nu. 27 anno terzo¬ 1 giugno 2006 mensile online gratuito
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rubrica

Il romanzo a puntate: "Il fiume e lo specchio" di Massimo Pellegrin


A tutte le persone nelle quali mi sono specchiato

"La vita è solo tempo che scorre.
Puoi darle forma?Progettarla?
Costringerla a rappresentare qualcosa?
Tanti credono di si ma sbagliano.
Lasciare un segno del tempo, dar forma al tempo…
Che illusione!"

Sebastiano Vassalli, L'oro del mondo

Venti anni fa

Di Massimo Pellegrin

I

Quando ripescarono Giulio io stavo più a valle. L'avevano trovato pallido, gonfio, sfinito. Erano due giorni che si nascondeva nel fiume, ma alla fine un cespuglio che grattava il pelo all'acqua l'aveva preso per i capelli e lì l'aveva tenuto per un giorno e una notte. Era stata una bambina la domenica presto a trovarlo. Aveva lanciato un urlo così acuto che gli uccelli del fiume erano schizzati via come tanti fuochi d'artificio. Erano arrivati quasi subito i Carabinieri, i pompieri, i sommozzatori, i curiosi.
Giulio era annegato parecchi chilometri a monte, proprio sotto i grandi ponti, mentre il resto di noi si scannava al sole come un esercito di lucertole rosa.
Il fiume ha un enorme letto ciottoloso e, specie sotto i ponti, in estate pare di stare in mezzo ad un'enorme spiaggia lastricata. A sentirla, la gente era furba e aveva capito tutto della vita. Il mare distava cinquanta, sessanta chilometri e il fiume era lì, quasi sotto casa; la sua acqua di vetro, fredda, che odorava di neve in disgelo anche in agosto, era un tentazione troppo invitante per restare inappagata, specie per gli abitanti dei paesini intorno che in quei mesi non avevano nient'altro di meglio da fare.
La domenica si respirava un'aria infernale, che nemmeno la frescura dell'acqua e il respiro leggero della brezza che l'accompagnava riuscivano a smorzare. Il chiasso della gente, dei bambini, delle radio e delle auto che sfrecciavano sopra i ponti era assordante e copriva quasi del tutto lo sciabordare educato dell'acqua, che altro danno non si curava di fare se non quello di recare in un sussurro la vita della montagna che aveva lasciato cento chilometri prima o un milione di anni fa. Ombrelloni, schiamazzi e musica strepitante. Era tutto insensato, come una chiazza di petrolio in mezzo al mare.
Il fiume non ha mai invitato nessuno, né chiesto rumore, o sporcizia. L'invito del fiume arriva quando già ci stai, solo, con i piedi nell'acqua gelata e il sole che ti esplode nelle tempie. Per questo al fiume ci andavo la sera, verso le sei, dopo lo studio. C'era sempre qualcuno, durante la settimana, che ricevuto l'invito accettava di buon grado. Erano persone che se ne stavano lontanissime e perse in quell'enorme gorgogliante anfiteatro vuoto, a rimirarsi estasiate i giochi dell'acqua tra le pietre, distese magari sui sassi bollenti levigati come uova, svanendo nei fumi di un quieto abbandono. Un amplesso che la solitudine rendeva complice e riservato. Giulio era uno di quelli. Capiva il fiume come una madre il figlio, leggeva la sua enorme distesa di ciottoli come le tessere ordinate di un smisurato mosaico.

L'avevano trovato pasto per i pesci, gonfio come un otre. L'aveva ripescato suo fratello. Avrebbe aspettato chi lo fa di mestiere se avesse immaginato che la vista di quel corpo disfatto l'avrebbe tenuto sveglio la notte per molti anni a venire. L'aveva tirato su di peso, trascinato sulla schiena e steso sull'erba gialla proprio mentre arrivavano i sommozzatori. Guardava sbigottito i capelli neri che, scendendo sul viso in ciocche maldisposte, gocciolavano pigramente sul viso tumefatto. Fissava il suo corpo lucido, nudo, violato dall'appetito dei lucci e il sole scintillante sulle labbra umide, scrutava inebetito e sgomento lo squarcio gelatinoso che gli si apriva sulla fronte in un improbabile sorriso sdentato. Non era stato un bello spettacolo, o almeno così si raccontava in paese.
Due giorni prima ero stato io a vederlo svanire sotto i piloni del ponte, dove l'acqua diventava cattiva, verde e vorticava in moti imprevedibili ed inaspettati. Era così sicuro del fiume, Giulio, che se n'era andato dove non avrebbe dovuto, dimenticando per un istante che i piloni del ponte non erano del fiume, ma delle auto che ci passavano sopra. L'acqua l'aveva preso, sbattuto e scaraventato contro il cemento. La testa gli si era spaccata come una noce e una pennellata di sangue denso aveva pitturato di rosso il grigiume piatto del pilastro. Mi ero levato i piedi correndo verso l'acqua, urlando il suo nome e chiedendo aiuto come un invasato mentre la gente intorno e i miei stessi compagni mi osservavano tra il divertito e l'incredulo. Ma c'era voluto poco per capire che non stavo scherzando e che Giulio stava morendo, anzi, forse era già morto e stava già sepolto sotto due metri d'acqua nera.

Io e Giulio passavamo intere giornate ficcati in mezzo alla fitta vegetazione che accompagna da sempre il fiume lungo il suo corso, e sembrava a tratti di essere finiti dentro ad un quadro di Gina Roma. Il fiume d'estate ha un letto enorme che ai lati si riempie di salici, pioppi, carpini, arbusti, ramarri, farfalle, cicale, uccelli, profumi e odori e si stava per ore ed ore a camminare e nuotare fino a quando il sole si abbassava arrossendo tra i rami più alti. Si tornava indietro sudati, graffiati da ortiche e spine, i capelli impiastricciati dall'acqua fragrante del fiume e la pelle tesa e secca come quella dei cacciatori di diecimila anni fa.

articolo prosegue sotto



Al fiume piaceva canzonarci, a tratti spariva per piantarsi sottoterra e finire chissà dove e un chilometro più in là ti trovavi un buon mezzo metro d'acqua inatteso e lieto, abitato da piccoli gamberi e alghe rossastre e viscide che ricoprivano i sassi del fondo. La corrente in quei punti è impetuosa ma in realtà desidera solo divertirsi cercando di buttarti giù, come un grosso cane che vuol giocare e lambirti il viso.
Non era infrequente imbattersi in pozze di acque isolate, lontane dalla corrente e quasi immobili, cristalline, profonde anche qualche metro, alimentate da sottili rigagnoli che muovevano pigramente qualche foglia raminga sulla superficie. Il fondo era un ricettacolo scuro di tronchi putridi, grosse pietre e un limo sottile che ricopriva tutto come un sudario di seta. Avevo una paura folle di quei buchi, ne stavo a debita distanza guardando Giulio che ci si buttava dentro, eccitato, dai rami degli alberi intorno.
Anni prima un ragazzo c'era rimasto. Si era tuffato da un albero e un tronco acuminato che stava nascosto dietro un riflesso, appena sotto il pelo dell'acqua ferma, gli aveva aperto la pancia da un lato. L'acqua era diventata subito rossa e le viscere avevano galleggiato fino a quando lo avevano ripescato. Dicevano anche che non era morto all'istante e che mentre annegava sprofondando nel sangue che ribolliva aveva visto le proprie budella galleggiargli intorno al viso.
Vero o falso che fosse, io in quello pozze non ci sarei mai entrato. Giulio invece con il fiume andava d'accordo sempre, anche quando ci si imbatteva in qualche vecchia bomba dell'ultima guerra (o di quella prima), o quando le piene, in primavera, ricoprivano gli alberi di sacchetti di plastica e il greto con immondizie di ogni genere.
Pochi giorni prima del fattaccio mi ero addirittura imbattuto in una mandibola di cristiano. L'avevo raccolta senza pensarci troppo e portata al vecchio beccamorto del paese per sentire che mi diceva. Martino, si chiamava. Avrà avuto sessant'anni, forse qualcuno di più, e nessuno l'aveva mai visto ridere. Aveva sotterrato troppa gente, forse, per fare altrimenti. Ma in fondo sul suo conto ben pochi sapevano qualcosa, eccetto le balle che la gente cattiva di tanto in tanto amava appiccicargli sulla schiena. Non si era mai impicciato di niente, in paese: mai una discussione, mai una parola di troppo. Sempre silenzio, muto come una tomba, e mi si perdoni la similitudine. L'avevo sempre visto vecchio, fin da bambino. Eravamo molto amici.
Aveva pigliato l'osso in mano e l'aveva rimirato qualche minuto tendendo il braccio.
" Nel fiume dove?"
" In fondo al maneggio, dove c'è la spiaggia coi sassi fini."
" Ah."
Poi al solito era ammutolito, posando la mandibola da qualche parte.
" E' del Vajont." mi aveva detto " Del '63, di qualche disgraziato. Adesso vattene."
Si era voltato ed era tornato a leggere il giornale o a fissare un punto indefinito oltre il vetro della finestra, serrando forte la mascella. Il tramonto scannava il suo volto con grinze ancora più scure e profonde. Una strana ruga, in particolare, segnava una virgola netta tra il mento e il lato sinistro della bocca. Di certo una vecchia cicatrice (ne parlerò ancora; tanto che, senza di essa, nessuna di queste righe sarebbe mai stata scritta).
Ero rimasto colpito da quella rivelazione. Passai un sacco di notti a pensare al fiume che, dopo tutti quegli anni di oblio, e per chissà quale motivo, aveva deciso di riportare all'aria quella mandibola solo perché io la trovassi e la seppellissi finalmente lontano dall'acqua.
Giulio invece non aveva battuto ciglio.
" E' una ruota" diceva "che vuoi farci?"
Giulio si poneva nei confronti del tempo in maniera del tutto anonima. Non riuscii mai a capire, anche negli anni che seguirono la sua morte tragica, se avesse mai creduto a quanto diceva o se, al contrario, ripetesse solo quello che sentiva dai vecchi.

(fine della prima puntata)

 

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a cura di Abcveneto

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