il racconto del mese: A mia madre
ecco un intensissimo racconto del nostro giovane autore
Massimo Pellegrin
di
Massimo Pellegrin
Quando mia madre morì io ero già cadavere da giorni. La percezione
di quell'inevitabile epilogo era ormai radicata nello stesso fluire
del sangue che, sotto, mi dipingeva la pelle come se ancora fossi vivo.
Quando mia madre morì c'era il cielo rosso a macchie. Niente aria, solo
secco. Gli alberi erano gravidi e le cortecce lamentavano crepitii contro
il sole. Ricordo la nostra cagna. Ululava come gli animali selvatici,
seduta in fronte alla grande stanza chiusa. Dicono che le bestie non
capiscono. Eppure quell'animale, era evidente, fiutava qualcosa in quell'odore,
che spandeva dalle fessure della porta, che solo le bestie riconoscono
per quello che è.
È una bugia, il tempo che passa. Si crede, si spera, ma si percorre
tutti, infine, la stesa strada verso il camposanto. Tutta una sgobbata.
Quando morì io ero già cadavere. Tuttavia quello strappo che mi ero
ostinatamente imposto di anticipare, quel dolore che volevo anzitempo
tramutare in consuetudine, quelle lacrime versate e lasciate volutamente
a disseccare perché finissero in polvere, tutto insomma mi cadde addosso
quando la vidi distesa su quell'enorme letto soffocato di lenzuola dove
io stesso ero stato generato.
Quando morì io ero già cadavere, forse no. Certo di me stesso non conservavo
ricordi, e quelli che mi saltavano in mente non valevano un soldo. Il
tempo lei invece l'aveva preso con le buone, da amico. È stata la persona
migliore che io abbia mai conosciuto.
Era morta. Eppure quel corpo disfatto dall'amarezza di una vita senza
sosta, quelle mani rugose come fango che mi avevano cullato con infinito
amore, quel viso segnato ogni giorno da pianti segreti e mai rivelati,
quella pelle sfibrata dalla cattiveria di chi, invece, avrebbe dovuto
proteggerla, tutto quello era ancora mia madre. E finalmente compresi
che la morte è una malattia che si cura.
Passai una intera settimana in cimitero, sepolto dalla pioggia che cadde
ininterrottamente per tutto il tempo. Tutte le sere il custode chiamava
le guardie che mi portavano via di peso, lacero e zuppo come un cencio
da buttare. Alla fine decisi di starmene a casa.
Non che fossi cadavere quando mia madre morì, ovvio. Solo, l'avevo capito.
Intendiamo sempre a cose fatte, noialtri. Il destino capita, certo,
ma ci passa sempre tra le dita come sabbia. Le bestie no. Quelle intendono
come gli dei.
***
Caterina è cresciuta quel che basta. Così oggi mi sono deciso. Ho allungato
le mani verso un cassetto nascosto e ne ho estratto un album di foto
dalla copertina bruna, due buste e un vecchio franco svizzero. Mia moglie
è uscita. Meglio così. Non capirebbe.
L'ho presa in braccio, l'ho fatta sedere sulle ginocchia e le ho sorriso.
Lei invece è rimasta seria. Forse, chissà come, quel poco di puro che
in lei non si è ancora corrotto, quello spicchio di divinità che ancora
perdura, ha sussultato. I bambini fanno paura.
Nell'album, le foto di mia madre. Prima da fanciulla, poi da ragazza,
infine da moglie e madre. Le ho raccolte nel corso degli anni sottraendole,
a volte con sgarbo, a parenti e amici. Non volevo copie. Volevo gli
originali, volevo toccare con mano l'emulsione che era realmente rimasta
impressionata dal suo volto.
Caterina somiglia a mia madre bambina in modo straordinario, lei stessa
se ne è resa subito conto sfogliando le prime pagine. Ma non ha detto
nulla. Anch'io ho taciuto mentre la sua piccola mano ha iniziato ad
indugiare curiosa tra le pagine. L'emozione mi ha scavato le viscere
come una vanga la terra.
***
Dandomi alla luce mia madre restò tra la vita e la morte per molti
giorni. Aveva appena compiuto diciotto anni. Il prete l'aveva sposata
solo cinque mesi prima, in chiesa, alle sei del mattino, con il buio,
senza gente, senza abito bianco, senza fiori, senza un cazzo di niente
perché io, figlio del peccato, già germinavo dentro di lei come una
malattia sporca.
Ero poco più di un bambino quando mia madre me lo raccontò. Scappai
in camera piangendo di vergogna. Lei mi si avvicinò, mi carezzò la fronte
e le guance e mi disse che non importava, che era niente, che ero solo
uno sciocco. Poi mi abbracciò. Ma in quell'abbraccio non immaginai nessun
sorriso a cingermi le spalle.
Da allora provo verso me stesso un amaro senso di disgusto. Da allora
non ho più rivolto parole a dio che non fossero taglienti bestemmie.
Da allora non ho più messo piede in una chiesa. Mai togliere l'abito
bianco ad una donna. Fu lei a sussurrarmelo, quando cominciarono
a zampettare per casa le prime ragazze. Comprendevo quel che voleva
dire. Mio padre invece, anche se intento a squartare con destrezza qualche
vacca nel retro della macelleria, non perdeva occasione di sbirciarle
sotto le gonne o infilare la punta degli occhi dentro la scollature
di passaggio.
Caterina ora sta osservando le foto dei vent'anni. Mia madre è seduta
su una panchina piena di autunno lungo un lago svizzero. È felice, anche
se l'ombra del destino accompagna ogni suo sorriso e le strappa la gioia
dalle labbra. In Svizzera lavorava in cartiera, in Italia, da noi, all'epoca
si mangiava solo fame. Stava nel cantone italiano. È lì che io nacqui.
Concepito in Italia, messo al mondo in Svizzera.
Una consunta banconota, un franco, ricorda il suo primo viaggio in treno
con destinazione Zug. Me lo raccontava ogni tanto, di quel viaggio.
Lei, contadina figlia di contadini, inchiodata cocciutamente al suo
mondo fatto di campi e stagioni, bachi da seta e vacche da mungere,
si era trovata ficcata in un treno (e chi ci era mai salito prima?)
diretta al confine. Intendiamoci, allora era un confine sul serio, ovvero
una linea idiota inventata da idioti. Corri corri, dopo qualche ora
le si era fatto avanti un tizio in divisa, la faccia truce e modi da
smargiasso. Poche ciance, Paß und Karte, bitte! E che ne sapeva
lei, di tedesco? Lei parlava con gli occhi, con i gesti, con i calli
delle mani. Non bastavano quelli? E invece niente, Paß und Karte,
bitte! quel coglione di doganiere non ne voleva sapere. Alla fine
era scoppiata a piangere disperata prendendosi il viso tra le mani,
balbettando qualcosa nel dialetto levigato della sua terra. Il crucco
allora, soddisfatto, s'era calmato disegnandosi in faccia un sorriso
ebete e aveva estratto da una tasca un foglio dove stava scritto 'passaporto
e biglietto prego' Se potessi spostarmi nel tempo e finire su quel
pidocchioso vagone, adesso con quel caprone ci parlerei volentieri io.
In Svizzera poi ci tornai con i miei, da ragazzo, vollero farmi visitare
la loro giovinezza. Era stata mia madre ad insistere.
Vidi il luogo in cui nacqui, il lago della foto, il paese dove i miei
lavorarono per crescermi in quel primo anno. Vidi anche il tratto di
ferrovia sul quale mia madre cadde, all'ottavo mese di gravidanza, senza
che nessun figlio di puttana si preoccupasse di aiutarla a rialzarsi.
Era novembre, ghiaccio dappertutto, lei andava al lavoro, era scivolata.
Si era levata in piedi da sola, tra la gente che la osservava impassibile,
e si era rimessa in cammino, umiliata e curva come un albero diroccato.
Non tornerò mai più in Svizzera, per quanto in quel paese mia madre
ebbe modo di conoscere anche tanta brava gente. Non ci tornerò mai più.
Come in chiesa. Fanculo gli orologi, il cioccolato e le banche. Che
crepino tutti.
Caterina continua lentamente a voltare pagina dopo pagina. Mia madre
è una donna bellissima. È una istantanea rubata in spiaggia. Sotto la
foto una didascalia: Costiera amalfitana, 1965. Lo splendore
di quel mare oggi non esiste più. È vestita da un delizioso costume.
Un due pezzi. La foto è in bianco e nero ma il costume è rosso. Dio
se è rosso.
Stava lì perché nel 1964 il lavoro di mio padre costrinse la famiglia
a trasferirsi nel napoletano. Ma lì, sepolta tra il cemento dei palazzi
e l'asfalto grigio, mia madre con la gente proprio non legava. Altra
lingua, altri valori, altre tradizioni. Mica meglio o peggio, per carità,
anzi, tenne i contatti per anni con molti amici. Solo, in quel paese
soffriva. Stava morendo, lontana dal suo piccolo mondo fatto di raccolti
e stagioni, di stalle, vacche, cavalli e cani. È curioso notare come,
poco prima di morire, ricordasse con grande letizia gli animali con
i quali aveva condiviso gli anni d'infanzia. Gli unici esseri viventi,
immagino, dei quali non avrebbe potuto lagnarsi in alcun modo.
Fu lei, dopo tre anni di taciute sofferenze, ad insistere perché se
ne andassero, che tornassero su, al nord. Adesso ce n'era, di lavoro,
c'era il boom. Epoche di miseria cruda stavano per cedere il passo a
quello che sarebbe diventato in pochi decenni il ricco e prosperoso
Nordest. Il miracoloso Nordest. Ah, se qualcuno volesse sapere
di che si tratta, lo chieda alla gente come mia madre, cos'è il miracoloso
Nordest. Non ascolti gli idioti che scrivono i giornali e che fanno
le televisioni, e che sono poi gli stessi idioti che inventano i confini.
Quelli non sanno un cazzo di niente. Quelli sanno solo incattivire la
gente. La terra la si conosce vivendoci, non leggendo. Fanculo anche
loro.
Altre pagine, altre foto. I miei giochi di bambino, la prima comunione.
Lei è sempre lì, cornice nella cornice, quasi consapevole dei ricordi
che un giorno scaturiranno da quelle istantanee, quasi a volermi proteggere
e guidare anche per il futuro che verrà.
Alla fine, quel futuro è arrivato.
Le foto turbano perché non mentono. Non a quel tempo, per lo meno. Mentre
io cresco di anno in anno e mi incammino verso la strada che mi porterà
qui, ora e in questo momento, lei fiorisce con petali sempre più rosei
e trasparenti. Non invecchia.
Poi il mio matrimonio. Poi il vuoto.
***
Caterina ha finito di sfogliare l'album. Ora ha preso una delle due
buste e la rigira tra le mani, interrogativa. Alla fine, impacciata
dalle sue stesse piccole dita, da una delle due estrae un foglio di
carta ingiallito. La scrittura è minuta, elegante. Dolce. Le spiego
che è una vecchia lettera della nonna scritta al nonno tanti e tanti
anni fa. Lei spalanca gli occhi.
Non credo, ora, di fare un torto a nessuno riportando alla luce questa
vecchia lettera. Non mi permetto certamente di trascrivere qui ogni
parola che vi è contenuta. Ma mi è necessario.
A Napoli mio padre tradì mia madre. Con una donna generosa, mi
aveva confessato anni dopo, un giorno che gli avevo piantato gli occhi
in faccia e lo avevo messo alle strette. Una sola volta, aveva
detto. Anche se immagino intendesse, in buona fede, una sola volta con
quella donna.
Mia madre lo seppe quasi subito, e proprio da lui. Ma lei, poveraccia,
non capiva il significato del termine tradimento, era un'idea
estranea alla sua vita come l'aria per un pesce. Semplice com'era, non
intendeva nulla che esulasse dagli obblighi di madre e moglie che anni
addietro si era assunta davanti a un prete sdegnoso. Un farabutto che
l'aveva umiliata in nome di un onnipresente dio che, inspiegabilmente,
dalle nostre parti non si vide mai.
Lei, per quell'adulterio, soffrì le pene d'inferno. Questo lo so da
me. Non me ne parlò mai, né io le chiesi nulla. Ma lo so per certo.
Le avessero segato un braccio avrebbe ringraziato. Ma un tradimento,
quello no.
Mio padre la faccenda invece la vedeva da bestia, una botta e via, nulla
di così imperdonabile. Aveva la sensibilità di uno sciacallo intento
a spolpare una carogna. Non si preoccupò oltremodo dell'accaduto. In
realtà più di tanto non si preoccupò nemmeno mai della moglie, eccetto
che del suo mantenimento e di quello del figlio. Perché, lo riconosco,
da questo punto di vista mia padre fu un genitore esemplare. Ma fu certo
sua la colpa del mio prematuro concepimento, sua la smania bestiale,
suo il bisogno selvaggio di affondare il sesso dentro mia madre. Suo
il disprezzo, infine, mai taciuto, nei confronti della moglie, per aver
ceduto, allora, alle sue lusinghe. Sempre remissiva lei, sempre docile,
sempre ingenua. Sempre pura.
Nessuno riuscirà mai a levarmi dalla testa il sospetto ch'io sia solo
il prodotto indesiderato di uno stupro maldestro.
I miei primi ricordi d'infanzia non sono i giochi, i dolci e le feste
di compleanno, l'asilo o il primo giorno di scuola. Sono i pianti di
mia madre e la schifosa indifferenza che mio padre le riservava.
Non ricordo un solo momento di intimità, di complicità, di comprensione,
di amore tra i miei genitori. Mia madre veniva disprezzata in
ogni modo. Davanti al figlio, ai parenti, agli amici. Ferisce più
la lingua che la lama, ripeteva spesso mio padre ridacchiando, tutto
intento ad affettare prosciutti, cesellare filetti e sistemare ordinatamente
cosce di pollo nelle vaschette in negozio. Era vero. Bastano poche parole
per ferire a morte. Ma chi non conosce la cattiveria, semplicemente
non la concepisce. Come un cane che, docile, sotto i ferri lambisce
la mano dello stronzo che lo sta vivisezionando. Quella cattiveria e
quel male sconosciuti hanno eroso mia madre fin nel midollo, seccandole
occhi e anima, come una malattia che non si comprende. Suo marito le
ha strappato la vita di dosso come si strappa la pelle a un coniglio.
Ed io, per anni, ho assistito impotente allo spettacolo del sangue che
colava copioso dalle viscere di quell'animale scuoiato.
La lettera? Certo, non l'ho scordata… In quella lettera mia madre scriveva
al marito che, per amore del figlio, avrebbe dimenticato. Che avrebbe
perdonato. Solo per amore del figlio. Verso di lui, invece, amore non
ce ne sarebbe più stato.
***
Mio padre è morto cinque anni fa, solo come un cane, mentre Caterina
stava ancora gongolando nel pancione di mia moglie. Meglio così. Dopo
la vita che aveva fatto passare alla sua famiglia, certo non gradivo
che vedesse venire al mondo mia figlia. Sarebbe stata una gioia che
non gli spettava, un diritto usurpato alla donna che proprio lui, senza
rendersene conto, aveva fatto crepare anzitempo con le sue urla, i suoi
mugugni, le continue vessazioni e con parole sempre intrise di bruciante
disprezzo.
Poveretto. Che non se ne rendesse conto mi sembra naturale: uno sciacallo
che spolpa una carogna non arriva a capirle, certe cose. Ma sulla buona
fede, in questi casi, ci cago volentieri sopra.
Così l'ho ucciso.
Si, l'ho ammazzato. Poco prima che mia moglie partorisse. Sono andato
a casa sua, l'ho schiaffeggiato due volte e l'ho gettato sul letto.
Ormai era solo un sacco d'ossa, nessuna parvenza del mostro che da bambino
mi atterriva. L'ho legato stretto al materasso, l'ho imbavagliato con
mezzo rotolo di nastro adesivo e l'ho costretto ad ascoltare requisitoria
e verdetto. Morte. Alla fine taceva. Mi odiava. L'ho ammazzato piangendo,
ma l'ho ammazzato. Ho preso il suo coltellaccio migliore, il suo preferito,
quello che usava in macelleria per i lavori di fino. Lo teneva custodito
in un cassetto come una reliquia, avvolto in un panno morbido. Gliel'ho
ficcato a forza tra le labbra e i denti e gliel'ho spinto giù, dritto,
fino in fondo alla gola. Una buona spanna di acciaio lustro. Lentamente,
centimetro dopo centimetro. Allora, papà, dimmi un po', gli ho
sussurrato prima che soffocasse nel suo stesso sangue, ferisce più
la lingua o la lama?
Causa del decesso: infarto. Per lo stato in cui versava il suo cuore
la cosa era plausibile. Di medicina ne capisco qualcosa, sono medico
legale. Lavoro all'obitorio. Sono quello che normalmente apre i cadaveri
per farci l'autopsia. Ho sistemato tutto con una balla e qualche aggancio
in ospedale. Ma non farò alcun nome, questo no. Non mi sembra il caso
di coinvolgere un povero babbeo che, ingenuamente, si è bevuto una frottola
ben raccontata.
L'altra busta è vuota. È per me. La lettera che ci finirà dentro è
quella che sto scrivendo ora. La lascerò sul ripiano del caminetto,
in bella vista. Che la trovino subito e capiscano. Senza storie, senza
interrogativi. C'è n'è già così poco di tempo.
Ho preso Caterina, l'ho abbracciata, l'ho baciata due volte, una per
guancia. Poi l'ho messa a letto e ho chiuso la camera con un giro di
chiave. Non voglio correre il rischio che mi veda. Mia moglie arriverà
tra un'ora, forse meno. Comunque la troverà subito. Spero solo che non
si spaventi troppo.
Ma non voglio lasciare dubbi sull'opportunità della mia decisione.
Chi crede che ora mi ammazzi per il rimorso di aver accoppato mio padre
non ha capito nulla. Anzi. Se potessi, lo rifarei anche adesso.
Il motivo l'ho già in parte detto. Dopo il mio matrimonio l'album si
interrompe. Vuoto. Decine e decine di pagine bianche che si rincorrono
come un monotono paesaggio desertico.
Sono vuote perché abbandonai mia madre.
Avevo un lavoro, una donna, una casa. Mi dissi che quella era la vita,
che da sempre i cuccioli abbandonano la tana per percorrere il mondo.
Che quello era il normale ciclo naturale. Il mio destino comodo e annoiato
mi aspettava là fuori, la sigaretta accesa, un piede contro una ruota
e lo sportello dell'auto aperto. Non dovevo fare altro che salire, chiudere
e andarmene. Così feci.
Io la guardai. Anche lei mi guardò. Dalla finestra della sua camera.
Con occhi incavati, acquosi. Impaurita nel rimanere sola a marcire in
quella casa con un uomo che non era più suo marito da anni e che non
era nemmeno stato un padre. Abbandonata in balia di un vigliacco che
l'ha stravolta, svuotata, terrorizzata e infine uccisa con l'indifferenza
tipica degli uomini, cioè quella cercata, voluta. Crudele insomma. E
io, consapevole di tutto, ho permesso che tutto continuasse ad accadere.
Ho finto di non capire, ho ignorato l'evidenza che mi si parava davanti.
Il rimorso mi corrode senza tregua ogni giorno, ogni minuto, ogni secondo.
Insopportabile il suo ricordo, insopportabile il suo rassegnato silenzio,
insopportabile il suo sconfinato amore per un figlio che, probabilmente,
non aveva nemmeno voluto o desiderato. Insopportabile la sua accettazione
del male e la paziente lucidità dei suoi sentimenti.
Dubito che riuscirei ad amare mia figlia allo stesso modo, in maniera
così piena, rinunciando a tutto, alla libertà, alla dignità, al rispetto
verso me stesso, aspirando soltanto a proteggerla, a soddisfarla, ad
amarla, facendo di lei una missione dove dolore, fatica, privazioni
e sacrifici costituiscono il normale svolgersi della vita, escludendo
ogni altra possibile ambizione o piacere. Pare impossibile. Ma mia madre
visse esattamente in questo modo.
La mia carne è anche un po' carne di mio padre, su questo non v'è dubbio.
Non sopporterei di scoprirmi, tra qualche anno, così involontariamente
ma naturalmente simile a lui. Mia figlia non lo merita. Mia moglie non
lo merita. Lo devo a mia madre. La cosa deve finire. Adesso.
Conservo ancora il coltello con il quale ingozzai il babbo. Lo sto
rigirando in mano, rapito dalla lucentezza della lama. Vi si specchiano,
fluttuanti, i miei polsi.
NdA: nessuno dei fatti narrati si riferisce ad episodi
realmente accaduti, così come ogni riferimento a cose o persone è del
tutto casuale. Le opinioni della voce narrante non sono necessariamente
le stesse dell'autore.
di Massimo Pellegrin