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numero 1 anno primo - 1 aprile 2004 giornale a 30 giorni , online e gratuito

Sottoterra

di Massimo Pellegrin

Con il secondo numero
pubblichiamo un racconto breve
di un autore veneto: Massimo Pellegrin

Quando andavo sottoterra mi si liberava la mente e andavo altrove, ed era strano stare appesi ondeggiando a cinquanta, cento metri nel vuoto con intorno soltanto buio e una vaga parvenza di materia, se non altro per lo stillicidio incessante e l'inusuale, improbabile riverbero dei suoni, così attutiti e ovattati che pareva quasi di poter poggiare i piedi sul tufo o sulla spugna secca. L'odore sottoterra non sa di marcio, sa di acqua e di vento misti a fango; per questo mi piaceva fermarmi a mezza salita per respirare quello strano sapore che mi entrava nei polmoni ghiacciandomi la gola.
Io ci andavo, sottoterra, per motivi che possono stare a metà tra la noia, la paura e la fatica. Niente di speciale, qualcosa di diverso, tutto qui. A raccontarlo alla gente pareva chissà quale impresa, ma in fondo tutte le cose che si conoscono sono familiari e pare tutto scontato. Se mi mettessero in mano una piccozza e un paio di ramponi sotto gli scarponi e mi dicessero "il ghiacciaio è lì, accomodati" darei di matto. Non amo il rischio, al limite solo quello calcolato; può sfilarsi uno spit dalla roccia, certo, può cedere la corda, l'imbrago, la ferramenta o cadermi in testa chissà cosa, ma in fondo è molto meno rischioso andare sottoterra che per autostrade in agosto. La precarietà sensoriale della grotta, mi piaceva. In quei posti il buio che ti trovi addosso è spesso, pesante, e la luce che ti porti in testa basta appena a vedere qualche metro più in là; basta che ti trovi in una sala per renderti conto che sei in un luogo che non vedrai mai com'è. Ma in fondo va bene così, senza buio sottoterra è meglio non andarci. Non amo le cavità turistiche. E' come leggere la parafrasi di una poesia. Capisci, intendi, ma non ti senti soddisfatto come vorresti. La poesia va avvicinata e intuita per come è... Sottoterra non c'è luce, e su questo siamo tutti d'accordo. Ma quello è il meno. Mancano spesso riferimenti precisi su distanze, profondità, appoggi, appigli, diametri, percorrenze; sottoterra il trascorrere del tempo ricorda le maree nella Baia di Fundy.
Sottoterra è un libro da cercare, sottoterra è un suono sordo da ascoltare in silenzio, sottoterra è fatica e schianto di ossa, fretta e rilassatezza, fango e meraviglia, sottoterra è un sacco di cose che si capiscono standoci, non parlandone.
***
L'ultima volta ci sono stato diciotto mesi fa. Era un'uscita notturna, una escursione impegnativa ma tutto sommato collaudata. Trenta metri di scalette, cinquanta di corda, altri cinquanta appollaiati sulla sommità di un meandro contorto come un quadro di Dalì, altri quaranta fino ad un modesto salone, trenta in discesa libera e infine altri buoni ottantacinque contro parete; ed ecco raggiunta la meta: un ambiente estremamente ampio (la base di un enorme pozzo), moderatamente ventilato e non troppo umido, per quanto si possa definire non troppo umida una cavità con sopra una montagna imbottita di neve in disgelo…
***
Siamo in tre: io, mia moglie Patrizia e Serse, un caro amico di vecchia data con il quale condivido da molti anni la passione per la speleologia. Loro si sono tranquillamente distesi su del terreno ghiaioso e morbido, assorti e muti; per quanto la grotta non consenta, specialmente raggiunti certi livelli e certe profondità, comodità di nessun genere, loro si sono trovati un bel posticino che gli permetterà di riprendere le forze per la risalita. Ma forse per loro tutto sommato le difficoltà non saranno poi così insormontabili.
Il bello di andare sottoterra e che poi devi risalire. Tutto il contrario della montagna. In montagna esistono altre difficoltà, certo, ma esiste una fondamentale differenza: in vetta esiste un cielo, un panorama, un uccello, un cespuglio, la neve; la grotta invece non dispensa gratificazioni particolari, non nel senso comune almeno: è un ambiente potenzialmente ostile, non pericoloso ma assolutamente estraneo ad ogni altra esperienza che normalmente un individuo vive; e la rogna è che una volta scesi non puoi aspettare che ti venga a pigliare un amico in auto o passare la notte in un bivacco o attaccarti ad una funivia: devi risalire. E se anche bivacchi per due giorni sottoterra, alla fine devi comunque risalire. In un certo senso si è sempre soli e forse più che in altre discipline 'sportive' (per quanto infilarsi tra le fessure di una montagna non possa essere considerato un vero e proprio sport…) la solitudine della fatica si manifesta quasi drammaticamente, specialmente dopo dieci, quindici ore di permanenza. Un maratoneta può fermarsi: uno speleologo no. E il peso del buio può rivelarsi talvolta maggiore di qualunque altro fardello.
***
Sto pensando a tutte queste cose mentre osservo l'immobilità dei miei due compagni. Guardo Patrizia, il volto annegato nell'ombra della fiammella che ondeggia tremula sopra il suo caschetto. Anche nella penombra quasi funerea di questo enorme buco scorgo i lineamenti quasi perfetti del suo viso; una piccola ciocca di capelli scuri adorna il suo profilo rendendolo quasi più snello di quanto già non sia. In tutti questi anni mi sono a più riprese chiesto inconsciamente (solo ora me ne rendo razionalmente conto) di come una donna così bella anteponesse un fine settimana sottoterra a un pomeriggio al cinema, ad una spiaggia d'agosto o ad una gita tra amici. Mi era subito piaciuta per la naturalezza che esprimeva ogni suo gesto, ogni sua parola; era naturalmente immune a mode, tendenze, altrui opinioni, alla politica e alla polemica sterile. Decisi che sarebbe stata mia moglie. Chiudendo appena gli occhi potevo rivedere, esattamente come se accadesse in quel preciso istante, il primo appuntamento, il primo bacio, la prima notte… Erano passati sette anni, tre dei quali, gli ultimi, come marito e moglie. Un matrimonio che forse mi aveva deluso nelle attese, ma che a ben guardarsi intorno era il migliore tra le decine, centinaia di altri matrimoni con i quali ci eravamo silenziosamente confrontati. I figli sarebbero arrivati, certo, e forse avrebbero costituito un elemento di confortante novità, una versione rivisitata e corretta del nostro rapporto. Non ne parlavamo, ma in fondo era la segreta speranza di entrambi. Patrizia è immobile; anche imbragata di tutto punto conserva intatta la sua femminilità minuta ma gradevole. Fu Serse a presentarci e a contagiarmi con il vizio delle grotte. Loro due si erano conosciuti in Sardegna, in una escursione alla Grotta del Bue Marino anni prima. Ho sempre avuto una sincera ammirazione per lui, anche se in passato (e talvolta ancora oggi) non mancava occasione per rendersi antipatico. "La lingua taglia più della lama" soleva dire un tempo, e diceva il vero. Io contro la lama ho rimedi, ma purtroppo contro la lingua soccombo facilmente; un buon parlatore che porti con vigore le sue ragioni e le esponga con vibrata passione può avere ragione di me in qualunque discussione. Lo apprezzavo in fondo per quel suo modo autoritario di porsi, che senz'altro lo rendeva odioso agli occhi dei colleghi di lavoro e che nei rapporti sociali non lo agevolava di certo. Dopo i primi mesi con Patrizia ci eravamo persi di vista e avevo temuto di averlo involontariamente allontanato, perso com'ero tra fugaci appuntamenti e fine settimana in piccoli alberghi a due stelle a far l'amore senza sosta. Io e Patrizia cominciammo a frequentarci a settembre: lui lo rividi per la prima volta l'aprile dell'anno dopo. Fu lei ad insistere, disse che si sentiva in colpa per essersi intromessa così improvvisamente tra la nostra amicizia, che io e lei soli saremmo invecchiati abbandonati dagli amici, che sentiva il bisogno di fare qualcosa di nuovo ed espresse il desiderio di uscire insieme con lui qualche volta. Fu così che riprendemmo a vederci.
E così, eccoci qui, dentro le viscere di nostra madre terra, dispensatrice di vita, dispensatrice di morte…
Serse è accovacciato a fianco di Patrizia, steso sul fianco destro, il braccio sinistro cade innaturalmente dietro la schiena, sembra abbandonato ad un sonno profondo. Avrà un bell'imprecare, appena sveglio, per il dolore che gli causerà quella strana posizione. Anche la testa è stranamente piegata, solo il bordo del caschetto la sostiene.
Mi levo in piedi e mi scrollo di dosso le gocce d'acqua che piovono dalla cima di questo mostruoso pozzo e che a tratti spengono la fiammella del mio caschetto. Il fiato esce voluttuoso dalla mia bocca e mi avvolge in una nuvola di condensa, anche la tuta fuma lentamente, è il normale calore del corpo a provocare questo curioso effetto. Volgo lo sguardo sopra di me, verso l'imboccatura del mostro, celata da un buio impenetrabile, nemmeno la luce elettrica del caschetto vi arriva e si perde come un'eco in un ghiacciaio; mi sfilo il guanto di gomma e sbircio l'orologio: le otto meno venti del mattino. Gli altri del gruppo hanno preferito partire sei ore dopo, con la luce, arriveranno verso le due se tutto fila liscio. Ecco il vantaggio delle uscite notturne: torni con calma, senza dover affrettare la risalita per ficcarti a letto per essere al lavoro fresco e riposato la mattina successiva. Quando il resto del gruppo comincerà la risalita io me ne starò già a casa.
***
Chiamo Patrizia, chiamo Serse, è il momento di risalire. Nessuna risposta. No, da Patrizia sembra provenire adesso uno strano rantolo, quasi soffocato da un sordo gorgoglio. Serse invece è muto, immobile, nessuna condensa pare uscire dalla sua bocca, nessun vapore emana dalla sua tuta. Mi avvicino ai miei due compagni e li illumino con la mia lampada: è tutto normale. Serse non può rispondere, ha il collo spezzato e un filo di bava esce dalla sua bocca fino a congiungersi a terra, fosse quasi le tela di un ragno; gli occhi sono ancora aperti, spalancati come un otturatore arrugginito che gli conferiscono un aspetto quasi infantile.
"Ferisci quanto vuoi, adesso, pezzo di merda…." penso tra me, e volgo la luce verso Patrizia. Parte del suo volto è imbrattato di sangue e terra; non riesce a muoversi, ha entrambe le gambe spezzate e probabilmente ha delle lesioni molto gravi alla colonna vertebrale. Non credo che soffra. Mi avvicino fino a sfiorarle il viso e i suoi occhi mi fissano con terrore e odio insieme; dalla bocca escono piccole bolle d'aria che spostano fiaccamente il sangue che esce copioso e che le impedisce di parlare. Me li sono lavorati proprio bene.
Certo ha capito che so tutto di loro due. Ha pure capito che è stata la nostra cara vicina impicciona a tradirli. La guardo e sorrido; poi accenno quasi ammiccando ad un cumulo di massi pericolanti lì vicino. Capisce a cerca di reagire, ma è inutile, non può muoversi. Ha capito che sta per accadere una tremenda disgrazia dalla quale uscirò vivo soltanto io.
- Ora ti lascio, amore - le sussurro sorridendo all'orecchio - vado a chiamare i soccorsi. E' una fortuna che la frana mi abbia risparmiato…
***
I soccorritori hanno impiegato diverse ore per riesumare i corpi straziati dei due sfortunati speleologi. La notizia della disgrazia ha fatto il giro delle televisioni e dei giornali. Io ho voluto restare fino alla fine, seppur distrutto dal dolore, da buon marito e amico. E' notte ormai e non sono riuscito a rientrare a casa per cena. Fortunatamente per domani ho la scusa buona per saltare il lavoro. Il buio della notte, azzurra e limpidissima anche senza luna, mi guida ora verso l'auto. Lo sferragliare dell'attrezzatura rompe il silenzio del bosco e si perde tra la miriadi di pietre bianchissime affioranti dal muschio, come tante lapidi di un cimitero abbandonato ormai anche dei morti. Dopo mezz'ora di marcia forzata raggiungo la macchina. Butto a terra imbrago, corda, fango e moschettoni, mi sfilo guanti, stivali, tuta e sottotuta e mi riassetto per tornare ad essere una normale persona accettata dall'umano consorzio.Non ho più rimesso piede sottoterra.

 

 

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