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Numero 139

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Estratto dal diario di Pietro Nichele, profugo della Grande Guerra, partito da Negrisia

7 ottobre 2015

A cura di Federico De Nardi- illustrazioni Alberto Dabrilli





...Nei giorni precedenti il fatidico giorno del 24 maggio, si notava un malessere in tutti per paura della guerra, ma con una grande speranza che la vertenza si svolgesse a tavolino. In classe il maestro (avevo 11 anni) non ne parlava apertamente, solo ribadiva la necessità di riunire l'Italia, una libera, comprendendo le terre di Trento e Trieste, ancora soggette allo straniero. A casa, mia madre e tutta la mia famiglia, appena ritornavo dalla scuola, mi domandavano subito le novità che avevo sentito. Quel triste giorno il 24 maggio, dissi: "mamma ormai è la guerra, è stata dichiarata oggi." Un'ondata di commozione fu per tutti, e alle donne giungevano le lacrime agli occhi. Provai un grande dolore anch'io e chiesi alla mamma tutto questo allarmismo, vedrai disse "quanti dolori e agonie ci riservirà in questo infauto tempo!". Il due gennaio 1916 accompagnai alla stazione mio padre che ebbe la cartolina di precetto di presentarsi alle armi, poi fu chiamato anche suo fratello Ferdinando a febbraio. Così con la partenza del padre essendo il maggiore e il solo maschio, aiutai mia madre per il lavoro nei campi e nella stalla e non andai più a scuola. In famiglia proseguiva bene il lavoro sotto la direzione di mia mamma Virginia.
Mio padre sotto le armi era stato destinato al servizio territoriale di artiglieria a Mantova fuori da ogni pericolo. Scriveva ogni settimana ed io attendevo con ansia le sue lettere e cartoline postali scritte a matita e così portavano a casa tutte le sue notizie. Lo zio Ferdinando era nel Trentino in zona di guerra nei servizi di vettovagliamento al fronte delle retrovie, ma sempre in pericolo.
Un mattino, nella nostra casa arrivarono degli ufficiali austriaci, chiamarono mia madre che era in cucina con gli altri familiari, e conoscenti ospiti, con 5 piccoli bambini. Con parole comprensisibili - italianizzate - l'ufficiale disse che quella era zona di guerra con operazioni militari e presto le batterie avrebbero cominciato a sparare. "Capite che qui è zona pericolosa, ed è meglio che vi allontanate?".
Con questo la mamma mi chiamò e mi ordinò di preparare la "carrettella", era un carro agricolo leggero, di caricare due sacchi di farina, uno di granturco e un altro di frumento, di mettere a stanghe per il traino la mucca grigia che era la più forte e buona della stalla, caricare tutti i bambini che erano le mie 5 sorelle, i tre bambini dello zio Ferdinando e i cinque bambini figli dei nostri ospiti, Maria Tonetto con il suo suocero e la mia nonna Giuseppina. Quindici in tutto, saliti sul carro, anche con alcune masserizie coperte e corredo modesto di cucina e aggiunse "con questo carico, devi stare molto attento, Pietro mi fido di te. Devi andare a Faè al molino Bonatto, chiedere di Attilio e dire che ti manda tua mamma Virginia, egli ti dirà tutto quello che devi fare come fosse tuo padre.".
Così, carico di questa responsabilità, attaccai bene al carretto agricolo a quattro ruote la buona mucca grigia e tenedola per la corda a piedi, mi avviai, io piccolo bambino di undici anni sempre con grande volontà di fare il bene, verso l'ignota via del profugato; erano le dieci del mattino dell'otto novembre 1917. Presi la strada che portava a Fossadelle, sempre in Negrisia poi per proseguire per Faè, frazione di Oderzo dove dovevo trovare il mulino di Bonatto Attilio. La strada delle Fossadelle passo attiguo alla villa Zambon, nostra conoscenza dove ero stato iscritto dal maestro Francesco Zambon alla prima elementare e dove avevo frequentato la seconda con la signora maestra Scappin. In tale località, sempre a piedi, con la corda della mucca in mano e con tutto il mio carico, incontrai una colonna di soldati austriaci con tutto il loro equipaggio di cavalli carri e cannoni e cucine, che orgogliosi della vittoria, andavano verso le sponde del Piave.
In quei giorni il fiume era fornito di molta acqua che avrebbe certamente contribuito ad arrestare la loro marcia. Pian piano arrivai a Faè, al mulino di Bonatto Attilio. Questo signore era un mutilato di guerra aveva perso un occhio e alcune dita della mano destra, oltre che nel corpo aveva molte schegge di bomba a mano. Abitava in quella casa in Faè comune di Oderzo, in affitto, ed era di proprietà del signor Tonello. Aveva sposato prima di partire per la guerra Maria Lorenzon, prima cugina di mia madre, figlia del mio pro zio Luigi Lorenzon, mio padrino di battesimo. Bonatto Attilio era anche nostro parente ed era un buon persona che aiutava tutti anche quando era difficile e complicato. Non potei entrare nel cortile del mulino Bonatto, era occupato dai molti soldati tedeschi, stavano facendo uno grande scavo piantando e mettendo orizzontalmente dei pali di robinia, dovevano formare una piazzola per un cannone da 305 ...
Parlai con Attilio che era nel mulino e con grande dispiacere mi disse che non poteva ospitarci perché era pieni di gente, parenti venuti da Negrisia e c'era il cannone posizionato nel cortile, i soldati e moltre altre pericolose conseguenze. Mi consigliò di andare dalla famiglia di Cattai Paolo in Oderzo, che oltre ad essere zia di tua zia Regina, ha una casa grande che ti può ospitare sicuramente. Così dopo aver rifocillato tutta la carovana di vecchi e bambini, io bambino tra bambini, colla mia mucca grigia per mano che trainava il carro carico di speranze umane, partii per via Fraine in cerca di Paolo Cattai.
Arrivai verso sera in casa di Paolo Cattai e trovai un buon uomo anziano, con i baffi bianchi, che mi seguì dietro il carro a piedi. Ci accolse molto volentieri e ci disse: "Volentieri vi ospito se vi accontentate di quello che posso, per far da mangiare in cucina con noi, e per dormire andrete nel granaio.". E questo mi sembrò una vera grazia. Così scaricai tutta la mia brigata di bambini, la nonna Giuseppina, Antonio Tonetto della Maria, le farine, le coperte e le masserizie varie e portammo tutto nel granaio. Con paglia e coperte preparai i letti; le donne si unirono alle altre buone donne; io faceva il capo famiglia Regina e la nuora Elvira. La brigata divenne più grande e ci sentivamo molto amici, ed io ero il capo spirituale di questa nuova esperienza.
Nella casa Cattai eravamo istallati alla buona: mangiare, dormire e giocare. Con mia sorella Angelina si andava per i campi a procurare l'erba e canne abbandonate di granturco per il cibo della nostra mucca, che mattina e sera, ci dava del buon latte per la colazione dei più piccoli. Il giorno 16 novembre, arrivò anche mia mamma che era rimasta ad accudire il bestiame nella stalla e la casa. Nei giorni successivi alla nostra partenza i soldati austriaci oltre che ad essere entrati in possesso di quasi tutta la nostra roba, avevano portato via il bestiame dalla stalla tutto il pollame; rimasero solo dei buoi grandi. La mamma, dopo aver fatto sosta da Bonatto per sapere dove eravamo finiti, ci raggiunse con la sorellina di quattro mesi Carmela (Marcellina?) alla famiglia Cattai. Fu una grande gioia rivedere mia madre sana e salva. La mamma inoltre ha portato migliore condizione di vita e di mangiare anche perché aveva più disponibilità di denaro e capacità di dirigere la famiglia fatta di quasi tutti bambini. Si legò subito in amiciza con la signora Elvira e sua suocera Regina, creando un clima di ospitalità e di cordiale collaborazione. Andavo in compagnia di mia mamma per le spese del cibo a Oderzo; andammo in un luogo dove i soldati austriaci avevano fatto un macello per abbattere il bestiame che requisivano nelle stalle delle famiglie, per il cibo dei i soldati austriaci che si accampavano sulla sponda del Piave. Il fronte italiano era costituito dalla terza Armata da Fagarè al mare, comandata dal Duca D'Aosta, che aveva posto il suo quartier generale a Mogliano Veneto. Da Fagarè al Montegrappa compreso lungo tutta la sponda del Piave era costituito dalla VIII Armata Comandata dal Generale Quariglio (?), rinforzata successivamente specie nella zona di Maserada-Salettuol da un reggimento inglese e da un americano, e sulla zona di Fener ai piedi del Grappa da parte di Francesi.
A quanto si sentiva da voci del popolo, la consistenza e resistenza operativa si era formata in seguito dal comando interalleati che si era tenuto, alla fine di novembre a Peschiera, alla presenza di un nostro Stato Maggiore con a capo il generale Diaz sostituto del generale Cadorna, di Sua Maestà Vittorio Emanuele III, il quale durante i ragionamenti sulle varie soluzioni di arrestare gli austriaci intervenne decisivo con le famose parole "Al Piave, al Piave per costituire il Nuovo Fronte per salvare la Patria". Inoltre ciò che ha favorito la nuova resistenza al Piave, è un altro fattore importante: i tedeschi un po' euforici e stanchi per la lunga marcia di inseguimento del nemico italiano con tre anni di guerra, posizione oltre che essere stanchi erano anche affamati per la scarsità di viveri.
Dopo tre mesi di sosta qui, dovemmo cambiare località perché il posto era diventanto pericoloso e un ufficile venne a dirci di andare verso il Friuli. Ringraziammo la famiglia Cattai e andammo a Navolè in un altra famiglia Cattai, fratelli di mia zia Regina, Giovanni-Battista e Bernardo. Gestiva questa famiglia la moglie di Battista Cattai, donna veramente di spirito matriarcale, di nome Virginia, come mia madre, e proveniva dalla famiglia di Oderzo. Dimostrò subito un grande affetto per tutti noi, ci rinforcillò con un buon cibo. Eravamo già stati annunciati per il nostro arrivo e così aveva già provveduto alla nostra sistemazione. Una parte restò nella casa di Regina; noi ci sistemò in una casa presso la signora Letizia che aveva una casa vuota con tre campi di terra. Letizia faceva la sarta e viveva sola, ci accolse volentieri per il periodo della durata del profugato. Ci siamo sistemati bene con il latte che dava la nostra mucca e lavorando il terreno. Io facevo sempre il capo pattuglia con mia sarella Angelina, sotto la severa direzione della mamma. Eravamo otto persone, la mamma Virginia, io Pietro, Angela, Giuseppina, Maria, Rita Carmela, e Marcellina la più piccola. Tredici anni il più grande e la più piccola di quattro mesi. La vita si presentava difficile perché i pochi risparmi erano finiti. La mamma si dava molto da fare per procurare il cibo, la carestia era grande e non si trovava nulla da comprare. Vicino a noi, nell'abitazione, si trovavano anche molti altri parenti di Negrisia compreso lo zio Luigi Lorenzon e anche il mugnaio di Bonatto Attilio. Questi con il suo animo generoso continuò ad aiutarci quando mia madre andava a bussare alla sua porta con soldi o senza, non andava mai via, a mani vuote. Noi due bambini più grandi lavoravamo la terra, a potare e irrorare le viti, piantare il granturco, curare la mucca che ci dava del buon latte, aiutavamo la nostra mamma, che dal mattino alle cinque si alzava a lavorare, e alla sera era l'ultima a coricarsi.
La notte del 26 marzo ci fu un feroce attacco aereo e le bombe ci caddero proprio vicino a casa. Non c'era la luna, era una notte buia e non hanno tenuto una buona distanza dalla strada e delle nostre abitazioni, abbiamo avuto un grande spavento e non centrarono l'obiettivo prescelto. Una notte dormii in stalla con la mucca perché c'era il passaggio dei soldati e avevo paura che ce la portassero via.
Non abbiamo mai avuto notizie di mio papà e dello zio Ferdinando. Avevamo sempre le solite preoccupazioni del lavoro nei campi, del cibo, finché non c'erano raccolti come zucche e granturco, c'era qualche opera che venivano ad aiutarci a tagliare l'erba e fare il fieno. Gli aeroplani italiani e inglesi facevano varie corse di esplorazione volano alti perché erano ostacolati dalla contraeree austriache. Cambiammo di nuovo casa, perché era pericoloso rimanere lì.
Andanno dalla famglia Lotto, che era molto numerosa di circa trenta persone. Altre che a noi qui sono arrivati anche altri profughi che cercavano di fuggire ai pericoli sempre continui. Si sentiva in continuazione sparare i cannoni. Tutti pensavamo ad una ritirata degli austriaci. La famiglia Lotto ci alloggiò nella stalla dei cavalli che in quel tempo era vuota. Nella notte scoppio il finimondo e mando in pezzi tutti i vetri della stalla che ci caddero addosso causandoci molte ferite. Appena cessato tutto il rumore, scappammo fuori e andammo nella cucina dei Lotto, ed eramo tutti riuniti a pregare. Dopo le preghiere ritornammo ai nostri giacigli, con l'aria fredda della notte. Al mattino seguente abbiamo saputo che è stata fatta saltare una polveriera e deposito di munizioni poco lontano. Si sapeva che gli austriaci erano in ritirata, ma non si aveva notizie degli italiani. Una mattina mia mamma decise che io e Angelina andassimo a vedere la casa in Cal d'Erba a Negrisia per vedere se la nostra casa non fosse sta bombardata, così avrammo potuto ritornare, finalmente. Abbiamo dovuto fermarci per la santa messa a Oderzo era la festa dei morti. Arrivammo nel pomeriggio, abbiamo visto a ancora in distanza che la nostra casa, con gioia, era in piedi. Quando siamo entrati in cucina c'erano i soldati che scopavano e pulivano.Tutto era in ordine. I soldati ci hanno preso in braccio e ci hanno abbracciati, dandoci da mangiare come hanno potuto chiedendoci notizie sul profugato e ci dissero di andare presto ad abitare nella nostra casa. Essi sarebbero rimasti ancora solo pochi giorni. In serata all'imbrunire siamo arrivati a Navolè dalla mamma portando buone notizie. Così nei giorni successivi ci preparammo per il viaggio di ritorno a Negrisia. Il giorno l'otto di novembre, giusto un anno dalla partenza con un carretto trainato da un asino trasportai le poche cose che avevamo, e la nonna Giuseppina, poi seguimmo nei giorni successivi con il resto della famiglia. Nella nostra casa tutti riuniti, ricominciammo a vivere, e in una parola attendere l'arrivo di papà e dello zio Fedrinando se erano ancora in vita. Nei primi mesi di gennaio 1919 abbiamo cominciato ad avere notizie del papà e dello zio, e attendevano felici il loro ritorno, dopo la vicenda della guerra, vittoriosi.

A cura di Federico De Nardi- illustrazioni Alberto Dabrilli



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