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N. 55, V anno, 2008 Mercoledì 1 ottobre  2008
 
 
 


  V capitolo di Panta Rei

Maria Prosdocimo

Alla scuola elementare Maria era giunta con un ricco bagaglio di buoni ricordi e di sicurezze affettive, perciò aveva vissuto con la massima tranquillità il passaggio al nuovo ambiente, così diverso da quello dell’asilo infantile.
L’attesa del primo giorno di prima elementare era stata elettrizzante. La maestra, Manuela, si era rivelata un vero regalo del cielo, un dono ben confezionato, bello fuori e buono dentro. Dolce, materna, avvolgente, era diventata per lei una seconda madre, pronta a rispondere a tutte le sue domande. In occasione del primo, specialissimo, giorno di scuola Maria aveva disegnato, e poi donato alla nuova maestra, una variopinta farfalla rossa e blu che dispiegando le ali occupava un foglio intero del quadernetto. Finalmente il destino le aveva offerto una possibilità di riscatto e potersi identificare con la delicata farfalla aveva rappresentato per lei la cancellazione definitiva del marchio frustrante dell’incudine.
Fra Maria e la maestra era nato un rapporto esclusivo e tenero, fatto di intesa profonda fra l’adulta e la bambina, nel quale l’ansia della piccina di compiacerla era correttamente percepita dalla donna che aveva preso ad amarla come una figlia.

Unica nota stonata in quella perfetta, prima mattinata scolastica, erano stati gli sberleffi che due fra le nuove compagne di classe, belle e biondissime, le avevano indirizzato dopo che lei, per attirare la loro attenzione, si era prodotta in uno dei suoi pezzi forti, quello che solitamente le attirava la simpatia di grandi e piccini.
Aveva imparato a fischiare come i maschi e, prima dell’inizio della lezione, le aveva richiamate a quel modo, strabuzzando e incrociando gli occhi per sembrare ridicolmente strabica. Si aspettava di vederle ridere ed era stata invece raggelata dalle loro occhiatacce sprezzanti, accompagnate da vistose linguacce. Ne era rimasta traumatizzata; cosa era potuto accadere? Perché questa volta il suo show non aveva funzionato? Come mai quelle due non avevano riso? E perché l’avevano guardata storto?
Mortificata e rabbuiatasi per il resto della mattinata, era rimasta silenziosa, lasciando che la rabbia prendesse a mano a mano, nel suo cuore, il posto dell’umiliazione.
Accade talvolta, quando le persone si lascino guidare dall’intelligenza e dalla sensibilità, che proprio chi risulta antipatico inizialmente diventi poi l’amico più fedele.
Così era stato per le tre compagne, che negli anni a seguire divennero inseparabili. Protagoniste di alterne vicissitudini ed esaltanti avventure, esse alimentarono con dedizione e quotidianamente una amicizia inossidabile.
Costanza, figlia di un’agiata famiglia, abitava in una lussuosa villa circondata da un vasto parco, poco fuori dal centro.
Emma era invece la terza dei cinque figli del mugnaio del paese; mite e docile, delle tre la più arrendevole, viveva senza frustrazione la propria timidezza, contenta di far parte dell’esclusivo trio.
Capitò loro, una volta, di avere fra le mani un giornaletto pornografico che, di nascosto, Emma aveva sottratto al fratello maggiore.
Le bambine si rifugiarono in un remoto angolo del parco della villa di Costanza, lontane da ogni possibile controllo e ne sfogliarono le pagine con crescente e morbosa curiosità, accompagnando la visione delle oscene strisce con esclamazioni di vivo stupore e risatine nervose, rosse in volto come il frutto del melograno.
Un subitaneo ed attanagliante senso di colpa le colse appena ebbero sfogliato l’ultima pagina del giornaletto.
Rimasero in silenzio, guardandosi l’un l’altra negli occhi per qualche istante, cercando di capire chi fra loro avrebbe detto qualcosa per prima, rompendo l’imbarazzante silenzio.
Parlò Costanza, con la fermezza che le era propria: “Ok! Lo abbiamo guardato, però se lo bruciamo magari sarà come se non lo avessimo mai aperto. Giusto?”
“Bruciamolo, bruciamolo!” ripeté nervosamente Maria. “E cosa faccio con mio fratello?”, chiese ansiosamente Emma, “Se non lo trova nel suo cassetto, magari se la prende con me.”
“Come fa a dare la colpa a te?”, disse Maria, “Chi glielo dice che lo hai preso tu? Non ti ha vista nessuno, basta che fai finta di niente. Sei capace? Alla fine si convincerà di averlo lasciato in giro lui stesso, dimenticato da qualche parte, chissà dove.”
Maria non aveva dubbi, all’amica sarebbe bastato opporre la massima indifferenza alle eventuali richieste del fratello per convincerlo della propria estraneità alla sparizione del giornalino. Raccolsero alcuni grossi sassi e li sistemarono in cerchio, ponendovi al centro alcuni rami secchi e, sopra questi, il giornaletto strappato in tanti pezzi.
Frattanto Costanza era entrata ed uscita dalla villa portando dei fiammiferi con i quali accesero il fuoco purificatore nel quale, in pochi istanti, divamparono le pagine lussuriose, incenerite insieme al senso di colpa delle piccole voyeures.
Era quasi sera ormai, le tre baccanti, scatenatesi in un improvvisato rituale esorcistico accompagnato dal grido di “Diavole malvage!” rivolto alla figure femminili del giornaletto, ballarono in cerchio finché la fiamma non si consumò del tutto, disegnando fugaci volute nere contro il cielo infiammato del tramonto.

Costanza aveva una singolare abilità nel risolvere, senza apparente difficoltà, qualsiasi operazione aritmetica; i numeri per lei non avevano segreti e fare in sua compagnia i compiti assegnati diventava persino piacevole.
Maria trascorreva interi pomeriggi nella bellissima villa dell’amica, sotto il vigile controllo dell’anziana governante che le piccole sapevano eludere senza che ella ne avesse mai alcun sentore.
Emma più raramente riusciva ad aggregarsi alle compagne, dovendo quotidianamente aiutare i genitori nel lavoro pomeridiano al mulino.
La ricchezza della signorile residenza della famiglia di Costanza era ogni volta oggetto di ammirazione per Maria che non poteva fare a meno di confrontarla con la modestia di casa sua, non nutrendo tuttavia alcuna invidia per la situazione privilegiata dell’amica. L’eleganza degli arredi, la ricercatezza delle suppellettili e dei tendaggi, le preziose e colorate gocce di vetro dei lampadari di Murano e i soffitti affrescati, tutto suscitava in lei stupore e meraviglia. Era la bellezza propria delle cose ad incantarla, non la ricchezza di cui le medesime erano evidente testimonianza.
Entrambe innamorate dello stesso compagno di classe, le due amiche trascorrevano ore ed ore a parlarne, formulando ipotesi e congetture, immaginando chi fra loro sarebbe mai riuscita a far breccia nel cuore di quel ragazzino così riservato e apparentemente indifferente alle femmine. Di Marco Maria s’era innamorata fin dal primo giorno della prima elementare; la passione per il compagno di scuola le faceva battere il cuore continuamente e l’aveva tenuta sveglia intere notti, a guardare sospirosa le stelle dalla finestra della sua camera, domandandosi se anche lui la stesse pensando in quel momento. Il ragazzino era per lei il più bello di tutti. Il fatto poi che parlasse senza inflessione dialettale come gli altri compagni, essendo figlio di padre romano e abituato a parlare solo nell’idioma nazionale, a scuola come fra le mura domestiche, lo rendeva ai suoi occhi estremamente affascinante. La bambina già a nove anni avvertiva un certo fastidio nel cogliere la marcata inflessione dialettale della gente del paese. La parole tronche del suo dialetto le apparivano grezze, ineleganti, ridicole.
La sua passione amorosa non fu mai corrisposta e Marco aveva avuto spesso la sensazione di essere perseguitato dall’insistenza dell’innamorata che, per restargli ancor più vicina, non esitava nemmeno a traslocare con la cartella e tutto il resto nel posto accanto al suo, ogni volta che si liberava per l’assenza del fedele compagno di banco.
Ispirata da tanto sentimento, fece la scoperta esaltante della propria vena poetica, incoraggiata dalla maestra che poi ne leggeva i componimenti ai colleghi.
Produceva in primavera soprattutto, solitamente dopo essersi seduta su un bel sasso piatto, in mezzo ad un campo fiorito, con lo sguardo rivolto al paesaggio per cercare spunti ed immagini da tradurre in versi. Non aveva preso ancora a percorrere i paesaggi della propria anima, perciò tutta la sua produzione lirica, raccolta in uno speciale e segretissimo quadernetto, cantava la bellezza di una natura che sempre la stupiva e commuoveva.
In quegli anni le madri non diventavano isteriche se i figli tornavano a casa con i vestiti sporchi e le scarpe inzaccherate, dopo un pomeriggio passato in strada. Il risultato delle sedute poetiche di Maria in mezzo al campo era sempre una grande quantità di fogli scritti a matita, traboccanti di aneliti, rime bucoliche e disegni, e un altrettanto considerevole quantità di impronte fangose sui gradini della scala che portava dritta alla cucina.
La dolce maestra, che tanto aveva spronato la poetessa in erba a cimentarsi con le scrittura, lasciò precocemente l’insegnamento, per ragioni che non furono spiegate agli alunni.
Al commiato triste e mesto Maria ebbe la sensazione che una fase della sua vita fosse ormai finita e che nulla sarebbe stato più come prima. Così avvenne, in effetti. Il periodo magico dei primi due anni di scuola elementare si chiuse con la notizia inaspettata del pensionamento anticipato della maestra, ma ad esso seguì una nuova ed entusiasmante stagione esistenziale della piccina.

Chi volesse scrivere all'autrice, può farlo a questo indirizzo di posta elettronica: casiestremi@yahoo.it

Maria Prosdocimo


 
 
 
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