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numero 3, anno primo - 1 giugno 2004 giornale online gratuito (a 30 giorni)
Pioggia vuota

arrivate alla fine...è un racconto con finale 'Gotico'

di Massimo Pellegrin

Piove. Da settimane ormai.
Il sole.
L'uomo nell'automobile si chiede, con ottusa ironia, se riuscirà a rivedere il sole. Sul parabrezza, sulla croce di Esculapio scivola la pioggia.
Certo che lo rivedrà, quel dannato sole giallo del quale ormai ha quasi dimenticato la forma. L'uomo sta fumando. Aspira l'ultima boccata e schiaccia nel posacenere il filtro ingiallito di nicotina.
Buio.
In inverno il buio ti scivola nel collo che neanche te lo aspetti, quando il giorno all'improvviso marcisce e muore; ad un tratto il cielo diventa scuro e pesante e si schianta sulla terra come un'onda sugli scogli, sommerge tutto quello che sta sotto e quasi ti schizza gli occhi come inchiostro di china.
L'uomo pensa al mare di novembre, alla sabbia punteggiata dalle gocce di pioggia, alla rada sterpaglia mossa dal vento, alle bottiglie di plastica sepolte dal ciarpame e ai galleggianti rossi delle reti da pesca. Pensa al vento di novembre in riva al mare e lo immagina dentro i suoi polmoni come fumo gelato. L'aria del mare in inverno è grigia. In estate invece è verde brillante, in autunno ocra e in primavera tende all'indaco, ma in inverno è grigia come la periferia delle grandi città o le domeniche pomeriggio con la nebbia. Poche automobili sulla strada.
La strada.
Sembra quasi un torrente in piena con tutta quest'acqua. Di tanto in tanto da qualche curva o da una laterale sbucano due fari, si avvicinano lentamente, incrociano l'auto strombazzando senza ritegno e scivolano via friggendo sull'asfalto brulicante. È un pezzo di strada infame, questo. Poco illuminato, poco frequentato, poco abitato. L'uomo procede a bassa velocità, a questo regime di giri il motore è molto silenzioso. Ha bisogno di silenzio. Deve ascoltare.
Ascolta.
E non ascolta la musica che trasmettono alla radio, né un notiziario sul traffico o le previsioni meteorologiche per le prossime ore. La radio è spenta.
Ascolta.
Fuori la pioggia sta aumentando d'intensità e la macchina rallenta ancora, sempre di più, perché l'uomo deve ascoltare, attentamente, il suono che ogni singola goccia di pioggia produce sfracellandosi sul parabrezza. Ascolta il rumore di ogni singolo spruzzo, di ogni rigagnolo che drappeggia agitandosi frenetico sui finestrini laterali. Ascolta il rumore dell'acqua che si incanala rabbiosa lungo le scolpiture dei pneumatici e ne esce vaporizzata in milioni di parti, ognuna con il suo percorso, la sua direzione e il suo grido rauco dissolto all'interno del parafango. L'uomo ascolta attento, e pensa. Pensa alla follia. La follia, dice tra sé, deve essere simile al voler capire ognuna di queste piccole gocce d'acqua, a volerne conoscere la storia, l'origine, la destinazione... L'auto procede lentamente, adesso è impegnata in una serie di curve mal segnalate e alcuni dei pochi lampioni che di tanto in tanto emergono improvvisi dall'oscurità, ai margini della strada, non funzionano. Ma non c'è nessun pericolo, l'uomo guida con prudenza, tra poco sarà a casa, si infilerà nel letto e proverà a dormire.
Dormire.
Sono venti ore che l'uomo non dorme. O forse ventimila, che importa? L'uomo pensa alla sua casa. La pioggia e la casa, tutte cose incomprensibili per le persone comuni.
I pazzi.
Quelli sì comprendono, quelli sì capiscono ogni singola goccia di pioggia che esplode di fango nelle pozzanghere dei campi, dentro i fiumi della pianura o nei torrenti su, in montagna, conoscono in ogni momento la sua direzione, il suo peso e la sua forma, la sua minuscola superficie che si agita frenetica nell'aria mentre precipita giù come una meteora impazzita. Di tutte le gocce conoscono origine e provenienza, perché tutto ha un'origine e, trovata quella, di qualsiasi cosa intuiscono la destinazione.
Buio.
Ormai è quasi buio pesto. L'uomo pensa all'ultimo giorno di sole che ha visto. Ricorda aria lieve, il cielo di aria e uno stormo di uccelli, forse rondini, che d'un tratto sgorgano dai rami di un albero, tutte insieme, tutte verso la stessa direzione. Non una che devii, non una che vada dalla parte opposta: proprio come le gocce di pioggia che stasera stanno cadendo ovunque. L'auto rallenta sempre di più, l'uomo deve ascoltare... Il motore ormai è soltanto un'interferenza che diventa ogni secondo sempre più molesta e insopportabile. Il buio ormai è completo, ma ora i lampioni funzionano tutti, la strada si distingue chiaramente e tra pochi minuti raggiungerà la casa. La sua casa.
Vuota.
Come una lattina vuota. L'uomo ad un tratto ha paura. La casa è vuota, pensa tra sé, la casa è vuota. L'angoscia comincia ad avvolgerlo nel suo sudario viscoso; inizia dalle gambe, sale lungo il busto e repentina arriva alle tempie che cominciano a pulsare convulsamente come un cuore senza controllo. Nausea. Crampi allo stomaco. Il sudore comincia a gocciolare dalla fronte, adesso anche le mani sudano e imbrattano il volante, gli occhi bruciano, la pelle rabbrividisce. Febbre? L'uomo non potrebbe stare meglio, non può essere febbre, un dottore che non sappia diagnosticarsi un po' di febbre è meglio che cambi mestiere. Allora pensa alle gocce d'acqua che stanno affogando la campagna intorno e pare calmarsi. E dentro la sua testa cominciano a scorrere a ritmo vertiginoso le immagini delle ultime ore passate in ospedale, fotogramma dopo fotogramma, e senza alcun ordine si accavallano odori, rumori e sensazioni in un'informe, tormentata accozzaglia.
L'automobile ha ripreso velocità adesso e fila sull'acqua che pare una slitta sul ghiaccio. Mancano un paio di chilometri a casa. La notte in genere si veste di un blu netto e sottile, ma questa notte è nera, tumefatta, è un cielo emaciato, un'enorme metastasi sospesa.
L'automobile arriva davanti alla casa, si ferma, l'uomo scende e aprendo il cancello osserva curioso i fari, che nel tragitto dall'ospedale sono sempre stati spenti. Non se ne stupisce. Nelle condizioni in cui si trova, questo particolare è soltanto un dettaglio che sta già dimenticando, anzi, lo ha già dimenticato mentre richiude il cancello dietro di sé.

Non è semplice il lavoro di medico, specie se alle prime armi e durante i fine settimana, nel pronto soccorso di un capoluogo di provincia. All'inizio, i corridoi ricoperti di piastrelle lucide, di quel verde biancastro che ricorda la pazzia o l'emicrania, rendono irreale il solo camminarci in mezzo ma poi, con il tempo, diventa tutto talmente scontato che anche la visione del corpo smontato di un poveraccio, magari strizzato da un'auto come una spugna di carne, diventa usuale. Ad una certa ora cominciano ad arrivare, puntuali come le bollette; alcuni infilano discreti il corridoio che porta all'obitorio, alcuni più frettolosi si ficcano in sala operatoria per due rammendi. Eppure stranamente non era accaduto niente di speciale quella notte; non sembrava nemmeno la notte di sabato. Poi ad un certo punto la radio gracchia, ne sta arrivando uno. Sirene, fate presto, largo. Incidente stradale. Cinque minuti prima della fine del doppio turno, che rogna pensa l'uomo. Era arrivato il cadavere di una persona ancora non identificata, nemmeno si capiva se fosse uomo o donna. Un bilico aveva maciullato buona parte di quel povero corpo e l'identificazione era in corso; non s'erano trovati documenti o altro in quel che restava dei vestiti e l'auto era talmente fracassata che nemmeno la targa era ancora saltata fuori. Solo un braccio ossuto sporgeva dal lenzuolo chiazzato qua e là da ampie ombre scure.
L'uomo si avvicina e scorge una mezzaluna che brilla da una delle dita di quella mano, anche se ricoperta da una spessa crosta di coagulo. Splende sinistra alla luce dei neon pallidi come una minuscola falce, l'uomo gli si avvicina stregato e improvvisamente un guizzo di terrore gli mozza il fiato.

L'uomo è entrato in casa. La casa è vuota; e come potrebbe essere diversamente? Vaga per le stanze spettrali e immobili, illuminate solo dai lampioni sulla strada. E' una luce metallica, tagliente, vetrosa, che disegna sui muri le ombre rarefatte di tende e infissi. L'uomo pesca da un tavolo in penombra una piccola cornice dolcemente inclinata. Vi è raffigurata una donna di cui intravede appena i contorni; eppure per lui è così chiara…
Piange. E ricorda. Ricorda le prime sedute. Lei psichiatra, lui dottore-paziente, vacillante e incerto sull'estremo limite di una crisi depressiva che lo stava soffocando lentamente, giorno dopo giorno, come un cancro nascosto. Se da quello sconfinato supplizio era riuscito infine ad allontanarsi, di certo non era grato alla scienza medica. Era stato l'esile tocco della mano di lei sulla sua fronte sudata, durante l'ultimo colloquio, ad allontanare, anche se di poco, tutto quello smisurato male. Avevano cominciato a vedersi, dopo quell'ultima seduta, stupiti loro stessi di quella improbabile, inattesa frequentazione. Poi il primo bacio, la prima notte, il si sull'altare… La condivisione di quel dolore l'aveva reso all'inizio sopportabile, ma era stato solo grazie a lei, alla sua tollerante indulgenza e alla sua silenziosa ma tenace sopportazione che era stato del tutto respinto. Insieme. L'uomo lo sapeva, come sapeva che adesso quell'enorme abisso nero e ostile, così lontano nel tempo e nello spazio della memoria, si era all'improvviso riaperto sotto i suoi piedi. Ed era, malauguratamente, una voragine senza bordo, confine o appiglio. L'uomo stava cadendo. Nessuno a trattenerlo, nessuno ad asciugare la sua fronte.
Nessuno.
L'uomo adesso rovista in un cassetto, ne estrae una chiave e si avvicina ad un mobile. Un rumore metallico incrina il buio, una catena forse. Poi altri rumori, altro armeggiare. L'uomo si dirige in corridoio e si accovaccia contro il muro, illuminato solo per metà dalle luci della strada che filtrano spettrali dal variopinto vetro dell'uscio. Poi infila in bocca la canna di un fucile. Sembra comico, in quella posizione.

L'uomo ha toccato la mano. E' raschiata a fondo, il biancore di un osso risalta contro il sangue nero tutto intorno. L'uomo guarda l'anello che, inclinato, ha smesso di brillare. L'uomo lo guarda attentamente sbarrando gli occhi e soffoca un urlo mentre si allontana dalla barella incespicando, lo sguardo fisso su quella mano. Lui lo sa di chi è quel corpo. Dio se lo sa. È sua moglie.

In casa sta suonando il telefono. Primo squillo. L'uomo non sente. Secondo squillo. L'uomo non risponde. Terzo squillo. L'uomo sta premendo il grilletto. Quarto squillo. "Non sono in casa, lasciate un messaggio dopo il...". L'uomo preme il grilletto. La fiammata che gli squarcia prima il palato e poi la nuca imbratta con malagrazia il muro pallido con una raschiata rossa e grumosa. Poi l'uomo muore e i fumi dello sparo si dissolvono lentamente dal cranio spaccato come da un petardo appena esploso.

<<…segnale acustico. Biiip. Amore sono io, non ci crederai ma… non so come dirtelo, non arrabbiarti ok? Insomma… mi hanno vuotato l'armadietto in palestra e mi hanno rubato tutto, gli anelli, il cellulare e anche le chiavi della macchina. Anche l'anello che avevi fatto fare apposta per me. Il nostro anello…Mi dispiace tanto…Puoi venirmi a prendere? Perché hai spento il cellulare? Ti prego, non essere arrabbiato…non ho potuto chiamare prima. Ti amo.>>

di Massimo Pellegrin

 

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