abcveneto.com, mensile on line su veneto e dintorni  
scrivi a info@abcveneto.com ¬
numero 4, anno primo - 1 luglio 2004 giornale online gratuito (a 30 giorni)
Treviso-Veneto-turismo-attualità-cultura-spettacolo-soldi-ambiente- e... tutto quello che ci viene in mente
Vodun

Esempio di racconto polifonico

di Massimo Pellegrin

   
  ©web-theft

>>Play.

La madre di Diego veniva dal Brasile e apparteneva alla casta dei caplatas o bokors, streghe e stregoni della cosiddetta mano sinistra del Vodun. Conduceva rituali magici che, a detta di molti, le permettevano provvisoriamente di condividere i poteri di Satana, quali la divinazione o l’invisibilità. Era maestra in tutti quei pittoreschi riti che, come un immaginario, subdolo serpente, si snodano da New Orleans fino a quasi tutto il Sud America; riti confusi e improduttivi, balordaggini come la magia nera, la stregoneria o il malocchio, dagida compresa. La dagida, la bambola voodoo da bucare con gli spilloni, era la specialità più richiesta.

In Europa o negli USA avrebbe fatto un sacco di soldi come veggente nel palinsesto di qualche televisione privata. Invece, quando Diego era meno di un bambino, era stata ammazzata su ordine di un malavitoso della zona, convinto che la concorrenza le avesse commissionato un sortilegio contro.

Il boss le era entrato in casa accompagnato da due killer e l’aveva costretta ad annullare la fattura, minacciando altrimenti di sgozzarle il figlio lì su due piedi. La donna aveva subito obbedito senza parlare, remissiva e ostile, e aveva sparso qualche strana polverina su una foto del boss mormorando parole incomprensibili. Poi aveva detto “è fatto”.

Per quanto furioso, il boss era pur sempre al cospetto di una importante santona maestra nella magia nera, conoscitrice di entità come Baka, lo spirito malefico che prende forma animale e Ogun, lo spirito della guerra e della vendetta e, dopo averla molto minacciata, aveva deciso di lasciar perdere. Fu solo per un maledetto caso che, uscendo, notò, su un ripiano ancora fumante di incenso, una dagida con le sue fattezze gonfia di spilloni.

Allora era tornato urlando verso la donna brandendo in una mano la bambola e nell’altra Diego, tenendolo stretto per il collo. L’uomo aveva gettato in terra la bambola e si era fatto levare all’istante anche quell’impiccio con qualche altra polverina e qualche altra frase indecifrabile. La donna poi si era gettata ai suoi piedi invocando pietà almeno per il figlio. Il boss, furioso, aveva fatto un cenno ad uno dei due scagnozzi che, estratta all’istante una pistola dalla giacca, aveva sparato un colpo dritto nella bocca spalancata della donna.

- Per essere sicuri - aveva detto sghignazzando al bambino. Poi se n’erano andati.

Occorre dirlo? La polizia, dopo qualche indagine frettolosa, aveva chiuso la faccenda senza aver interrogato manco un sospettato o ipotizzato un qualunque movente. E poi da quelle parti, quando di mezzo ci stavano certe faccende, anche gli sbirri tendevano a dimenticare in fretta. Non si sa mai.

Non s’era trovata nemmeno alcuna relazione tra quell’uccisione e il ritrovamento di tre cadaveri mezzi spolpati nei pressi dell’abitazione della donna. Stavano in un vicolo, addossati ad una parete. Attorno alle tre carcasse solo una grande quantità di proiettili sparati in tutte le direzioni, apparentemente senza motivo.

>>Forward.

Diego ascolta la musica sempre al buio. Mentre la ascolta ama accendere dei lumini da morto nella stanza segregata e rabbrividisce mentre sibili sinistri si insinuano nelle cavità delle sue orecchie come serpi nella tana.

La chiamano musica evocativa, satanica, demoniaca, musica per disadattati, malati di mente, per sfigati, per gente dissociata, diversa, pericolosa, musica per drogati, deviati, sbandati, nazisti. Per gentaglia, insomma.

Hell awaits.[1]

Eppure, tendendo l’orecchio a certi accordi, assorbendo un assolo di Stratocaster mentre il rullante ti scava le costole cavandoti la carne come un flagello, mentre la voce stridula e aspra rammenta il coagulo strappato da una ferita non ancora rimarginata, Diego è felice. Non esiste mondo né umanità oltre le mura di quella stanza, non esiste nemmeno l’involucro di pelle che tiene assieme il suo corpo.

È seduto al centro della stanza su una enorme poltrona sbiadita che odora di muffa e di polvere. La luce rossastra dei piccoli ceri rischiara a malapena le pareti. Sono dipinte di un blu elettrico molto levigato. Intorno solo scaffali traboccanti di cd; qualche poster dall’aspetto lacero riporta con caratteri indubitabili nomi e simboli dei suoi eroi. Molte casse, distribuite ovunque, di varie fogge e dimensioni, strepitano.

Pure f*ckin’ death.[2]

Diego fluttua senza peso, mentre una cascata di note grezze, senza gambo né foglie, lo raggela. È un soffrire analogo all’amore negato, una indizio di dolore quasi tattile. Piega il capo lentamente all’indietro mentre un lungo sussulto percorre il corpo e tutti i muscoli si contraggono all’unisono. È un piacere lontano, senza confronto, inarrivabile, niente sesso, cibo, droga o sogni che lo possano eguagliare. Potrebbe ascoltare quella musica per tutta la vita, oltre le pareti di quella stanza non c’è poi molto da apprezzare o da vedere se in quella stessa stanza esiste, ora, quella musica.

Stop.

Fine della traccia. Diego si alza e nell’oscurità quasi totale allunga con sicurezza le dita verso un punto indefinito, indecifrabile. La mano annega nel buio e ne riesce quasi subito. Fra pollice e indice, con grazia e dolcezza infinita, compare un disco. Diego si avvicina ad un mobile guizzante di led multicolori e armeggia senza esitazioni per alcuni istanti. Odia il silenzio. Poi posa delicatamente la custodia vuota del disco su un piano di vetro.

>> Forward.

Live undead.[3]

Socchiude impercettibilmente gli occhi mentre viene investito da un fragore roccioso, primigenio, e un grido putrido scava polmoni e arterie. Diego abbassa le palpebre con la noncuranza di un felino e vede se stesso, voltato di spalle. Vede solo le sue braccia nude tese verso l’alto, ricoperte di sangue e ferite. Non vede mai il suo volto. Sa di soffrire. Ma non si pente di nulla. Poi riapre gli occhi. Non capisce.

Deadly omens.[4]

Non ricorda nulla di sua madre, sono passati quasi vent’anni da allora. Non ricorda il fiotto di sangue caldo e nauseabondo esploso contro il suo viso, né conosce l’atroce fine di quei tre uomini. Solo una nebbia irreale percorsa da visioni sbiadite, voci dipinte da echi lontani e sinistri, intuizioni e inquietanti apparizioni che si susseguono nel dormiveglia ogni notte. Non capisce.

Dead embrionic cells.[5]

Sono mesi che Diego spia la ragazza da un piccolo pertugio tra lo stipite e la parete. La vede passare ogni giorno alla stessa ora, vestita nello stesso modo, con la stessa borsa da due soldi, con gli stessi capelli, la stessa andatura, lo stesso sguardo luccicante di cielo. Vede le foglie d’autunno nei suoi occhi, sente la sua pelle profumare di carne e i suoi capelli di amate.

La ragazza passa ogni giorni rasente la parete per alcuni secondi e non sa che, da quella insignificante fessura, Diego la osserva. Diego sa tutto di lei. Sa che lavora nella macelleria di Carlos, perché quando rientra alla sera odora di sangue dolce. Sa che non guadagna molti soldi perché indossa sempre lo stessa gonna e la stessa camicetta a fiori. Sa che non abita molto lontano. E ama ballare. Caviglie come le sue devono amare il ballo, pensa, e già la immagina durante il carnevale lanciata in un frenetico coyongo.

Per tutta l’estate e l’intero autunno Diego l’ha osservata rapito dalla sua bellezza. Si chiede per quale motivo un tale incanto possa esistere al di fuori della sua stanza. È un dubbio vago, non obbligato, è più curiosità che altro. O forse no.

Diego lavora solo di notte. Ruba macchine. All’inizio era in società con un amico, ma ai narcos queste faccende private non piacciono. Una sera, all’uscita di un night, quattro tizi li avevano fermati e avevano chiesto chi dei due era più in gamba. Manuel, il socio, si era dipinto a forza un sorriso in faccia.

- Lui è il vero artista. Io faccio solo il palo – aveva detto. Forse sperava di cavarsela.

Li avevano subito afferrati per un braccio, cacciati in una Mercedes marrone e portati in un barrio della periferia. Li avevano fatti scendere, avevano pigliato Manuel e l’avevano fatto inginocchiare. Poi uno dei quattro aveva tirato fuori un coltello a lì l’aveva sgozzato tenendolo per i capelli. Poi, prima che crepasse, gli aveva tagliato i testicoli e, ridendo, glieli aveva ficcati in bocca a forza.

- L’unica cosa di cui voialtri cavrones potete vivere qui a Medellin sono i vostri coglioni – aveva poi detto calmo rivolto a Diego. Da oggi tu lavori per Pablo Escobar se ci tieni ai tuoi, di coglioni. Cento dollari americani a macchina. Da solo, senza soci, senza palo. Esta bien?

Certo che andava bene. Diego aveva capito, eccome se aveva capito. Ricordava esattamente quel che era successo a Luis Alfredo Zea pochi mesi prima. L’avevano ammazzato tre volte.

La prima in mezzo alla strada con ventotto pallottole, una per ogni suo anno di vita.

La seconda durante la veglia funebre nella casa del padre, quando un gruppo di pistoleri aveva fatto irruzione nella stanza e aveva crivellato nuovamente il cadavere con tale intensità che, agitato da piccoli tremori sincopati, sembrava sul punto di rianimarsi. Poi avevano salutato e se ne erano andati senza fretta.

La terza durante il corteo funebre: un’auto di traverso aveva bloccato la processione e due motociclisti apparsi all’improvviso avevano sforacchiato completamente la bara con i mitra mentre la gente e il prete fuggivano atterriti. Finì che lo seppellirono di nascosto qualche giorno dopo, con il buio, in un cimitero fuori città, senza cerimonie e senza preghiere.

Ma Luis Alfredo Zea se l’era cercata. Si diceva che facesse il killer per conto di un gruppo di narcotrafficanti e che avesse deciso di mettersi in proprio con una sua gang. Si, se l’era proprio cercata.

Da quella sera invece Diego non aveva più sgarrato e un po’ alla volta, nonostante i suoi pochi anni, si era guadagnato una certa considerazione anche dai vecchi, quegli stessi vecchi che avevano sgozzato Manuel come un porco davanti ai suoi occhi.

Stop.

Ma che ore sono?

Dalle fessure sta gocciolando ancora della luce, ma è rossa, tiepida, terrosa, è il tramonto. Il tramonto è il momento della giornata che Diego preferisce. Significa che tra poco, di ritorno dalla macelleria, la ragazza sfilerà a pochi centimetri dal suo volto celato, lasciando dietro di sé, come sempre, la scia dolciastra del sangue fresco. Dovrebbe passare a momenti. Dovrebbe essere già passata. Dovrebbe averla già vista.

Perché non la vede?

Diego decide di uscire e il cuore gli batte forte perché ha timore di incontrarla. Si chiede se avrà il coraggio di parlarle. Forse, per oggi, basterà guardarla negli occhi. La ragazza ha occhi grandi, orientali, intarsiati nel legno pregiato, quello scuro, brunito, lucente. Si, la guarderà negli occhi. Per oggi basterà.

Si incammina verso la macelleria di Carlos quando vede alcune persone disposte a cerchio che fissano la strada. Borbottano per lo più, qualcuno strilla. Sirene. Polizia. Ambulanza. Stanno tutti guardando una ragazza stesa a terra come disciolta. Ha i vestiti laceri e sangue sul viso, sulle ginocchia e sui gomiti. Odora di sangue fresco. Il suo. Diego ascolta la gente. Qualcuno dice che l’hanno sentita gridare aiuto poco prima mentre la caricavano su una Mercedes marrone, e che la stessa Mercedes è ripassata di là mezz’ora dopo gettandola sull’asfalto. Avrà fatto cento all’ora, dicono. Ma nessuno ha visto. Nessuno sa chi è stato. Nessuno lo sa mai. Mai nessuno. Mai.

Diego non parla. Si china e passa una mano leggera tra i capelli ondulati della ragazza. Sono neri e si avvinghiano alle dita come se fossero vivi. Sul volto della ragazza nessuna espressione. Mai più foglie d’autunno negli occhi, mai più balli per le sue caviglie, mai più lavoro alla macelleria. Per un po’ dovrai arrangiarti da solo, Carlos.

Poi un poliziotto lo strattona e lo allontana sbraitando.

Diego è tornato nella sua stanza, una stanza ben diversa dalla sterminata sequela di favelas che si allunga a perdita d’occhio più giù, in fondo, alla periferia della città. Il suo lavoro rende bene, si può permettere un sacco di sfizi. Un sacco di dischi, una sacco di donne.

> Forward.

Stronger than death.[6]

Ma la musica non è più uguale a prima. La musica esiste solo quando la si ascolta, senza nessuno che ascolta a che serve? È un bene così ripetibile, così prevedibile ed effimero che sfuma come l’ombra allungata dell’eclisse, vana come lo sguardo fuggevole riservato ad un condannato a morte.

A che serve, adesso, aspettare il tramonto?

E.V.I.L. never die.[7]

Diego sta tremando. Piange. Tiene gli occhi bassi verso il pavimento, nessun fremito di piacere ai suoni della musica che ormai, stretta nella morsa dei suoi pensieri, sfuma soffocata. È solo un’eco ronzante, un insetto molesto, un’appendice inutile, un artificio ormai superfluo.

Dead skin mask.[8]

Ormai vede solo le sue braccia nude tese verso l’alto, ricoperte di sangue e ferite. Non vede mai il suo volto. Sa di soffrire. Ma non si pente di nulla. Poi riapre gli occhi. Non capisce.

Stop.

Silenzio.

Ora Diego non ha più paura.

Ormai è sera, Diego sta aspettando buttato sulla sua branda gli ordini per la notte. Come sempre riceverà dai suoi superiori un pezzo di carta con indicati modello, targa e indirizzo del proprietario dell’auto da rubare.

Entrano senza bussare. Sono in quattro. Quei quattro.

- Ciao Diego, ecco qua, tieni. È una Bmw nera del ’92. Attento a fregare quella giusta.

Risa.

- Oggi ho visto una ragazza morta ammazzata vicino alla macelleria di Carlos. Sapete che è successo?

Ridono tutti.

- Tu devi fregare macchine e basta. E poi vivi qui e non sai un cazzo di quello che succede a trecento metri dalla fogna dove abiti?

- No, non lo so – sorride docile Diego.

Allora gli raccontano che hanno abbordato una bella senhorita e che se la sono spassata. Ma poi quella puttana continuava a piangere e a strillare e l’hanno ributtata sulla strada da dove l’avevano presa. “Consegna a domicilio” hanno detto.

Ancora risa.

Poi all’improvviso più niente.

Tutti lo guardano.

Diego ha estratto una pistola, la punta e spara in faccia al primo uomo, quello che gi ha dato il foglietto. Un attimo prima di premere il grilletto Diego vede sorpresa e incredulità nei suoi occhi. Poi paura. Poi la testa esplode come un frutto di sangue ossa e cervello e si dissolve subito gocciolando come rugiada sui vestiti dell’uomo. Poi mira al secondo e due pallottole gli trapassano collo e torace. Il terzo, quello del coltello, con un balzo riesce a buttarsi fuori dalla stanza. Il quarto nel frattempo si è levato di tasca un’arma e ha già sparato alle gambe di Diego. Adesso è a terra. Non un parola, un gemito, un lamento. Aspetta in silenzio. Ora capisce. Finalmente.

- Brutto icho de puta, perro de dios! – sente urlare mentre i due superstiti lo trascinano furibondi verso la macchina.

Lo pestano a lungo, lo maciullano, poi lo spogliano, con del fil di ferro gli legano i polsi al paraurti posteriore con la faccia rivolta verso il basso e partono alzando una gran nuvola di gomma bruciata. Diego sente le ruote stridere e subito dopo un forte strattone gli disarticola le braccia. Dieci metri, venti metri, trenta metri.

Ormai vede solo le sue braccia nude tese verso l’alto, ricoperte di sangue e ferite. Non vede mai il suo volto. Sa di soffrire. Ma non si pente di nulla.

Poi silenzio.

L’auto si è diretta fuori città per alcuni chilometri e, giunta in una zona isolata, si è fermata. I due uomini sono scesi e percorsi alcuni metri, hanno gettato quel che resta di Diego in un campo incolto. Sputano sul cadavere e si dirigono verso l’auto.

Nell’aria solo i loro passi e un indefinibile rumore, un fruscio appena accennato che striscia lì intorno. Non è la vegetazione mossa dal vento, non tira un filo d’aria.

Nessun ronzio, nessun gracchiare, nessun frinire. Bestie e piante non tacciono mai per nulla.

I due uomini si fermano e si guardano interrogativi. Solo buio sui loro volti, niente luna stasera, solo i fari dell’auto a pochi metri. L’orizzonte e quel che ci sta sopra sono un tutt’uno, una macchia liquefatta, scura, che odora di terra mossa e di fiori marci. Solo qualche stella aguzza, incerta, dondola livida.

Si, c’è qualcosa qui intorno.

Ma cosa?

I due uomini si dirigono in fretta verso il fascio luminoso e mentre camminano avvertono qualcosa di lieve pesare sui loro piedi e subito dopo una fitta lancinante e poi più su, sempre più su. Crollano insieme, annegati nella luce.

E finalmente vedono. Centinaia di topi affamati gli sono addosso, sulle gambe, sulle braccia, ora s’insinuano fulminei sotto i vestiti, ormai gli sono sul volto, sulle labbra, nella bocca. Banchettano avidi.

Urla, qualche colpo di pistola.

Poi silenzio.

Diego, fradicio di sangue e terra, ha smesso di respirare. Ma sorride.

> Play...

… and justice for all[9]

--------------------------------------------------------------------------------

[1] Slayer

[2] Burnt Offering

[3] Slayer

[4] King Diamond

[5] Sepultura

[6] Black Label Society

[7] Overkill

[8] Slayer

[9] Metallica

di Massimo Pellegrin

 

pagina
precendente

 

 

scrivi a info@abcveneto.com ¬

©ABCVeneto