Il romanzo: Il fiume e lo specchio
Seconda puntata
Di Massimo Pellegrin
II
Al funerale c'era una moltitudine di persone, quando
muore un ragazzo c'è sempre un sacco di gente.
Avevo seguito svogliatamente la cerimonia e durante il
tedioso tragitto verso il cimitero avevo fumato un paio
di sigarette per combattere l'arsura di quell'agosto assassino.
E' proprio vero che l'estate è la stagione della
morte. L'inverno no, tutto il contrario, quello cova in
segreto e si prepara. Ma l'estate
Camminare per
una stradina di terra crepata in mezzo ai campi della
pianura, con le cicale nelle orecchie e il calore che
ti squassa il cranio, quella è la morte.
Il corteo è entrato in cimitero, il prete sta
farfugliando sommessamente il suo ufficio pensando ad
altri casi, innaffia la bara con due gocce d'acqua e un
po' d'incenso. La madre di Giulio piange, si è
avvicinata alla bara, porta l'indice e il medio alle labbra,
poi poggia dolcemente i polpastrelli umidi sul legno della
bara. Lo fa lentamente, come se dovesse plasmare l'aria
intorno, come un direttore d'orchestra o un'equilibrista
che ondeggia sul filo. Vedo i suoi occhi arrossati e turgidi
come i petali di una rosa e il pozzo nero nel quale, dall'alto,
quegli stessi occhi si specchiano. Poi ritrae la mano,
si volta verso un parente che con garbo la trae a sé.
Poi schianta a terra. Gente intorno, chiamate un dottore.
Ma in un minuto è di nuovo in piedi, stravolta,
con il naso rotto che butta sangue e le lacrime e la terra
appiccicate al viso.
Adesso hanno pigliato Giulio, lo stanno issando con un
paranco cigolante verso la sua nicchia a mezza altezza
e lo spingono dentro. Un muratore, apparso da chissà
dove come uno spiritello timido, comincia in silenzio
a tirar su il muretto di mattoni che per i prossimi trent'anni
terrà Giulio al sicuro.
L'uomo lavora sodo sotto il sole vigliacco, senza un filo
di vento che gli porti sollievo. Sta colando sudore come
uno straccio bagnato, ma non interrompe il lavoro. Il
sale umido gli penetra negli occhi, gli incolla i vestiti
addosso e gli inzuppa le mani che manovrano con abilità
la cazzuola. Ma non si ferma. Continua riga dopo riga
a disporre ordinatamente i mattoni. Alle sue spalle ascolta
con disgusto la gazzarra di ciance aizzata dalle vecchie
del paese. Sembra di stare al mercato, in mezzo a bestie
in gabbia. E' così a tutti i funerali, in campagna.
In città no: c'è meno gente. Forse è
ancora peggio.
Il muratore ha finito, Giulio è sistemato. Finalmente.
L'uomo valuta attentamente il suo lavoro, toglie con una
spugna bagnata qualche schizzo di cemento dal marmo della
cornice, si volta e si passa il fazzoletto sul viso; lo
ricaccia maldestramente in tasca, raccoglie i suoi quattro
arnesi e se ne va senza curarsi di nessuno, fendendo la
folla crocchiante. Io dal mio angolo scruto i suoi passi,
il suo capo chino e il suo avanzare mesto seppur frettoloso.
Scorgo uno sguardo tra lui e la madre di Giulio. Un solo
istante, un solo attimo, e tutto il dolore precipita in
quel rapido scambio d'occhiate.
Me ne vado, ho finito le sigarette.
Di Massimo Pellegrin
a cura di Abcveneto