparata per loro dalla mamma.

La magnifica stagione primaverile, vestita delle gialle primule sulle prode dei fossi e occhieggiante di pratoline nel giardino di casa, portò a Maria un sapore nuovo e sconosciuto.

I bianchi grappoli delle acacie dell’asilo, che aveva ripreso a frequentare, spandevano il loro profumo tutt’intorno, raggiungendo anche le case vicine; la bambina imparò dai compagni che i fiori si potevano anche gustare, oltre che odorare, osservandoli mentre suggevano il dolce umore da quei cuori zuccherini.

L’entusiasmo per le dolcezze della nuova stagione si spense ben presto; le lezioni erano riprese già da alcune settimane e una calma apparente regnava nei rapporti fra la piccola e l’autorità.

La maestra, suor Maria, donna dolcissima e calma, nutriva una affetto particolare per la bambina, della quale percepiva interamente l’anima.

La proteggeva e cercava di evitarle, per quanto possibile, amarezze e prevedibili delusioni, nell’inevitabile scontro fra l’esuberanza incontenibile della piccola e il rigore della norma, l’inflessibilità della disciplina.

Il giorno in cui Maria subì la prima, vera ed esemplare punizione, impartitale dalla Madre Superiora in seguito ad un suo indifendibile e sconsiderato comportamento, consistito nel vomitare sul tavolo del refettorio, all’ora di pranzo, il pesce disgustoso che era stata costretta poco prima a mangiare, né suor Maria, né tanto meno Teresa poterono far nulla per intercedere in suo favore, benché il pallore del suo volto e un tremito che la scuoteva in tutto il corpo stesse a dimostrare inequivocabilmente l’autenticità del suo malessere.

Fu rinchiusa nel sottoscala umido e buio del grande scalone, interno al corpo centrale dell’edificio gotico, che conduceva al salone principale, utilizzato quotidianamente per l’appello e la conta degli alunni. I bambini vi giocavano spesso dopo il pranzo, fra la prima e la seconda parte della giornata scolastica.

Da dentro all’improvvisata prigione, la piccola udiva il vocio dei compagni e il chiasso allegro dei loro giochi.

Non ebbe paura, sebbene l’unica luce che illuminava un poco l’oscuro antro fosse quella che penetrava dallo spioncino del minuscolo portone di legno, attraverso il quale era stata cacciata lì dentro e che era stato chiuso a doppia mandata da una esitante Teresa.

La luce che filtrava era appena sufficiente a distinguere il profilo di qualche grossa cassa di legno e di alcune sedie accatastate contro le pareti ammuffite; sparsi ovunque vi erano attrezzi per la ginnastica, funi di varie lunghezze e materassini in gomma piuma. Maria rimase per un po’ rannicchiata a terra, accanto al portone ma ben presto la noia della situazione la spinse a curiosare fra le cianfrusaglie ammassate nell’angusto locale.

Fu allora che fece la scoperta più eccitante che le sarebbe potuta capitare: dove il soffitto spiovente finiva per congiungersi con il pavimento e il buio era assoluto, le suore avevano sistemato un grosso baule in cui riponevano periodicamente tutti i balocchi destinati al divertimento dei piccoli ma dimessi perché soppiantati da giocattoli più nuovi.

C’era di tutto: bambole di ogni genere, vecchie e nuove, bionde, brune, rosse e anche teneri bambolotti senza capelli; macchinine di latta e di legno; palle colorate di ogni dimensione; scatole intere di mattoncini della Lego e poi le trottole. Tante bellissime trottole di legno e di latta, dipinte con colori sgargianti e meravigliosi disegni.

La bimba amava sopra ogni cosa le bambole ma le trottole erano per lei una vera passione.

Comprese immediatamente che nessuno mai avrebbe dovuto conoscere il suo segreto, avrebbe fatto bene a non parlarne nemmeno con l’adorata suor Maria, se voleva riuscire a mettere le mani qualche volta ancora sull’insperato tesoro.

Fu così che l’irruenza della piccola trovò spesso, in seguito, adeguate punizioni.

La fortunata circostanza le parve essere il giusto risarcimento per la cocente delusione vissuta il primo giorno di scuola e non ancora completamente digerita.

Era accaduto infatti che fosse arrivata, accompagnata dalla mamma, in leggero ritardo rispetto a tutti gli altri bimbi, i quali avevano così già scelto il proprio personale contrassegno fra i tanti, belli e colorati preparati dalla suore. A chi andò la farfalla, a chi la casetta di marzapane di Hansel e Gretel, a chi ancora il bel trifoglio verde o il sole luminoso. Nel cesto di vimini, entro il quale le suore avevano sistemato tutti i piccoli quadratini di stoffa stampata da cucire su grembiuli e bavaglini, Maria notò subito che ne era rimasto uno solo. Afferrò il pezzetto di stoffa per guardarlo bene e non riconobbe nulla di familiare nell’oggetto riprodotto. Le spiegarono che si trattava di un’incudine, una solida e lucente incudine di ferro grigio, necessaria al lavoro del fabbro.

La piccola protestò, non le piaceva proprio; voleva la violetta, il fiore preferito, o un qualsiasi altro disegno, tutto tranne l’incudine. Già la consideravano un maschiaccio in tanti e la sua immagine avrebbe potuto essere definitivamente compromessa da quel simbolo di riconoscimento adatto ad un maschio, non certo ad una femminuccia.

Era vitale per lei dimostrare, certificare persino, in maniera inequivocabile il suo essere una bambina come tutte le altre, anche grazie ad un contrassegno gentile, femminile. Fu tutto inutile, nessuno volle scambiare il proprio contrassegno con il suo e a nulla valse la fantasiosa lettura dell’accaduto da parte della madre che cercò di consolarla sostenendo che l’incudine poteva essere un segno distintivo della sua forza e solidità di persona.

Maria mantenne il segreto del sottoscala per tutti gli anni di permanenza in quella scuola.

Poté godersi in santa pace tutto quel ben di Dio numerose volte ancora e mai nessuno seppe comprendere perché, non ostante le frequenti punizioni, la piccola reiterasse ostinatamente i medesimi comportamenti che tanto irritavano le religiose.

Gli anni dell’asilo rappresentarono l’inizio del suo percorso di formazione; in quel periodo furono gettate le basi del suo carattere tenace e risoluto, della sua personalità indipendente e coraggiosa.

La sua volontà divenne ogni giorno più forte, indistruttibile, come la materia dura dell’odiata incudine.

Niente avrebbe potuto piegarla, fiaccarla.

Ribelle alle imposizioni autoritarie, ma docile agli insegnamenti di buon senso, non cedeva di un passo di fronte a ciò che considerava un’ingiustizia, diventando al contrario arrendevole se qualcuno le regalava anche solo un sorriso o un gesto di dolcezza. Le piaceva, al massimo grado, divertire la gente, sentirsi protagonista e strappare la risata.

Sin da allora parve segnato il suo destino.

Maria Prosdocimo

V anno,  2008
str
strr
stricca
 

 

abcveneto.com