Padova: fioretti di maggio
Per tutto il mese di maggio, quand'ero
bambina, verso sera zia Maria, la sorella di mia madre,
passava da casa nostra per andare poi tutti insieme al
"fioretto", la messa che si celebrava nella
nostra Chiesa parrocchiale.
Di
Luccia Danesin
A catechismo ci insegnavano che maggio era il mese dedicato
alla Madonna, alla mamma di Gesù, che essendo mamma,
voleva bene a tutti i bambini; nei prati c'erano tantissimi
dei suoi occhietti, gli occhietti della madonna, che però,
chissà perché, non si raccoglievano come
le margherite e i ranuncoli, li guardavamo solo: erano
così piccoli, celesti
Maggio è un
mese particolare dove l'aria prende tepore e profumo,
dove ancora resiste il verde trasparente e tenero delle
nuove foglie di aprile, e le gemme rigonfie sembrano trattenersi
a stento dal liberare i petali di quel fiore ancora tutto
stretto e accartocciato. Così, da un giorno all'altro,
vedi l'ippocastano, quello che hai sempre avuto sotto
casa. Lo noti perché è diverso, rinvigorito
dai suoi tanti grappoli infiocchettati. L'edera che fa
da siepe alle case e ai condomini nel percorso verso la
fermata dell'autobus, ha nuovi rametti all'insù
con fogliette morbide al tatto, perfette nel disegno e
nella forma e le si guarda con quella stupita meraviglia
che si prova di fronte alla piccola mano di un neonato:
così formata e così perfetta in tutto.
Il percorso che separava la nostra abitazione dalla chiesa
era di appena cinque/seicento metri ma ci si arrivava
percorrendo un lungo viale di platani altissimi dove,
delimitato da una alta e imponente ringhiera, si intravedeva
il parco dei Conti
. Alberi secolari, un laghetto
col ponticello, prati e collinette dove poter correre,
scivolare e tra un cespuglio di sambuco odoroso e un canneto
piumato immaginarsi nell'Africa nera con il macete per
farsi largo tra pantere e serpenti
quante cose io
e mio fratello ci immaginavamo .. se ci avessero permesso
di entrare.
Durante il tragitto, noi bambini stavamo avanti, guardati
dalle due sorelle - mamma e zia - che parlottavano fittamente;
parlavano nel loro dialetto d'origine, il siciliano. Erano
venute a Padova da Messina assieme ai nostri nonni ancora
ragazzine. Fu una scelta dolorosa per Francesco (don Ciccio)
e per la moglie Giuseppa (Giuseppina). Ma, concordi, avevano
preferito seguire i loro tre figli maggiori che volevano
venire in "alta Italia" dove c'erano molte più
possibilità di lavoro. Le due figlie più
piccole, Maria e Beatrice, si erano adattate al nuovo
ambiente e alla nuova casa con maggiore facilità;
ma nonostante i molti anni trascorsi, pur adulte e sposate,
quando si trovavano assieme usciva loro spontaneo parlare
ancora con l'antico idioma. Pensavano che noi bambini
non capissimo quanto si dicevano mentre, essendo sempre
stati a stretto contatto con la nonna, comprendevamo quasi
tutto.
La chiesa era fresca e in penombra. All'altare c'erano
angeli lucidi, di marmo rosato. Al lato destro della navata,
dentro una grande nicchia, risplendeva una bambolesca
madonna inanellata e agghindata da decine di collane,
di bracciali d'oro e pietre preziose. M'incantavo di tanta
bellezza e ricchezza. La zia diceva sempre che quella
"era una Parrocchia ricca". Intorno alla Chiesa
infatti si era formato un bel quartiere di ville e villini,
nuovi o ristrutturati, tutti con un giardinetto ben curato.
Commercianti, piccoli industriali, gente che poteva essere
generosa con i tanti bisogni e cure di una parrocchia.
Non erano ancora le sette quando si prendeva posto nel
secondo banco (il primo no, anche se poi immancabilmente
rimaneva vuoto); l'anziana aiutante del parroco, la perpetua,
aveva giusto il tempo per sistemare i fiori vicino alla
balaustra; per accendere i ceri invece arrivava alla fine
un ometto corto-corto che a stento arrivava con la bacchetta
e lo stoppino acceso in cima agli alti candelotti posti
ai lati dell'altare. Le fiammelle, le luci sfrigolanti
dei ceri facevano calda e animata quella penombra. Da
una porta laterale, silenziosamente arrivava il parroco.
Un uomo bello. Alto, asciutto, con un bel viso dalla carnagione
chiara dove spiccavano grandi occhi azzurro intenso. Teneva
fra le mani, proteggendolo con cura, un grande calice
d'oro, coperto da tante salviettine che poi dispiegava
una ad una e, alla fine della messa, ripiegava con una
precisione, con un rituale che mi ipnotizzava.
La parte della messa però che più aspettavo
e temevo, perché sempre mi dava un leggero mancamento,
era quando, annunciato da un ripetuto scapannelìo,
lui si volgeva verso di noi e con le braccia tese alzava
alto l'ostensorio. Mentre tutti i fedeli erano con la
testa bassa e riverenti, io guardavo dritta il prete che,
immobile al centro dell'altare, per fissare in alto l'ostia
consacrata, rovesciava gli occhi azzurri tanto da farli
quasi scomparire del tutto. La suggestione del bianco
di quelle orbite con il bianco della grande ostia sollevata,
erano la Rivelazione: io - solo io che non abbassavo gli
occhi - vedevo il prete che diventava Dio.
Era il segreto, il tesoro di quei fioretti di maggio.
Un'emozione che accantonavo subito quando, all'uscita
dalla chiesa, io e Franco eravamo presi dalla fresca golosità
di quel gelatino da 10 lire che la zia ci comperava dall'uomo
del carrettino giallo-crema appostato strategicamente
nel vialetto.
© Luccia Danesin
FIORETTI DI MAGGIO
All'interno, in profondo
bambina
fraseggio luoghi, tepori,
popolo di ritratti il viaggio.
Affretto il passo
temendo
quel loro Dio tiranno
e quegli altri
eternamente in lutto.
Accanto la sera,
il profumo
l'universo intorno.
Di
Luccia Danesin