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IL RACCONTO DEL MESE: FOTO RICORDO


Il racconto del mese è tornato

Scritto da Massimo Pellegrin

Quel che fa diventare tempo il tempo non sono le date; è il suo trascorrere svogliato, il suo fluire ininterrotto, felino, disinteressato. E invisibile. Soprattutto invisibile. La prova è che basta guardarsi allo specchio un po’ più a lungo del solito per capire che gran parte degli uomini si ritrova a corto di tempo sempre all’improvviso, senza alcuna preventiva avvisaglia, senza nemmeno poter dire me l’avevano detto. Capita anche ai più giovani l’impressione di averlo perduto, il tempo, ma pensando di averne ancora un mucchio dinanzi non se ne curano, o se ne curano poco, non potendo immaginare quanto amaramente rimpiangeranno quella loro leggerezza. Lo diceva sempre anche il prete del mio paese, che tra i preti allora in circolazione dalle mie parti era il più prete di tutti: la giovinezza è una malattia dalla quale si guarisce sempre troppo presto. E al trascorrere del tempo non c’è rimedio. Qualche rammendo estetico, forse, ma niente di sostanziale in realtà... O qualche vizio portato all’eccesso. O un meditato suicidio. Ma la tecnologia, ah, la tecnologia, che gran cosa…

***

Una pubblicità. Fu una pubblicità vista per caso (perché, lo si sa, è sempre il caso a decidere per noi) su una rivista al bar che colpì Osvaldo forte allo stomaco. Nella pagina del giornale era raffigurata una pila di fotografie, molte delle quali completamente bianche, miste ad altre (poche) che raffiguravano avvenimenti lieti, sorrisi, bambini ed altre simili amene faccende. Il messaggio, azzeccato, suonava all’incirca così: quel che non ricordi lo perdi per sempre. Come il tempo insomma.
Il ricordo è l’unico compare al quale puoi affidarti per schivare il tempo (o per lo meno gabbarlo per qualche minuto), osservando una vecchia foto e illudendoti di viverci dentro, di quando avevi vent’anni, tenevi tutti i capelli ed eri ancora moroso. O di quando hai vinto la gara di salto in alto a scuola. O della tua prima vacanza al mare con gli amici. E così via.
Osvaldo piegò il giornale accuratamente, si guardò intorno e se lo infilò dentro la cintola delle brache. Si alzò, pagò in fretta il suo bicchiere e se ne sgusciò lesto verso il motorino. E via.
Si sentiva molto ladro.

Entrato in casa richiuse la porta, si tolse il pastrano e levò il maltolto dai calzoni. La vecchia sorella era inchiodata da un pezzo al proprio letto e aspettava paziente che arrivasse il suo momento; nemmeno si accorse del rientro del fratello. Osvaldo si sedette in cucina e scorse in fretta le pagine della rivista fino a trovare quella che tanto lo aveva colpito. Poi distese sul tavolo il giornale aperto e premette con i pollici lungo la rilegatura per appiattirlo il più possibile. Il lampadario ci stava proprio sopra e la luce tonda dal neon copriva di riflessi la superficie patinata della carta. Ma Osvaldo di riflessi non ne voleva. Puntò i gomiti contro il tavolo, ficcando le mani sotto le ascelle, e si inarcò verso il giornale sovrastandolo, riuscendo così ad averlo perfettamente parallelo alla fronte. Era molto turbato, tanto che in quella scomoda posizione ci rimase per un bel pezzo, come una statua stramba. E osservando quel cumulo di scatti immacolati cercò in quel tempo immobile (che indubbiamente gli dovette sembrare cortissimo) di cavar fuori da chissà dove i ricordi con i quali avrebbe voluto riempire tutte quelle immagini vuote. Ma ne uscì molto poco. Da una vita come la sua, del resto, che poteva pretendere?
Il giorno che era partito da Genova, quello si lo ricordava bene. Era emigrato a dodici anni in Canada su una nave piena di topi, fame e sporcizia e da lì in poi s’era arrabattato a fare di tutto per sbarcare il lunario. Aveva cominciato come muratore. Poi sguattero in una pescheria. Poi s’era imbarcato come marinaio. Poi era finito meccanico nell’esercito durante la guerra, poi ancora minatore. Aveva anche tentato di comprare un fazzoletto di terra da coltivare ma proprio allora l’aveva pizzicato la polmonite e, dopo averla scampata per miracolo, se n’era tornato in Italia senza nemmeno una donna e più povero, se possibile, di quando era partito.
Aveva scoperto a quel punto, improvvisamente, di avere quasi cinquant’anni sul groppone e di essere solo. Se ne era accorto appena sbarcato, mentre camminava lentamente lungo il ciglio della strada che l’avrebbe portato alla stazione del treno e da lì al borgo dov’era nato.
- Ma che paese è diventato questo? - si era chiesto più volte mentre osservava meravigliato che anche in quel luogo (possibile?) il tempo era passato, che l’Italia era cambiata e che per la strada giravano vere automobili. Altro che miseria. Anzi. Pareva addirittura (e che beffa!) che proprio la miseria gli si fosse appiccicata alla schiena e l’avesse seguito all’estero lasciando così liberi dalla maledizione il resto dei suoi compatrioti.
- Che mi son perso in tutto questo tempo? Si sedette lungo il ciglio della strada e guardò i campi intorno, fino all’orizzonte velato. Erano pieni, colorati, fragranti. Odoravano del calore profumato del pane appena fatto, freschi come il crocchiare dell’insalata gonfia di rugiada, densi come il sugo oleoso dei pomodori maturi. Capì di aver buttato il tempo là dove non avrebbe dovuto.
Aprì piano le mani e le guardò a lungo, poi stiracchiò la bocca in un sorriso che non ne voleva sapere, un sorriso di circostanza, un sorriso sbagliato insomma, e appoggiò il mento al petto. E pianse. Passò del tempo, poi si rialzò in silenzio, lentamente, come aveva sempre fatto. Rialzarsi senza fretta è sempre la cosa migliore, perché a metterci troppa foga si rischia di ricadere subito indietro. Almeno questo in Canada l’aveva imparato. Si passò la mano sui calzoni e ricominciò a camminare trascinando i piedi verso la stazione e il suo paese, dove gli restava solo una sorella non maritata che viveva segregata e sola in una casa che era tutta una maceria.
Sembra una bestemmia a raccontarla oggi, una storia così. Perché quando parliamo di emigranti li immaginiamo sempre tutti ricchi sfondati, zeppi di soldi fin sopra gli occhi. Ma si ricordano solo quelli perché tutti gli altri son finiti male, sgambettati dalla sorte nel dimenticatoio e lì lasciati a marcire.
L’ho sempre detto: la Storia è proprio una puttana.

La storia vera però, a raccontarla tutta, era che Osvaldo una donna l’aveva trovata, in Canada, e pure parecchio belloccia. Rosemary si chiamava. L’aveva anche sposata. E aveva avuto pure un figlio maschio. L’aveva chiamato Umberto, come il nonno. La moglie, canadese e orfana di entrambi i genitori, aveva brontolato per un po’ ma poi aveva ceduto. Si capisce: meglio un Umberto in casa che niente casa. E Umberto era stato. Osvaldo s’era molto motivato dopo quella paternità e aveva cominciato a macinare ore su ore, anche quindici, sedici al giorno. Tornava a casa spaccato, la sera, ma la vista di quel fagotto rosa lo rendeva leggero e frizzante come l’aria di mare. E poi aveva poco più di vent’anni, allora: chi la sente la fatica a vent’anni, chiedo? Nel complesso la vita procedeva come doveva, il bambino cresceva come tutti i bambini e grazie alla buona volontà di Osvaldo non mancava mai il pane in tavola e qualche spicciolo per i ghiribizzi della sua Rosemary.
Ma un giorno il ghiribizzo fu a lui che venne. Passando davanti ad una elegante vetrina che pareva intagliata giusta dentro a un cornice di legno, aveva alzato gli occhi verso l’insegna e dentro l’insegna ci aveva letto, scritto a svolazzi dorati, Photographer. Si capisce: dietro al vetro facevano bella mostra di sé alcuni ritratti di uomini, donne e bambini. E di alcune famiglie in pompa magna. Osvaldo era rientrato in casa smanioso e aveva detto alla moglie che l’indomani sera sarebbero andati tutti e tre a farsi ritrarre dal fotografo. Di vestirsi per bene. Che costava un occhio ma lui voleva farlo lo stesso, perché era una cosa che sarebbe durata per un sacco di anni, anche dopo la loro morte.
La mattina era andato al lavoro con due ore d’anticipo per liberarsi prima e aveva sgobbato come un mulo per tutto il giorno. Era uscito dall’officina mentre il sole stendeva un velo nebbioso e opaco tra i grandi palazzi rugginosi della periferia e a Osvaldo aveva dipinto un sorriso rotondo in faccia. Camminava felice, di quella contentezza alla quale non si chiede nient’altro perché va bene così. Perché la felicità lui se l’era costruita da solo. L’aveva capito il trucco; e il trucco era che la differenza tra l’essere felici o tristi era sottile meno di un capello e che per beneficiarne bastava semplicemente prenderne atto.

Fischiettava, e mentre camminava guardandosi dall’incappare in qualche rigagnolo di piscio, aveva visto levarsi tra i vecchi palazzi una enorme nube nera. Poi aveva udito distintamente il suono lancinante della campana dei pompieri che si dirigeva verso l’incendio, che a vedere la colonna di fumo doveva essere parecchio grosso. Poveracci, aveva pensato Osvaldo mentre camminava; e intanto non poteva impedire ad un’inquietudine sottile ma sempre più molesta di stringergli la bocca dello stomaco. Poi non aveva pensato più a niente quando si era reso conto che l’incendio aveva ingoiato il palazzone dove lui viveva con Rosemary e Umberto e aveva capito che non ci sarebbe mai stata nessuna foto.
Da allora per Osvaldo non esistette più alcuna differenza tra l’essere felice o triste. Solo, la felicità non esisteva più.

Osvaldo piange sulle pagine del giornale mentre pensa a Rosemary, a Umberto e ai loro volti ormai svaniti nei guasti della memoria. Ha vinto il tempo, perché quel che non ricordi lo perdi per sempre.

Passò la notte. Poi passò il giorno e di nuovo la notte. Osvaldo era lì, immobile, adagiato sul suo letto come un cadavere, eppure vivo. Anzi. Per quasi due giorni non aveva fatto altro che cercare e cercare reminescenze di volti, odori e suoni da un passato ormai irrimediabilmente troppo lontano e definitivamente scomparso. Niente. Dal caleidoscopio dei suoi pensieri che via via andavano sempre più corrompendosi, germogliava malignamente solo la tormentata, assurda idea di non essere mai vissuto (potrebbe sembrare una cosa sciocca a ben riflettere, eppure è cosa comune a molti uomini) e la conseguente, ovvia, inevitabile domanda: se non sono mai vissuto, perché, perché tutto questo dolore?
Di odori e suoni ce n’erano stati parecchi in quei due giorni, non nella testa di Osvaldo ma tra le pareti della casa. La sorella l’aveva chiamato a lungo, disperata, convinta che magari fosse morto o che l’avesse abbandonata. Era rimasta senz’acqua e si era pure defecata addosso. Il telefono era in un’altra stanza e lei, paralizzata com’era, non si era potuta muovere di un millimetro. La casa esplodeva di un’odore acre, acido. Odore di morto. Ma Osvaldo in quelle ultime ore non era in casa. Era a Toronto, in ginocchio davanti a un cumulo di macerie fumanti.
Ma dopo aver setacciato ogni più piccolo spiraglio della memoria anche per lui fu il momento di tornare. Sbarrò gli occhi e si levò a sedere lentamente, come aveva sempre fatto, come un uomo che risorge. Fissò il pavimento, poi alzò gli occhi e cercò disperatamente una foto alle pareti.
Ne sarebbe bastata una, una qualunque, magari di sua madre, di suo nonno o di chiunque altro avesse avuto a che fare con la sua vita. Nulla. Fu la mancanza di quell’ultimo disperato appiglio che squarciò del tutto la sua mente ormai incrinata. Lo si capì dallo scatto repentino con il quale si drizzò in piedi. Girò per la casa per qualche minuto come un lupo feroce, poi entrò dritto nella stanza della sorella. Lei boccheggiava, e con le ultime forze che le restavano in corpo alzò una mano verso di lui a cercare aiuto.
-Sono qua sorella, sono qua – disse lui stringendo i denti e afferrandole la mano con un gesto orribile. Poi nulla.

***

Buongiorno Osvaldo… tutto bene?
Si… mi dia.. mi dia quella. Quanto costa?
Ansimava, e aveva indicato al fotografo una macchinetta fotografica di plastica dalle fogge variopinte (una novità, allora), una di quelle cose stupide che alla fine ci distruggeranno tutti e che si chiamano ignobilmente “usa e getta”. Il fotografo l’avevo squadrato un istante un po’ perplesso, poi gli aveva allungato la diavoleria, gli aveva detto son tredicimila lire e gli aveva chiesto se la sapeva usare.
No – aveva risposto accigliato – me lo spieghi lei. Era semplice. Giri qua, schiacci lì, giri ancora qua. Osvaldo aveva estratto delle banconote sgualcite da una tasca, aveva pagato ed era poi rimasto rapito ad osservare a lungo, senza aprire bocca, le pareti, gli scaffali, le cornici, gli album e i ritratti di sposi, bambini, anziani coniugi e anche di qualche animale. Poi se n’era andato.
Il fotografo lo vide uscire dal negozio curvo come un’ombra perversa. Era rimasto molto colpito dall’aspetto sbigottito di quell’improbabile cliente e dal modo con cui aveva squadrato l’interno del negozio.
Ma che ne poteva sapere lui che quel vecchio dentro lo studio di un fotografo non ci era mai stato prima?

E’ sera inoltrata ma il cimitero è ancora aperto. E vuoto. Nessuno, solo morti. Osvaldo sta rimirando, tra i vialetti ghiaiosi e l’erba curata, le lapidi di alcuni bambini, antichi compagni di scuola portati via a pochi anni da qualche malattia, e di qualche altro amico trapassato da poco. Li saluta e li chiama per nome. Tra le crepe della sua mente ormai avvelenata soffia ormai un vento impetuoso che mescola ovunque cumuli di fotografie vuote, mai impresse né sviluppate, e immagini di fantasmi orribili che lo torturano e non gli danno pace. Si porta le mani alle tempie e stringe forte i pugni, poi va a cercare il custode, non lo trova, allora si mette a urlare finché da una porticina sbuca un ometto che pare una barzelletta.
- Devo fare una fotografia, una fotografia! – urla Osvaldo, e il custode cerca di calmarlo in qualche modo e gli dice che è ora di chiusura e che deve andarsene ma niente, Osvaldo inizia a spingerlo con violenza, ora gli è addosso e lo sbatte ripetutamente contro il muro di mattoni rossi del camposanto fino a tramortirlo. Poi prende un badile trovato nei pressi e con un colpo secco conficca la lama nel cranio dell’ometto. Il rumore è sordo, attutito, e un brivido eccitato gli corre lungo la schiena. Poi punta il piede contro il viso del poveraccio e strattona il manico fino ad estrarre la lama che non ne vuole sapere di uscire.
Una fotografia, solo una fotografia… - ansima. – Voglio solo fare una fotografia…
Poi stringe il badile tra le mani e comincia a scavare. Ormai è quasi buio.

***

I Carabinieri entrarono nella casa di Osvaldo il giorno dopo, a seguito di una segnalazione dei vicini. Entrarono con delle maschere antigas perché l’odore era insopportabile. Nessuno aveva intuito l’origine di quei tremendi miasmi. O meglio, tutti avevano pensato che la vecchia fosse crepata e Osvaldo fosse scappato chissà dove.
Invece in casa trovarono un sacco di gente seduta ordinatamente sulle sedie in cucina. C’era la sorella di Osvaldo, seminuda, il collo rotto e gli occhi sbarrati, lorda delle proprie feci, con a fianco i cadaveri (o quel che ne restava) che erano stati sottratti dal cimitero la notte prima da ignoti. Ignoti fin a quel momento, s’intende.
In fondo alla stanza c’era Osvaldo in lacrime, disperato e sporco di terra, che rigirava in mano l’infernale “usa e getta”.
- Volevo solo una foto – disse in lacrime. - Solo una foto.

scritto da Massimo Pellegrin

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