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N. 54, V anno, 2008 Lunedì 1 settembre  2008
 
 
 


  IV capitolo di Panta Rei

Maria Prasdocimo

Maria era la seconda dei quattro figli di una coppia inedita e turbolenta.
Il padre, restauratore ed artista; la madre, maestra alle elementari, sperimentatrice “fai da te” di metodi innovativi di insegnamento, tanto audace da apparire a volte spregiudicata agli occhi dei colleghi.
Si erano conosciuti quando lui aveva ormai perduto ogni fiducia nel genere umano; partigiano durante la lotta di Liberazione, a soli diciannove anni aveva visto e vissuto da testimone come fosse facile, in fondo, per gli uomini smarrire il senso delle cose e spingersi oltre ogni ipotetico limite del male.
Disincantato e fondamentalmente introverso, non ostante una naturale simpatia caratteriale, era rimasto segnato irrimediabilmente dall’esperienza del campo di concentramento tedesco di Dachau, dove i fascisti lo avevano tradotto e dove i nazisti lo avevano tenuto rinchiuso fino alla fine della guerra.
Miracolosamente sopravvissuto, grazie alla forza del fisico robusto e alla fortuna mancata invece a tanti suoi compagni, aveva infine riportato a casa un corpo irriconoscibile per la magrezza e fiaccato dagli stenti, al punto che nemmeno la madre lo aveva riconosciuto subito ed era poi svenuta quando ciò accadde.
L’anima dilaniata del giovane era rimasta intrappolata fra le baracche del campo di concentramento, vagante fra il recinto di filo spinato ed il torrentello di limpidissime acque dove guizzavano le argentee trote che migliaia di prigionieri avevano guardato per l’ultima volta, attraversandolo sul delizioso ponticello di legno, prima di giungere alla camera a gas e finire poi al crematorio. Immagini impresse nella mente, annidate nel cuore dove s’erano incistate profondamente, che ritornavano puntualmente ed impietosamente a visitarlo negli incubi notturni, guastandone l’umore e negandogli la serenità.
Non esisteva alcun limite al male, in particolari situazioni, il male assoluto era solo una consolatoria spiegazione a ciò che egli aveva visto. Tutto sarebbe potuto accadere nuovamente, in ogni momento. Egli ne era profondamente convinto e la sua capacità di giudizio non avrebbe mai più potuto ignorare tale verità.
Lei era invece l’incarnazione dell’ottimismo; idealista e sognatrice, era stata sfiorata appena dalla brutalità della guerra perché troppo piccola all’epoca dei fatti e perché vissuta in una località relativamente sicura rispetto ad altre più colpite dagli eventi.
Alcune circostanze legate alla lotta fra partigiani e fascisti locali ebbero un ruolo nella sorte di suo padre, suicidatosi qualche anno dopo la fine del conflitto, ma non ostante una infanzia segnata dalla tragedia familiare lei non cessò mai di alimentare in sé stessa la fiducia nelle possibilità del bene.
Quando incontrò l’uomo della sua vita ne intravide l’abisso di disperazione ed il suo cuore intatto lo abbracciò senza esitazioni.
L’atmosfera in casa di Maria non assomigliava a quella che la piccola ritrovava nei bei film della domenica pomeriggio, proiettati all’oratorio parrocchiale dove, almeno per qualche ora, poteva dimenticare le tensioni familiari e fantasticare liberamente, immaginando di essere lei stessa l’eroina di situazioni avventurose e divertenti, romantiche o comiche. Nel corridoio principale dell’edificio troneggiava un grosso distributore automatico di bibite fresche in piccole bottiglie di vetro spesso.
La scelta era limitata a due tipi di bevanda, la mitica Fanta al gusto frizzante di arancia e la gettonatissima Coca-Cola.
Maria e Marta, così diverse in tutto, anche in questo caso avevano gusti differenti; la prima esitava ogni volta ma finiva sempre per optare per l’aranciata, dato che la paghetta settimanale era appena sufficiente per il biglietto del cinematografo e per un’unica bibita. La più piccola invece non aveva mai dubbi circa la propria preferenza per la bevanda d’Oltreoceano, che gustava beatamente senza rammaricarsi per l’aranciata mancata, tanto una sorsata dalla bottiglietta di Maria l’avrebbe sempre scroccata.
Le sorelle andavano al cinematografo quasi tutte le domeniche pomeriggio e lì incontravano i compagni di scuola.
La maggiore, molto protettiva nei confronti della piccola, era meno sicura di sé di quanto non fosse l’altra.
Differivano in tutto, sebbene molti fossero tratti in inganno dalla loro grande somiglianza fisica, sottolineata anche dall’abbigliamento spesso identico per entrambe, fatto confezionare alla sarta con scampoli di stoffa avuti in regalo o acquistati a poco prezzo dalla loro madre.
La Neno, una vecchia canuta e taciturna che aveva trascorso quasi tutta la vita nel suo piccolo laboratorio sartoriale, ricavato in un angolo del salotto di casa, maneggiava con grande maestria cartamodelli e tessuti, muovendo le piccole dita nodose e rattrappite per l’artrosi fra spagnolette di filati colorati e forbici di ogni genere. Laboriosa e perennemente china sulle sue creazioni appariva alle bambine come una grossa formica lavoratrice travestita da essere umano, con tanto di cuffietta di bianco cotone.
La sua casa distava pochi metri dalla loro ed esse si divertivano sempre molto durante le prove per un nuovo abito.

Chi volesse scrivere all'autrice, può farlo a questo indirizzo di posta elettronica: casiestremi@yahoo.it

Maria Prosdocimo



 
 
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