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TEATRO DEL FIUME presenta: “VAJONT, UNA RABBIA PIÙ GRANDE DELLA PIETÀ”

1 aprile 2014

Di F.T. De Nardi





Niente di meglio che assistere a uno spettacolo teatrale come “VAJONT, UNA RABBIA PIÙ GRANDE DELLA PIETÀ” scritto, curato, e presentato da Vilfred Elio Camillo Moneta e (con alcuni componenti del Teatro del Fiume) in una serata di pioggia, perché il terribile disastro del Vajont, merita le lacrime del cielo, anche se la giusta ambientazione, forse, dovrebbe essere la caldera in fiamme di un vulcano, perché come recita il sottotitolo, citando una frase della coraggiosa Tina Merlin, il Vajont dovrebbe veramente suscitare “una rabbia più grande della pietà”, al pari di tutte le disgrazie annunciate, chiamiamole terra dei fuochi, Seveso, le fabbriche dell'amianto, le discariche, l'inquinamento, l'edilizia abusiva, gli stupri, gli attentati: tutti questi accadimenti meriterebbero non pietà, ma una rabbia feroce nei confronti di chi li ha creati e voluti. Perché il Vajont è stato questo: uno stupro dell'uomo contro la natura, contro la montagna, contro l'ambiente, contro il buon senso. Ma quel che è peggio, appurata la responsabilità dell'uomo, alla fine, nessuno è stato punito. Gli unici colpevoli sono risultate le vittime, come succede spesso in questo tipo di sventure guidate dell'uomo.
Per porre rimedio a ciò, Vilfred Elio Camillo Moneta, regista e scrittore, ha messo in scena uno spettacolo molto particolare, che ha debuttato il 22 Marzo 2014, alle ore ventuno, presso l'auditorium di viale Caccianiga a Maserada sul Piave, accanto a Treviso.
Uno spettacolo - particolare e originale - perché non indugia sulla disgrazia in sé o sulla preparazione e ineluttabilità del disastro, ciò è già stato fatto, ma in un processo dei veri colpevoli, giudicati dalle vittime, in un aldilà che non guarda in faccia a nessuno. Ed il risultato è stato sorprendente, fresco, appagante. Quello di cui avevamo bisogno. Così dovrebbe essere anche la realtà. Cosa ci vorrebbe sulla Terra? Un po' di giustizia, niente altro. Questo è il messaggio di questo spettacolo.
A conclusione, aggiungo che lo spettacolo è più profondo della mia semplice disamina, perché in questa rappresentazione, in cui le donne di Longarone hanno molta importanza e spazio, vengono messe in scena “... una coralità di anime, di vittime e di voci - tutte defunte - che, in una dimensione ultraterrena, superano il trauma della loro tragedia e, con non poche difficoltà legate al descrivere il proprio vissuto (talvolta sommerso, talvolta nostalgico), riavvolgono il tempo all'indietro e affrontano con coraggio, uno per uno, i maggiori responsabili del più grave disastro dell'Italia moderna. In attesa di una sentenza che tolse alle vittime anche la giustizia da quello stesso processo che l'avrebbe dovuta far emergere, qui, finalmente, verrà dispiegato un processo umano, nella piena consapevolezza postuma di chi subì quel disastro: le persone. Per alcune anime c'è la difficoltà di riaprire le ferite e farle sanguinare nuovamente nel necessario incontro-scontro con quei poteri da sempre incapaci di ammettere le proprie colpe ma capaci di annichilire la verità o seppellire la giustizia. La sofferenza delle vittime qui evolve in indignazione informata e in rabbia consapevole, per mostrare quanto solo la profonda conoscenza dei fatti possa fare la differenza tra chi subisce e chi infligge. ...” . Un'ultima annotazione, di carattere drammaturgico. Come spettacolo in sé, la messa in scena non delude e non annoia un solo minuto.

Di F.T. De Nardi



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