nu. 7, anno primo - 1 ottobre 2004 giornale online gratuito (a 30 giorni) |
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Cristo e il cinema a Venezia
Chi di solito in questo giornale si occupa di cinema era
preso da vari impegni inderogabili. Così hanno mandato -a loro
rischio e pericolo- me, che non sono erudita nelle materie suindicate
a presenziare all'invito elargito, sotto il Patronato del Presidente
della Repubblica e in collaborazione con Rai Cinema e Medusa, dall'Ente
dello Spettacolo per la presentazione del libro "Cristo nel cinema,
Un canone cinematografico", presso l'Hotel Excelsior al Lido di
Venezia Beh, in fondo dovevo andare nella magica Venezia, nella Venezia dei
miei studi universitari e magari mi scontravo -Chissà?- con qualche
frivolo divo del cinema. E invece no, nello sfavillante hotel Excelsior
ho visto persone rigorosissime, peraltro inavvicinabili, quali il regista
Vim Wenders, che ha ritirato il premio Robert Bresson, assegnatogli
dalla rivista Cinematografo e dalla direzione del Festival Tertio Millennio
dell'Ente dello Spettacolo; e ho scorto S. E. Mons. John Patrick Foley,
Presidente del Pontificio Consiglio delle comunicazioni sociali, il
quale presenziava alla presentazione del libro e alla consegna del premio. Pur tenendo conto di tale difficoltà, c'è chi guarda alla produzione filmica cristologia come portatrice di piccole scaglie di verità, tutte necessarie per rendere il tutto, che come dice la psicologia della Gestalt è più della somma delle parti. Uno di questi è Enrique Planas, che al termine cristologico preferisce quello trinitario e classifica parte dei film prodotti come cinema di Dio Padre, di Spirito Santo e del Figlio, volendoli tutti, perché "tutti mostrano almeno il riflesso imperfetto di questa realtà che è Cristo perfetto comunicatore. ( ) E pertanto tutti questi film arrivano a dare qualcosa che a volte assomiglia a quello che abbiamo nel nostro intimo e anche noi, pur non sapendo fare cinema, abbiamo una visione interiore, personale, dialogante e viva di Cristo, di questo Cristo che è un interlocutore personale, è Dio vero e uomo vero.". Planas predilige, però il cinema del Figlio, che accomuna la Passion Pathè, Intollerance, L'ultima tentazione di Cristo, Il Vangelo secondo Matteo, I giardini dell'Eden, il cinema di Franco Zeffirelli e i film di Padre Peyton, perché preferisce "vivere la tenerezza del figlio, la fiducia e l'abbandono, nella preghiera, nella solitudine e nel silenzio, che sono la migliore liturgia di lode al Signore". Riporto anche la bellissima metafora che Planas usa per spiegare ciò. "Pensiamo a un soldato, un colonnello, un generale, tutti e tre padri; rientrano a casa e i figli salutano i genitori con le stesse spontanee manifestazioni d'amore, senza tener conto del grado, poiché sono di fronte al loro papà. Anche nel Vangelo troviamo l'espressione che ci permette di chiamare Dio papà. Sarebbe ridicolo se i figli si irrigidissero di fronte al padre secondo il grado che ricopre". L'altra persona che contempla una sintesi positiva di questa produzione filmografia è Ermelinda M. Campani. "Tutte le pellicole incentrate sulla storia evangelica," -dice- "indipendentemente dalla loro modalità narrativa, hanno dovuto misurarsi con la duplice natura, storica e trascendente, di Gesù, e hanno dovuto conferirgli un volto. Il cinema, così rimanda un Gesù arcaico e regale (From the Manger to the Cross, Olcott, 1912), uno radicale e sovversivo (Il Vangelo secondo Matteo), uno mistico (La più grande storia mai raccontata, George Stevens 1965, ), uno tra l'adolescente e il politico (Il Re dei re, Nicholas Ray, 1961 ), uno 'storico' (Gesù di Nazareth, Franco Zeffirelli, 1977 ), o drammaticamente umano (L'ultima tentazione di Cristo, Martin Scorsese, 1988 ). E' come se ciascuno di questi film, nel conferire un volto a Cristo abbia tentato di dare una risposta alla domanda che Egli rivolge ai suoi discepoli: <Voi chi dite che io sia?>" Mons. John Patrick Foley nelle conclusioni nobilita il cinema della rappresentazione del Figlio di Dio, partendo dalle parole di Giovanni Paolo II, pronunciate nel 1994 in occasione del restauro degli affreschi di Michelangelo nella Cappella Sistina. Il Papa ha ribadito il risultato del Secondo Concilio di Nicea in base al quale sono legittime le icone, contrariamente a quanto volevano gli iconoclasti. In esse -continua il Papa- "si riflette in modo sempre nuovo il Mistero del Verbo fatto carne e l'uomo ( ) si rallegra della visibilità dell'Invisibile". Così per Foley "il cinema è una forma di iconografia molto valida per il nostro tempo. Il volto di Cristo ( ) appare anche in questo mezzo, che riflette, come un mosaico, quegli aspetti personali che ogni autore privilegia nel rappresentare Gesù". Un'ultima riflessione per The Passion di Mel Gibson, che nella valutazione
pastorale della commissione nazionale della Conferenza Episcopale Italiana
risulta: accettabile/problematico/dibattiti. Come Pasolini, Gibson ha
scelto come ambientazione Matera e come lui ha voluto provocare. Violenza
e antisemitismo? Giuseppe Laras, rabbino capo di Milano, dice che "questa
visione delle sofferenze e della morte di Gesù può alimentare
sentimenti antiebraici, rinfocolare queste tensioni, questi stereotipi,
soprattutto nelle persone semplici, che poi sono la parte che ci interessa
di più. Come accade nel dialogo tra ebrei e cristiani: quando
esso si svolge a livello alto va tutto bene, ma quando deve calare in
basso trova difficoltà, resistenze". Ignazio Sanna toglie
l'alone d'ombra del tutto. "Siamo tutti giudei e romani, come siamo
tutti americani o tutti spagnoli di fronte ai drammi della violenza
gratuita che ci accomunano nella paura e nella solidarietà. Nel
nostro caso, siamo tutti giudei, perché il disegno salvifico
di Dio di darci la grazia e la redenzione si è realizzato nel
popolo ebraico, in quanto paradigma dei popoli di tutta la terra. La
responsabilità della condanna inflitta a Gesù non è
di un popolo, ma dell'intera umanità peccatrice, che, pertanto
si deve sentire coinvolta personalmente nel dramma che si è consumato
circa duemila anni fa. Il sentimento che si prova dopo aver visto il
film non deve essere, quindi, quello della condanna degli altri, ma
quello della presa di coscienza del proprio peccato e della propria
responsabilità". Pur condividendo il giudizio di Sanna penso
che, come ritiene il rabbino Laras, non tutti abbiamo questa capacità
di lettura e che nella realtà quotidiana ci possano essere interpretazioni
pericolose. |
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