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Numero 114

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Chi ha tradito l’economia italiana?

1 settembre 2013

Di Alberto Leoncini



Casualmente mi è capitato fra le mani un libro di Piero Ottone dal titolo “Saremo colonia? O forse lo siamo già” edito nel 1997 per i tipi di Longanesi. Si tratta senz’altro di un testo affatto divulgativo e con un taglio giornalistico, tuttavia leggerlo ex-post è qualcosa di agghiacciante. Avendo cioè vissuto l’ultima stagione di sottomissione del nostro Paese a quell’intreccio di oligarchie nostrane e straniere, ma, ancor di più, vedendone la prostrazione morale conseguente all’assenza di un progetto di reale alternativa politica cui le forze “progressiste” hanno abdicato. Nel testo intervengono voci quali Gianni Agnelli, Leopoldo Pirelli o Cesare Romiti ed è stupefacente l’entusiasmo e la pervicacia con la quale viene da loro difeso il progetto di federazione/integrazione europea, poiché esso è perfettamente rispondente ai loro interessi capitalistico-speculativi.
La deterritorializzazione dei flussi economici e la razzia delle risorse materiali e culturali dei popoli sono tratti tipici del sistema capitalista, pertanto sarebbe compito delle sinistre a vario titolo denunciarli e contrastarne gli strumenti attuativi. Abbiamo invece assistito, da parte della sinistra a ogni latitudine dell’emiciclo, a una supina sudditanza nei confronti dell’Europa che appare inspiegabile alla luce del consenso che questa ha nel mondo- diciamolo pure con termine d’antan - dei padroni (da ultimo si veda il “documento per l’euro” redatto da Confindustria). Probabilmente è stato il più grave errore strategico dai tempi della sequela “fino alla morte di croce” al sistema sovietico.
Da tempo mi vado convincendo che il processo di federazione europea sia "un'arma perfetta" poiché si è rivelato come lo strumento ideale per scardinare i diritti sociali (o di seconda generazione) che, con enormi fatiche e strenui sforzi, erano prepotentemente entrati nelle costituzioni del secondo dopoguerra in tutti i Paesi. Nessuna nazione e tanto meno nessuna opinione pubblica sarebbe stata in grado di accettare una limitazione all'interventismo pubblico nelle economie così estesa, pervasiva e capillare come quella che il diritto di matrice comunitaria è riuscita a realizzare nel corso di una manciata di decadi peraltro su basi giuridiche assolutamente evanescenti.
Ciò basti a sfatare il mito di un supposto "europeismo buono" che avrebbe pervaso le origini di tale progetto, poiché la giurisprudenza della Corte di Giustizia di Lussemburgo (in realtà il vero motore dell'integrazione, certo con la succube acquiescenza degli Stati nazionali) ha sempre avuto un orientamento granitico e straordinariamente coerente (cosa molto rara da parte di organo giurisdizionale, solitamente incline a involuzioni, contraddizioni e perplessità congenite a quella difficile arte del "dire il diritto") nell'erodere e picconare le autonomie decisionali degli Stati. Non è casuale che già nel 1964 si trovi a contestare la nazionalizzazione dell'ENEL contro l'Italia e, solo sei anni più tardi, si esprimerà in questi termini nella celebre sentenza 11/1970 la cui adamantina chiarezza nella massima (il punto di diritto affermato) non lascia adito a dubbi sulle finalità perseguite dall'ordinamento comunitario nell'insieme. 
1 . LA VALIDITA DEGLI ATTI EMANANTI DALLE ISTITUZIONI DELLA COMUNITA PUO' ESSERE STABILITA UNICAMENTE ALLA LUCE DEL DIRITTO COMUNITARIO. IL DIRITTO NATO DAL TRATTATO, CHE HA UNA FONTE AUTONOMA, PER SUA NATURA NON PUO' INFATTI TROVARE UN LIMITE IN QUALSIVOGLIA NORMA DI DIRITTO NAZIONALE SENZA PERDERE IL PROPRIO CARATTERE COMUNITARIO E SENZA CHE SIA POSTO IN DISCUSSIONE IL FONDAMENTO GIURIDICO DELLA STESSA COMUNITA. DI CONSEGUENZA, IL FATTO CHE SIANO MENOMATI VUOI I DIRITTI FONDAMENTALI SANCITI DALLA COSTITUZIONE DI UNO STATO MEMBRO, VUOI I PRINCIPI DI UNA COSTITUZIONE NAZIONALE, NON PUO' SMINUIRE LA VALIDITA DI UN ATTO DELLA COMUNITA NE LA SUA EFFICACIA NEL TERRITORIO DELLO STESSO STATO. ( SENTENZA 15 LUGLIO 1964, CAUSA 6-64, RACCOLTA X-1964, PAG . 1129 ).
2 . LA TUTELA DEI DIRITTI FONDAMENTALI COSTITUISCE PARTE INTEGRANTE DEI PRINCIPI GIURIDICI GENERALI DI CUI LA CORTE DI GIUSTIZIA GARANTISCE L' OSSERVANZA. LA SALVAGUARDIA DI QUESTI DIRITTI, PUR ESSENDO INFORMATA ALLE TRADIZIONI COSTITUZIONALI COMUNI AGLI STATI MEMBRI, VA GARANTITA ENTRO L' AMBITO DELLA STRUTTURA E DELLE FINALITA DELLA COMUNITA . ( SENTENZA 12 NOVEMBRE 1969, CAUSA 29-69, PAG . 419 ).
Non si pensi che queste parole siano un episodio, una svista o per essere legulei un “obiter dictum” (dichiarazione di un principio giuridico che si vuol affermare senza necessario legame con il caso oggetto di sentenza) perché tale Corte ha preteso, nel corso del tempo di veder infranta la volontà del Parlamento (caso Factortame) o la forza vincolante del giudicato (Lucchini), tutti architravi dell’ordinamento giuridico non di questo o quel Paese ma dell’interno mondo occidentale e del costituzionalismo liberale. Sono stati dunque sconvolti canoni di convivenza che affondavano le loro radici ben prima della contemporaneità.
Il lato mefistofelico dell'operazione è stato però quello di presentare a quelle stesse opinioni pubbliche questa operazione come il più grande e desiderabile progresso cui esse avrebbero mai potuto ambire (muoversi senza confini, avere a disposizione più “opportunità di lavoro”, snellimento burocratico e uniformità tra gli ordinamenti anche nei piccoli adempimenti della “vita quotidiana”, usati evidentemente come specchietti per le allodole). Le costituzioni del secondo dopoguerra, quella italiana in particolare, sono dei potenti manifesti ideali nei quali viene tratteggiata- nell’insieme- una società in modo nitido e coerente vincolando in modo pressante parlamenti e governi a perseguire un'idea di comunità nella quale, a partire da determinati valori di riferimento, non si può più tornare indietro. Parlare di una “fratellanza nella famiglia del lavoro”, come recita l'Internazionale, non era più un coro per iniziare i comizi ma una finalità a portata di mano e, ancor più, un principio giuridico vincolante sancito dalla fonte più rigida ed elevata in rango. I milioni di morti del Novecento erano serviti: l'idea di una società libera dal bisogno e nella quale ogni individuo, proprio perché vi apparteneva, aveva la possibilità di espandere al massimo le sue potenzialità e l'obbligo, dall'altro lato, di rendere compartecipi i consociati dei suoi raggiungimenti in una prospettiva che potremmo definire mutualistica segna probabilmente il punto più alto di progresso e civiltà che l'uomo sia riuscito a raggiungere da quanto è apparso sulla terra.  E' mia opinione pertanto che sarebbe necessario, per le forze che tale sistema contestano, battersi non solo per una radicale revisione dei suoi assetti ma anche per congegnare un sistema di giustizia che possa in qualche modo punire i responsabili (molti) di questa situazione. Si tratterebbe insomma di concepire una "Norimberga europea" nella quale vengano chiamati a rispondere del loro operato i fautori dello scempio cui assistiamo oggi, in realtà la sola scena finale di un film che ci accompagna da almeno quattro decadi. A voler dunque andare a ritroso nella ricostruzione storica, può essere senz’altro utile la lettura di “Chi ha tradito l’economia italiana?” di Nino Galloni (Editori Riuniti University Press- € 15,00, pp. 166), un sondaggio che intreccia efficacemente la geopolitica con l’economia e la storia. Il testo è complessivamente godibile, anche se non di rado si riscontrano passaggi che necessitano una conoscenza mediamente approfondita di natura economica per essere compresi appieno. Opera che completa un interessante trittico che comincia con “Misteri dell’euro, misfatti della finanza” (Rubbettino) e continua con “Il grande mutuo” (Editori Riuniti), fino al testo di cui si discute.
Particolarmente interessanti alcuni aspetti: anzitutto l’esteso consenso che era dato riscontrare nell’immediato dopoguerra tra le forze politiche di ogni schieramento ed estrazione verso un interventismo pubblico idoneo a dare compiutezza ai diritti sociali: la insostituibile necessità di uno Stato non-neutro era dunque parte di un patrimonio collettivo acquisito dalla classe politica di allora, di ciò si parla in particolare nel paragrafo “La mancata attuazione della Costituzione e la sottrazione della politica all’elettorato”.
Ciò ha contribuito a creare quel modello fino ad allora inedito di economia mista che consentì un balzo in avanti di dimensioni mai viste nel corso di pochi anni: ne vengono tratteggiati i lineamenti principali in modo decisamente sintetico ma al contempo con rara precisione e completezza. Emblematico il titolo del paragrafo conclusivo del capitolo dedicato agli anni 60 e 70: “Un Paese che va troppo bene: bisogna ammazzare qualcuno”. Ovviamente il riferimento è allo spartiacque dell’omicidio Moro per tutti i carichi di significato che esso riveste in rapporto agli equilibri geopolitici, economici e istituzionali. Ciò che emerge in modo molto nitido è la martellante opera di manipolazione della realtà che i grandi media hanno da sempre portato avanti al fine di portarci dove siamo: l’idea di uno stato “brutto, sporco e cattivo” (l’autore cita il caso “Federconsorzi”, nel quale si scoprì, alla fine del fallimento, che l’attivo superava il passivo, cfr. p.61), di una congenita impossibilità di determinare le proprie sorti politiche e la necessità di essere “e(s)teroguidati” per fare le scelte “migliori” ci sono state inculcate con le buone e, ancor più spesso, con le cattive sulla scorta del presunto “prezzo da pagare” per la sconfitta bellica. Al di là del fatto che in Italia vi sia stato un forte movimento di liberazione e di resistenza, ciò che appare demenziale è perseverare in una linea politica le cui motivazioni si innestano (o si innesterebbero…) su fatti accaduti quasi settant’anni fa nell’epoca in cui l’obsolescenza si misura in mesi se non in settimane!
Galloni è accorto a specificare in più punti del testo che il ripensamento in una chiave nazionale delle dinamiche politico-economiche nulla ha a che vedere con una chiusura autotrofica o neoautarchica, bensì sarebbe solo l’adattamento alla temperie attuale degli strumenti più basilari del diritto internazionale: la reciprocità, le condizioni paritarie per le interazioni e la natura pattizia delle stesse. Egli, forse ingenuamente, cita in più occasioni un documento del Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace caldeggiando “un’autorità pubblica a competenza universale” in grado di correggere le storture della globalizzazione (egli cita le tutele ambientali e quelle del lavoro). Tuttavia verso la fine del testo si premura di specificare che: “I veicoli di tale competenza universale non possono che risultare gli stati nazionali, i quali non dovrebbero venir depotenziati, ma raccogliere le istanze di coloro che evidenziano l’impossibilità di reali soluzioni fuori da un quadro di leale e coraggiosa collaborazione internazionale” (p. 121)
È bene ricordare, in ogni caso, che le organizzazioni sopranazionali attuali (FMI, WTO, NATO, Banca Mondiale…Senza omettere l’indimenticata UE) nulla hanno di “pubblico”, essendo semplicemente i bracci operativi di ben specifici burattinai riconducibili alla cupola bancario- assicurativa e alle multinazionali dell’energia, delle armi/aerospazio e difesa, della grande distribuzione, della tecnologia e del manifatturiero: costoro sono senza dubbio “i padroni del vapore” del ventunesimo secolo e le “autorità politiche” non sono altro se non i loro proconsoli, come è ormai facile riscontrare in un vasto numero di Paesi a partire dal nostro.

Di Alberto Leoncini



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Mensile telematico sul Veneto e Triveneto: Cosa fanno i veneti dentro e fuori d'Italia, nella cultura, nella fotografia, nel turismo, nel cinema, nell'arte,nell'economia. Registrato con il n° 3104 del Registro Stampa, presso la Cancelleria del Tribunale di Treviso il 19/02/2004.
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