Titolo: "IL POETA PALLIDO" DI CESARE RUFFATO
CESARE RUFFATO, Il poeta pallido, Marsilio, euro 11,50
di giolo.giovanni@tiscali.it
Parlare
della poesia di Cesare Ruffato è sempre molto difficile
e impegnativo per l'enorme quantità delle opere
di questo autore padovano che è stato tradotto
in nove lingue in tutto il mondo e che è ormai
considerato, dopo quarant'anni di attività, che
sono stati celebrati nel libro della Marsilio "Per
Cesare Ruffato, testimonianze critiche", uno dei
più grandi poeti del Novecento.
Una produzione oceanica - come la definisce Letizia Lanza,
docente di lettere greche all'università di Padova
- di incidenza internazionale e di caratura e profilo
altissimi non solamente nel piano dell'arte, per il fatto
che sempre in lui la poesia si coniuga a una fortissima
e vibrante istanza etica. Di formazione classica Ruffato
unisce in sé le peculiarità proprie dell'uomo
del Rinascimento, come Leonardo da Vinci, che presentava
un'altissima creatività sia nel campo scientifico
che letterario, avendo perfettamente assimilato in sé
le due culture sia come illustre medico e cattedratico
all'Università di Padova sia come artista e poeta
infaticabile che ha percorso e inciso le più rilevanti
esperienze poetiche del '900.
Laureato in Medicina e conseguita la libera docenza in
Radiologia e Radiobiologia ha fatto delle grandi scoperte
scientifiche e creato delle opere poetiche che segnano
la storia letteraria italiana. Uno scrittore a tutto campo
poliedrico e universale, una voce sempre nuova, viva,
freschissima e tuttavia intrisa abissalmente d'antico
per la profonda conoscenza delle lingue classiche come
il latino e il greco la cui bellezza fonica e semantica
trasfonde continuamente nelle sue liriche. Come in questi
splendidi versi tratti dalla sua ultima raccolta "Il
poeta pallido":
"Dalla penombra i secoli rinvengono / più
rapidi d'attimi di corrose / statue, dei guizzi di lucertole
/ fra ruderi e marmi estrosi. Brividi / adriatici sbrecciano
le sagome / dei mattini d'un Natale smorto / volato da
gabbiani afoni. / La laguna ci disperde in plastici /
basilicali e verdi arabeschi / per ora l'acqua e bassa
come i nostri / umori che gelano parole / e scie marine".
Chi mai aveva mai definito i ruderi e i marmi "estrosi",
parola di origine greca che indica il comportamento dei
tafani in amore e richiama i versi del Prometeo di Eschilo,
delle Trachinie di Sofocle e della Fedra di Euripide trascinata
dal furore della passione e che sembra, fra i guizzi delle
lucertole, dare vita a quei ruderi invasi dall'azione
devastatrice del tempo?
Versi mai elusivi che crescono e si addensano da radici
profonde, latamente ramificate, dalle quali balza uno
scenario esistenziale desolato, intriso d'angoscia, dolore,
solitudine, sentimenti che emergono "dalla penombra
dei secoli" che si identificano in quelle statue
corrose e scarnificate da "brividi adriatici"
che connotano la divina e struggente malinconia di un
solitario giorno di Natale senza tempo e senza rinascite,
consolato solo dal volo di gabbiani afoni. In questi versi
si specchia l'oscurità ontologica del nostro vivere
ridotto a lacerti di "verdi arabeschi" di una
vita bassa e "smorta" da "umori che gelano
parole" e ad afasia che caratterizza "l'assoluto
silenzio bianco" dell'ultimo Ruffato di "Sinopsie",
un muto stingersi di ceneri di silenzio, proteso ormai
verso la dimensione eterna e metafisica dell'essere:
"Sapore di menta barocca / nella logica degli alberi
maestri / ove il cielo ruba il fondo e il lago. / Le perizie
accostano la vela / maliosa provocante in controluce /
quasi lume teso di candela. / Le tue ciglia scaramantiche
/ frantumano i miei precipizi / e i riflessi schivi dell'eloquio".
di giolo.giovanni@tiscali.it