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LA RECENSIONE: "IL CASO PAVAN" DI GIAN DOMENICO MAZZOCATO


Fulvio Tomizza ha definito lo scrittore trevigiano Gian Domenico Mazzocato il cantore degli ultimi, perché ha dato voce e dignità alla figura del "vinto" veneto, che mai aveva trovato spazio nella narrativa.

scritto di Giovanni Giolo

La sua scrittura si segnala per l'impegno, il rigore e l'acutezza con cui analizza e racconta la civiltà del Veneto e la sua gente. Il suo primo romanzo, pubblicato dalla nota casa editrice Santi Quaranta, Il delitto della Contessa Onigo, è stato un caso editoriale con le sue molte edizioni e la riduzione a teatro. Sono seguiti, sempre con la stessa casa editrice, Il bosco veneziano e Gli ospiti notturni. Ora si ripresenta con un nuovo romanzo Il caso Pavan che dà spazio agli ultimi veneti rappresentati da contrabbandieri e sbirri, contadini e pisnenti (termine locale per indicare i nullatenenti), biscazzieri e ladri, teatranti e ciarlatani, borsaioli e artisti, prostitute e perdigiorno, un mondo alla deriva in cerca di sbarcare il lunario con i mestieri più strani e impensati, come il sedicente medico Pilon inventore di una panacea fatta di sterco d'asino mescolato con preziose e selezionate erbe d'India, il titimalo, il solano e il tossico d'Endro. Un racconto realistico e duro, talora cupo, come è tipico della scrittura di Mazzocato, che ruota attorno a Tomaso Pavan, alias Tomà Marchi, che insegue il senso della propria esistenza e la sua stessa identità.

Parte, Tomaso, dal paesino, abbarbicato al declivo che guarda sui laghi di Revine, in cui è nato, approda a Venezia, la Venezia del 1732 che vede la laguna diventare un mare di ghiaccio, "come se l'acqua e la terraferma fossero una cosa sola, che si abbracciassero e si tenessero strette e avvinghiate come mai era accaduto nel passato, a ribaltare l'ordine costituito, le abitudini, la vita". Tomaso vaga a lungo per le calli, guarda i ragazzi che sul ghiaccio fanno frullare una trottola colorata, si trova davanti a Murano, "con le sue luci vive come stelle nell'aria fredda e tersa" e poi all'isola di San Michele, "la cavana di tutti i barcaioli che si avventurano da quella parte della laguna", nota cinque sagome nella notte: sono contrabbandieri. Si unisce a loro, riesce a far vendere tutta la partita di tabacco di grande qualità, seccato con grande cura, conservato tra graticci di canne e riposto in botti ben stagionate, e poi, spartiti i soldi, si separa da quegli amici pericolosi e, senza sapere dove andare e cosa fare, si porta alla Giudecca, brulicante di uomini, donne, turchi, levantini di mille provenienze diverse. Si aggrega a una compagnia di guitti i Desiosi, che si esibiscono in spettacoli di provincia, nelle piazze e nei granai, sbarca a Corfù, una delle isole del mare greco, dominio della Serenissima, dove sbandiera il leone di San Marco. Ritrova l'amico Cosma, un mercante di stoffe, che vive in una capanna, dall'arredamento semplicissimo: un giaciglio grande, una tavola, qualche sedia e qualche suppellettile e una scansia piena di libri. Nell'isola azzurra, dove i giorni trascorrono lenti e le stagioni si assomigliano tutte, ha imparato il valore del tempo.
E qui la storia qualunque e insignificante di Tomaso si allarga e si immette nel gran mare del mito. Cosma gli indica un punto lontano, oltre l'orizzonte: l'isola di Itaca, l'isola di Odisseo, l'eroe greco più famoso che aveva conquistato una città invincibile, ma si era attirato l'ira degli dei, perché era un uomo libero e faceva quello che voleva. Era intelligente, e persuasivo nel parlare, la sua voce era musica, aveva gesti eloquenti. Nonostante l'odio di Poseidone, il dio del mare, riesce a sbarcare nella sua isola e nella sua reggia, ad abbracciare la moglie bellissima e l'amatissimo figlio.

"Tanti anni prima - racconta Cosma - quando era giovane, forte e splendente, che poteva essere scambiato per un dio, nel suo vagabondare Odisseo era approdato all'isola di una dea bellissima che si chiamava Calipso, una maga. Con le sue erbe e le sue arti la dea riuscì ad offuscare ogni ricordo nella mente dell'eroe". Ora il vecchio Odisseo, ritornato in patria, è preso dalla nostalgia della dea e vuole ritornare a vederla. La moglie Penelope e il figlio Telemaco lo supplicano invano di rinunciare ai suoi sogni, ma egli riprende, su una piccola nave, la via del mare. Ritrova l'isola di Calipso, ma non riesce a scansare uno scoglio, fa naufragio e il mare lo butta morente sulla spiaggia. L'eroe rivede la dea che gli avrebbe ridato le forze e restituito la giovinezza, ma Calipso non lo riconosce e lo lascia morire solo sulla spiaggia.
"Capito cos'è il tempo, Tomà?" - conclude Cosma - Per Odisseo era trascorsa una vita, per la dea non era passato neanche un istante, nemmeno uno sbattere d'occhi. Non si scherza con il tempo". Poi dalla luce del mito alla luce di uno straordinario evento cosmico, l'aurora boreale del 10 dicembre 1737: "le gazzette non parlavano d'altro e formulavano le ipotesi più disparate. Si citavano i libri dei viaggiatori che erano stati nel nord dell'Europa e si interrogavano i vecchi ebdomadari per vedere se mai vi era stata prevista quella luce che aveva squarciato la notte. Quanto alle memorie veneziane, difficile, molto difficile ritrovare qualcosa di simile nel passato". Alla fine dalla luce della "notte limpidissima dei miracoli" al buio della prigione.

Mazzocato ritorna al tema caro del suo primo libro, la pellagra, che aveva fatto impazzire il pisnente Piero Bianchet e lo aveva spinto a tagliare la testa alla parona, la contessa Onigo. In un libello affisso al mercato di Treviso, in piazza del Duomo, Tomaso denuncia che "la pellagra è malattia rustica e non civica": tutta colpa del mahiz, della polenta, che era l'unica cosa che i contadini mangiavano. L'autore del libello viene incarcerato e definito dall'Ufficio del Maleficio farnetico et furioso.

scritto di Giovanni Giolo

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