Alitalia: requiem per un mito
Risultano ormai così sgualcite
le divise delle hostess della nostra compagnia di bandiera,
seppur uscite dalle abili mani della maison Balestra.
Le fini livree degli aerei quasi non sembrano spuntate
dall'italico genio di Trussardi; i giornali ci dicono
che l'Alitalia perde ogni volta che fa volare un aereo.
Non riesce nemmeno a stare dentro con le spese vive, nonostante
molte compagnie concorrenti macinino utili milionari.
a cura di Abcveneto
Un certo fatalismo congenito nell'anima italiana, potrebbe
portarci a considerare questo fatto solo come uno dei
plurimi aspetti dello sfascio del nostro sistema industriale.
Tale spiegazione ha l'incommensurabile vantaggio di assolvere
l'inettitudine della nostra classe politica, ma se ben
ci pensiamo è il peggior capo d'accusa nei confronti
di quest'ultima.
Domandarci, ma soprattutto domandare a chi di dovere,
il perché di questo stato di cose ci porta a delle
considerazioni piuttosto ampie che mi è impossibile
esaurire in questa sede, pertanto mi accingo a segnalare
una lettura che senz'altro può aiutarci in tal
senso, si tratta di "Alitalia: gli anni dell'oblio",
scritto da Antonio Bordoni, esperto internazionale di
aviazione commerciale, per i tipi della "Travel Factory"
(€ 20,00 www.travelfactory.it
).
Tale
opera fornisce un eccellente quadro delle reali cause
dello stato comatoso della nostra compagnia di bandiera,
senza addurre alle trite e ritrite cause sciorinate dalle
pagine economiche dei quotidiani (crescita delle compagnie
low-cost, costi del lavoro troppo elevati, mancanza di
flessibilità
), per cercare di cogliere i
gangli reali del problema, talora in modo anche troppo
specialistico e settoriale, con il rischio di perdere
di vista la reale portata "sociale" del fenomeno.
Un paese senza una grande compagnia aerea competitiva
a livello mondiale è un paese più debole,
meno incentivato all'investimento sulle infrastrutture,
dove i flussi turistici, transoceanici specialmente, (settore
vitale per l'economia italiana) saranno contingentati
dalle compagnie aeree straniere, per non parlare poi della
perdita dell'indotto, dell'immagine e dell'ingresso di
capitali attuato dai clienti stranieri trasportati da
Alitalia.
E' chiaro quindi che Alitalia non è solo un'industria
che da vivere a circa 22.000 persone, ma è anche
un operatore strategico irrinunciabile, anche in virtù
del mantenimento di una "cultura del volo",
ormai in via di smarrimento.
Si è per troppo tempo detto che le misure "protezionistiche"
o "di nicchia" sono una droga per l'economia,
tanto che si imputa alla fine di queste situazioni la
generalizzata crisi industriale italiana. Ammesso che
possano essere considerate droghe, e non pratiche ancora
largamente usate da molti stati (vedi la Cina, che sovvenziona
le esportazioni delle sue imprese fino al 13%) vorrei
che mi si trovasse uno specialista in disintossicazione
che proponesse come terapia il blocco totale ed immediato
dell'assunzione di sostanze stupefacenti, senza alcun
processo intermedio. Non mi risultano, poi, dogmi della
Congregazione per la Dottrina della Fede concernenti l'univocità
economica, pertanto non riesco a capire perché
in tutte le economie del mondo si debba inseguire sempre
e comunque il Verbo della moneta, del profitto e dello
sfruttamento.
E' evidente che alle spalle ci sia ben altro, e mi sembra
altrettanto evidente che sia ridicolo imputare ad altri
soggetti una crisi che la nostra classe dirigente ha plasmato
con le proprie mani.
Quali altre compagnie si basano su due "hub"
(Fiumicino e Malpensa), anziché su un unico grande
aeroporto di scambio? Perché le rotte transoceaniche
e domestiche sono ridotte all'osso, mentre quelle a medio
raggio sono bellamente esposte alla concorrenza di vettori
più competitivi? Perché si sono susseguite
una infinita schiera di operazioni di management lasciate
spesso a metà o non concluse (Alitalia Team, Eurofly
)?
Perché non si sono mai stette alleanze davvero
durature e significative? Perché Alitalia non si
è posizionata su un segmento "di qualità"
portando invece avanti ad una politica industriale promiscua
e pasticciata?
Queste e molte altre ancora potrebbero essere le domande
che, dopo aver letto questo libro, i cittadini dovrebbero
fare ai loro amministratori; tutto questo non per un afflato
di giustizialismo della domenica, ma per domandare ragione
del coma di un importante patrimonio pubblico, appartenente
pertanto in egual misura a tutti i cittadini italiani.
Non è un caso, infatti, che in tanti stiano mettendo
gli occhi sopra i "tesori di famiglia" di Alitalia,
perché aggiudicarsi a prezzo di realizzo la settima
compagnia aerea del mondo, è davvero un'ottima
occasione.
Ciò che appare evidente dalla lettura del libro,
è che la crisi ha radici profonde, fatto che ha
giustificato un infinito scarica barile all'interno dell'insieme
delle forze politiche; tuttavia è increscioso che
le uniche ricette proposte siano quelle dei "tagli"
e "dimagrimenti", come se la storia non avesse
ancora insegnato che la miglior difesa è sempre
l'attacco.
Estremamente ben curato, poi, è l'aspetto comparativo;
da cui si evincono, tabelle e dati alla mano, le strategie
sbagliate e fallimentari, gli errori e le sottovalutazioni
sulla politica industriale della compagnia.
L'unico augurio che posso fare, è quello che un
giorno ci sia davvero "una compagnia migliore",
come recitava lo spazio pubblicitario acquistato dai piloti
nel 1994 per denunciare la miopia delle scelte aziendali
(Bordoni a tal proposito commenta sarcasticamente: gli
italiani la stanno ancora sognando nell'anno 2006), e
che il "vi porteremo ovunque" non venga riciclato
da qualche altro operatore.
Alberto Leoncini