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Numero 157

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Vittime, femminile plurale: la parola ai parenti

3 aprile 2017

Di Alberto Leoncini




La televisione è il mezzo di comunicazione monologico per definizione, quindi un soliloquio che ricalchi una immaginaria trasmissione è il primo gioco di rimandi che caratterizzano ‘Intervista ai parenti delle vittime’ scritto e diretto da Giuseppe Manfridi, ottimamente interpretato da Melania Fiore, rappresentato al Teatro dei Conciatori di Roma, in cui i piani prospettici della narrazione sono coerentemente valorizzati dalla regia luci di Erika Barresi.
L’attrice dipana con magistrale tenuta scenica un monologo che prende le mosse da un verosimile episodio di cronaca nera in cui le agghiaccianti trasmissioni contenitore pescano a piene mani: una ragazza bella e intelligente muore, dopo una prolungata dipendenza, di overdose sulla panca di una chiesa. Violando l’intimità della vittima e della sua famiglia, viene chiesto alla sorella sopravvissuta di raccontare del suo rapporto, divenendo essa stessa vittima del bulimico voyerismo catodico.
La difesa attivata dalla sorella sopravvissuta davanti alla telecamera è la maschera di una verità di comodo: nulla di quel che vorrebbe dire traspare all’esterno. Nulla sul tormentato rapporto con madre e sorella, nulla sulle sue debolezze, nulla sullo iato esistenziale creatosi in famiglia, in cui persino il funerale del padre diventa occasione per rinfacciare alla sorella morta le spese sostenute per la sepoltura.
Due vite piegate, una dalla dipendenza l’altra inaridita dalle contraddizioni mai risolte. Un viaggio crudo che affronta con spirito da ‘tragedia moderna’ due temi su tutti: l’intimità nella società dello spettacolo, simboleggiata anche dai vestiti che l’attrice cambia nel corso della rappresentazione, immagine efficacissima della reificazione dell’uomo e la religione con continui richiami a una dimensione spirituale, evocata ma immanente: immagini come il calvario, il banco di chiesa in cui la sorella muore, il braccio della croce, l’ostia. In una sorta di eucarestia laica la sorella diviene la vittima sacrificale da immolare sull’altare dello spettacolo, non per la salvezza dei molti quanto per la sopravvivenza del sistema che necessita di autoalimentarsi.
Un amore/odio, quello delle due sorelle, che se da un lato assume i contorni dello sfogo, dall’altro esorcizza il vuoto creato dalla scomparsa con la domanda su cosa effettivamente resterà nella memoria della sopravvissuta a distanza di tempo, quali immagini e ricordi continueranno a segnarne la vita perché, appunto, “la morte sigilla, e i sigilli non si toccano”.
Dopo la prigione esistenziale in cui la protagonista è stata lungamente confinata si liberano i sentimenti e le emozioni soffocate dalla corsa ad assecondare le deviazioni della sorella, giungendo quasi a rubare per soddisfarne i bisogni, dando vita a un lungo canto della sconfitta, evocata anche dalla parola ‘resa’ che echeggia, in una guerra emotiva ed esistenziale senza vincitori: senza velleità di denuncia sulle marginalità o di critica sociale e senza pietismo, la rappresentazione conduce lo spettatore nelle contraddizioni e nei piccoli drammi della quotidianità di cui gli episodi di cronaca nera sono solo la punta dell’iceberg, sul cui crinale scivoloso è facile trasformarsi in vittime.
Lo spettacolo può essere altresì visionato al seguente link:

http://www.e-performance.tv/2017/03/intervista-ai-parenti-delle-vittime.html

Di Alberto Leoncini



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