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Nu. 36, IV - 1 marzo 2007 -mensile telematico sul Veneto e Triveneto e cosa fanno i veneti dentro e fuori d'Italia

Arturo Toscanini, il tema sulle variazioni


Penso alla “Donna di prodi” di carducciana memoria: il “Vate ufficiale d’Italia” alludeva a Cesena. Parma, a rigor di poesia, è, dunque, donna di musici: Verdi, Toscanini (si conobbero, è bene ricordarlo!): tutti parmigiani (si dice così!). Fato Destino Caso? Mistero che incombe (ingrediente essenziale per la biografia d’un Grande). Toscanini, dunque, emerge dagl’imperscrutabili flutti d’una scia di combinazioni astrali.

Di Francesco Ungaretti

La nascita (come spesso accade) non lascia, però, presagire alcunché di grande sul futuro del giovane Arturo: il padre, sarto, di lontane origini toscane (toscanini, patronimico diminutiveggiante impregnato di significato), garibaldino; la madre, cucitrice. Il primo, di tanto in tanto, accenna arie d’opera (un particolare trascurabile, molti lo fanno e poi se si pensa al periodo!); la seconda, precisa, meticolosa, s’intuisce dalle note biografiche, una donna, insomma, di carattere (ci s’avvicina al Personaggio, ora). Il giovane Arturo, talento precoce, di spiccatissime doti mnemoniche e dall’orecchio “assolutissimo”, consegue il diploma di violoncello col massimo dei voti, titolo rilasciato dal Conservatorio della propria città natale, ma risulta da subito fatalmente attratto dalla tastiera pianistica (un’attrazione dovuta non ad ambizioni strumentali specifiche, ovvio, sibbene dettata da un’interiore impellenza a visualizzare la musica; quell’esigenza d’analisi verticale, scientifica, di dominio del suono rappresentato, anzi che sentito, e che solamente il pianoforte permette, dando la mappa esatta del testo, la strategia delle tensioni sonore, la sua topografia; che rende inoltre intelligibile la distribuzione dei suoni formanti l’amalgama delle partiture orchestrali) conferma ulteriore della memoria fotografica che caratterizzava l’intelletto del grande Parmigiano. Nulla accade per caso, è vero, ma il Nostro comincia a dirigere per caso o, meglio, grazie a una coincidenza del Destino: una sostituzione fatale…, tanto per tornare al mistero. Infatti il primo cimento avviene in Brasile coll’esecuzione dell’Aida, alla testa d’un organico facente parte d’una compagnia formatasi in occasione di quella tournée, appunto. Un trionfo: si direbbe un ingresso nell’arte direttoriale dalla porta principale: ma “Non t’inganni l’ampiezza dell’entrare…”: monito dantesco sempre valido.

Seguono, infatti, numerosissime vicissitudini che vedono Arturo (re Artù’, come icasticamente lo definiva il Poeta Armato, Gabriele d’Annunzio, il quale colla propria vis poetica benignamente lacerante, catalizzatrice inventiva sloganistica, diceva che il grande direttore tramutasse la bacchetta, “ramo schiantato”, in vera “fiamma eroica”) sballottato qua e là tra infiniti concerti, estenuanti prove, stagioni colossali caratterizzate da indigestione di repliche reiterate; trionfi incondizionati, ai limiti del parossismo fantastico; sbigottitissime incomprensioni, altrettanto parossistiche; ridda di pareri ferocemente discordanti, pur nella univoca certezza d’una grandezza incondizionata, ma agitata in una tormenta d’ostilità d’ogni genere e sorta. Pare, a leggere le molteplici biografie scritte sul Personaggio che più che le grandi opere del repertorio lirico internazionale, pur tecnicamente dominate fin negli interstizi più infinitesimali del testo, Toscanini nelle orecchie avesse la riflessione del motto oraziano “Non omnis moriar”; quella percezione, insomma, fiera della propria grandezza, della sicura ed ineluttabile destinazione, che prescinde da qualunque autocompiacimento per obbedire a una Legge Universale, non scritta, che comanda, in silenzio, da ogni fibra dell’essere. Prescindo, qui, dai riferimenti arcicronologici, dalle estrapolazioni dei carteggi, dalle mezze lettere, da tutte le contingenze, insomma, brute, che invece di testimoniare dell’universale non provocano che l’orrore dell’incomprensione, il pericolo di caduta nel gorgo della quotidianità, del particolare: libri e cronache ne sono ridondanti per accontentare i palati più ordinari e bisognosi di pasti quotidiani per sopravvivere.
Cito solamente un matrimonio, celebrato in Veneto, a Conegliano Veneto, - organizzato in quel luogo anche per schivare, inutilmente poi, il contagio della folla strepitante - colla signora Carla: donna, questa, pazientissima (le numerose biografie sul Direttore ce la descrivono, e tale la restituiamo ai lettori, senza nulla aggiungere, vista la delicatezza della materia, dedita tutta al marito, alla famiglia, a prova di infedeltà, addirittura) la quale gli darà due figlie: Walli, quindi, Wanda: quest’ultima convolerà, a metà Anni Trenta del Novecento, stranamente padre ostile, col promettentissimo e giovane Vladimir Horovitz, adusto talentuosissimo pianista sovietico, affacciato su un futuro di grandissimo prestigio, che non deluderà minimamente le ingombranti aspettative della Storia. Nella biografia di Toscanini risalta a caratteri cubitali la direzione al Metropolitan Di New YorK, città nella quale venne chiamato da Gatti Casazza e dove diresse opere di Wagner, Puccini (prima della Fanciulla del West) e del conterraneo Verdi, e dalla quale, poi, il Direttore si allontanerà forse sotto la spinta dello sdegno fiero per l’esteriorità; lui ch’era l’incarnazione dell’Essenzialità: quell’esteriorità che, di necessità, governa ogni apparato che dia risalto al profilo ipercommerciale dei fenomeni, come appunto avviene in America, proclive, per definizione, al Kolossal.
La stagione new-yorkese cominciò sotto i migliori auspicii, e dette molti tra i frutti migliori ottenuti dal Maestro. Fece successivamente ritorno nella medesima Città allorquando divenne Direttore Principale della Filarmonica. E qui aprirei un inciso per lumeggiare ulteriormente il ventaglio delle sue straordinarie doti: l’indipendenza artistica del carattere. Altra prerogativa del Nostro oltre l’essenzialità ed il rispetto alla fedeltà del testo era appunto, quella della assoluta indipendenza di pensiero ed artistica, svincolata dalle contingenze dei tempi, dalle mode anche politiche, pressantissime in quel momento. Del Nostro è significativo, infatti, l’episodio bolognese concretatosi nel rifiuto di eseguire l’ “internazionale” (mi si passi la battuta) Fascista: fatto emblematico, e ciò non tanto in considerazione della carica ideologica sua, sibbene della capacità assoluta di imporre la categoria pura dell’autodeterminazione, da parte dell’Artista, dell’uomo Toscanini, animo riottosissimo, ostile a qualunque forma di “eterodirezione”: da grande direttore; è evidente. Della stessa marca fu l’avversione conclamata al Nazismo, che provocò il distacco dall’amata sua wagneriana Germania di Bayreuth. L’arte direttoriale di Arturo Toscanini, tralasciando, qui, le toscaninate divenute prassi, ha rappresentato la via estrema di salvezza per la musica operistica italiana, e non solo, poiché il grande Parmigiano, ha disboscato laddove l’abitudine, sempre ottusa, aveva infarcito la musica di concrezioni che ne impedivano, irrimediabilmente, la piena comprensione; che ne ostacolavano quell’intellezione limpida, la quale sola può dare la misura del Messaggio recondito, contenuto nel suono. La sua opera, dunque, s’è contraddistinta per la palingenesi del gesto, sinceramente, fieramente interpretativo; per la liberazione del suono dall’arbitrio, dallo pseudoaffetto. Il suo comando non era, come a una superficiale lettura potrebbe apparire, mero capriccio d’un animo puramente quanto gratuitamente protervo, come purtroppo maltestimoniato da alcune appannatissime registrazioni, che nella freddezza glaciale della imparziale fedeltà tecnologica, consegnano ai posteri un brandello, appena, del colossale impeto demiurgico. Le sue proverbiali bestemmie tramutano oggi e col senno di poi, in graffiti disperati nel vuoto: sono la Volontà ch’alluviona di sé la musica, e che per far ciò la anima, partendo dalla divina sofferenza del parto della Prova. S’avverte, con Toscanini, che l’esecuzione musicale, principia da un austero sdegno di base, al pari della indignatio, foriera di poesia, di giovenaliana memoria; è, insomma, l’inveramento della profezia hegeliana secondo la quale l’arte deve essere intesa non come “giuoco meramente utile o dilettevole, sebbene come un continuo dispiegarsi della Verità”.

Si è detto che le esecuzioni toscaniniane si contraddistinguono per l’assoluta cristallina trasparenza delle parti, la quale fora la realtà sensibile, quasi che l’orchestra, in un bassorilievo classico, nel quale l’espressività soggiace alle regole naturali ferree dei microdosaggi d’ombre, in un ipercontrollato amalgama sonoro, rendesse la Chiarezza stessa “partecipe prima” del tutto. Allorquando il Direttore conduceva le opere, aboliva con piglio deciso la supremazia della voce, la quale, purtroppo, un tempo trascinava l’intero armamentario musicale nelle sabbie mobili dell’informe sproporzione, tirannicamente dettata dalla golosità affettiva particolare: in ciò Toscanini ha reso all’oggettiva espressività lirica la sua universalità; quella dimensione infinita e trascendente, insieme, che l’era stata sottratta dalla prassi irriflessa realizzando quella che in antico e forse inconsapevolmente era definita la Sezione Aurea. Altro particolare criticato e non indifferente, la Velocità di Esecuzione, per Toscanini, non è pura attesa del momento finale, scorrere del tempo come dimensione della musica verso un approdo, sibbene centro d’irradiazione della carica melopoietica insita nella creazione musicale allo stato di potenza, che supera il tempo, eternamente destinato a rivelare la propria insufficienza rispetto all’urgere dell’Intuizione. Significative, di Toscanini, le rasserenanti permanenze all’Isolino, sul Lago Maggiore: luogo d’indicibile raccoglimento, unico, dove risulta possibile ancora sperimentare l’antica dimensione panica della Natura. I tratti fisionomici suoi assumevano, in infinite differenti combinazioni, l’immane sforzo compiuto dal Significato per divincolarsi dalla Materia, della quale pure si serve, per manifestarsi nel sensibile, eternandosi, in fine. Le tragiche fotografie sue ultime lo ritraggono nello studio americano di Riverdale: v’appare anziano, affaticato sì, ma all’erta, come se nulla del mondo lo toccasse, nemmeno l’imminente fine, forse (anzi, sicuramente) presentita: la mimica eternamente scolpita nel volto della tragedia riassunta dall’Arte nell’estrema sintesi delle umane vicende. Francesco Ungaretti.

Di Francesco Ungaretti  

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