Il romanzo a puntate: "Il fiume e lo specchio"
di Massimo Pellegrin
A tutte le persone nelle quali mi sono specchiato
"La vita è solo tempo che scorre.
Puoi darle forma?Progettarla?
Costringerla a rappresentare qualcosa?
Tanti credono di si ma sbagliano.
Lasciare un segno del tempo, dar forma al tempo
Che illusione!"
Sebastiano Vassalli, L'oro del mondo
Venti anni fa
Di Massimo Pellegrin
I
Quando ripescarono Giulio io stavo più a valle.
L'avevano trovato pallido, gonfio, sfinito. Erano due
giorni che si nascondeva nel fiume, ma alla fine un cespuglio
che grattava il pelo all'acqua l'aveva preso per i capelli
e lì l'aveva tenuto per un giorno e una notte.
Era stata una bambina la domenica presto a trovarlo. Aveva
lanciato un urlo così acuto che gli uccelli del
fiume erano schizzati via come tanti fuochi d'artificio.
Erano arrivati quasi subito i Carabinieri, i pompieri,
i sommozzatori, i curiosi.
Giulio era annegato parecchi chilometri a monte, proprio
sotto i grandi ponti, mentre il resto di noi si scannava
al sole come un esercito di lucertole rosa.
Il fiume ha un enorme letto ciottoloso e, specie sotto
i ponti, in estate pare di stare in mezzo ad un'enorme
spiaggia lastricata. A sentirla, la gente era furba e
aveva capito tutto della vita. Il mare distava cinquanta,
sessanta chilometri e il fiume era lì, quasi sotto
casa; la sua acqua di vetro, fredda, che odorava di neve
in disgelo anche in agosto, era un tentazione troppo invitante
per restare inappagata, specie per gli abitanti dei paesini
intorno che in quei mesi non avevano nient'altro di meglio
da fare.
La domenica si respirava un'aria infernale, che nemmeno
la frescura dell'acqua e il respiro leggero della brezza
che l'accompagnava riuscivano a smorzare. Il chiasso della
gente, dei bambini, delle radio e delle auto che sfrecciavano
sopra i ponti era assordante e copriva quasi del tutto
lo sciabordare educato dell'acqua, che altro danno non
si curava di fare se non quello di recare in un sussurro
la vita della montagna che aveva lasciato cento chilometri
prima o un milione di anni fa. Ombrelloni, schiamazzi
e musica strepitante. Era tutto insensato, come una chiazza
di petrolio in mezzo al mare.
Il fiume non ha mai invitato nessuno, né chiesto
rumore, o sporcizia. L'invito del fiume arriva quando
già ci stai, solo, con i piedi nell'acqua gelata
e il sole che ti esplode nelle tempie. Per questo al fiume
ci andavo la sera, verso le sei, dopo lo studio. C'era
sempre qualcuno, durante la settimana, che ricevuto l'invito
accettava di buon grado. Erano persone che se ne stavano
lontanissime e perse in quell'enorme gorgogliante anfiteatro
vuoto, a rimirarsi estasiate i giochi dell'acqua tra le
pietre, distese magari sui sassi bollenti levigati come
uova, svanendo nei fumi di un quieto abbandono. Un amplesso
che la solitudine rendeva complice e riservato. Giulio
era uno di quelli. Capiva il fiume come una madre il figlio,
leggeva la sua enorme distesa di ciottoli come le tessere
ordinate di un smisurato mosaico.
L'avevano trovato pasto per i pesci, gonfio come un otre.
L'aveva ripescato suo fratello. Avrebbe aspettato chi
lo fa di mestiere se avesse immaginato che la vista di
quel corpo disfatto l'avrebbe tenuto sveglio la notte
per molti anni a venire. L'aveva tirato su di peso, trascinato
sulla schiena e steso sull'erba gialla proprio mentre
arrivavano i sommozzatori. Guardava sbigottito i capelli
neri che, scendendo sul viso in ciocche maldisposte, gocciolavano
pigramente sul viso tumefatto. Fissava il suo corpo lucido,
nudo, violato dall'appetito dei lucci e il sole scintillante
sulle labbra umide, scrutava inebetito e sgomento lo squarcio
gelatinoso che gli si apriva sulla fronte in un improbabile
sorriso sdentato. Non era stato un bello spettacolo, o
almeno così si raccontava in paese.
Due giorni prima ero stato io a vederlo svanire sotto
i piloni del ponte, dove l'acqua diventava cattiva, verde
e vorticava in moti imprevedibili ed inaspettati. Era
così sicuro del fiume, Giulio, che se n'era andato
dove non avrebbe dovuto, dimenticando per un istante che
i piloni del ponte non erano del fiume, ma delle auto
che ci passavano sopra. L'acqua l'aveva preso, sbattuto
e scaraventato contro il cemento. La testa gli si era
spaccata come una noce e una pennellata di sangue denso
aveva pitturato di rosso il grigiume piatto del pilastro.
Mi ero levato i piedi correndo verso l'acqua, urlando
il suo nome e chiedendo aiuto come un invasato mentre
la gente intorno e i miei stessi compagni mi osservavano
tra il divertito e l'incredulo. Ma c'era voluto poco per
capire che non stavo scherzando e che Giulio stava morendo,
anzi, forse era già morto e stava già sepolto
sotto due metri d'acqua nera.
Io e Giulio passavamo intere giornate ficcati in mezzo
alla fitta vegetazione che accompagna da sempre il fiume
lungo il suo corso, e sembrava a tratti di essere finiti
dentro ad un quadro di Gina Roma. Il fiume d'estate ha
un letto enorme che ai lati si riempie di salici, pioppi,
carpini, arbusti, ramarri, farfalle, cicale, uccelli,
profumi e odori e si stava per ore ed ore a camminare
e nuotare fino a quando il sole si abbassava arrossendo
tra i rami più alti. Si tornava indietro sudati,
graffiati da ortiche e spine, i capelli impiastricciati
dall'acqua fragrante del fiume e la pelle tesa e secca
come quella dei cacciatori di diecimila anni fa.
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Al fiume piaceva canzonarci, a tratti spariva per piantarsi
sottoterra e finire chissà dove e un chilometro
più in là ti trovavi un buon mezzo metro
d'acqua inatteso e lieto, abitato da piccoli gamberi e
alghe rossastre e viscide che ricoprivano i sassi del
fondo. La corrente in quei punti è impetuosa ma
in realtà desidera solo divertirsi cercando di
buttarti giù, come un grosso cane che vuol giocare
e lambirti il viso.
Non era infrequente imbattersi in pozze di acque isolate,
lontane dalla corrente e quasi immobili, cristalline,
profonde anche qualche metro, alimentate da sottili rigagnoli
che muovevano pigramente qualche foglia raminga sulla
superficie. Il fondo era un ricettacolo scuro di tronchi
putridi, grosse pietre e un limo sottile che ricopriva
tutto come un sudario di seta. Avevo una paura folle di
quei buchi, ne stavo a debita distanza guardando Giulio
che ci si buttava dentro, eccitato, dai rami degli alberi
intorno.
Anni prima un ragazzo c'era rimasto. Si era tuffato da
un albero e un tronco acuminato che stava nascosto dietro
un riflesso, appena sotto il pelo dell'acqua ferma, gli
aveva aperto la pancia da un lato. L'acqua era diventata
subito rossa e le viscere avevano galleggiato fino a quando
lo avevano ripescato. Dicevano anche che non era morto
all'istante e che mentre annegava sprofondando nel sangue
che ribolliva aveva visto le proprie budella galleggiargli
intorno al viso.
Vero o falso che fosse, io in quello pozze non ci sarei
mai entrato. Giulio invece con il fiume andava d'accordo
sempre, anche quando ci si imbatteva in qualche vecchia
bomba dell'ultima guerra (o di quella prima), o quando
le piene, in primavera, ricoprivano gli alberi di sacchetti
di plastica e il greto con immondizie di ogni genere.
Pochi giorni prima del fattaccio mi ero addirittura imbattuto
in una mandibola di cristiano. L'avevo raccolta senza
pensarci troppo e portata al vecchio beccamorto del paese
per sentire che mi diceva. Martino, si chiamava. Avrà
avuto sessant'anni, forse qualcuno di più, e nessuno
l'aveva mai visto ridere. Aveva sotterrato troppa gente,
forse, per fare altrimenti. Ma in fondo sul suo conto
ben pochi sapevano qualcosa, eccetto le balle che la gente
cattiva di tanto in tanto amava appiccicargli sulla schiena.
Non si era mai impicciato di niente, in paese: mai una
discussione, mai una parola di troppo. Sempre silenzio,
muto come una tomba, e mi si perdoni la similitudine.
L'avevo sempre visto vecchio, fin da bambino. Eravamo
molto amici.
Aveva pigliato l'osso in mano e l'aveva rimirato qualche
minuto tendendo il braccio.
" Nel fiume dove?"
" In fondo al maneggio, dove c'è la spiaggia
coi sassi fini."
" Ah."
Poi al solito era ammutolito, posando la mandibola da
qualche parte.
" E' del Vajont." mi aveva detto " Del
'63, di qualche disgraziato. Adesso vattene."
Si era voltato ed era tornato a leggere il giornale o
a fissare un punto indefinito oltre il vetro della finestra,
serrando forte la mascella. Il tramonto scannava il suo
volto con grinze ancora più scure e profonde. Una
strana ruga, in particolare, segnava una virgola netta
tra il mento e il lato sinistro della bocca. Di certo
una vecchia cicatrice (ne parlerò ancora; tanto
che, senza di essa, nessuna di queste righe sarebbe mai
stata scritta).
Ero rimasto colpito da quella rivelazione. Passai un sacco
di notti a pensare al fiume che, dopo tutti quegli anni
di oblio, e per chissà quale motivo, aveva deciso
di riportare all'aria quella mandibola solo perché
io la trovassi e la seppellissi finalmente lontano dall'acqua.
Giulio invece non aveva battuto ciglio.
" E' una ruota" diceva "che vuoi farci?"
Giulio si poneva nei confronti del tempo in maniera del
tutto anonima. Non riuscii mai a capire, anche negli anni
che seguirono la sua morte tragica, se avesse mai creduto
a quanto diceva o se, al contrario, ripetesse solo quello
che sentiva dai vecchi.
(fine della prima puntata)
a cura di Abcveneto