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Teatro dietro le quinte: intervista a Samantha Silvestri, attrice trevigiana

1 settembre 2014

Intervista a cura di Alberto Leoncini





Precariato, lavoro gratuito o sottopagato, scarsa considerazione delle professioni intellettuali… Compiamo oggi un viaggio-testimonianza nel mondo teatrale con una promettente attrice trevigiana trapiantata a Roma, Samantha Silvestri, che accetta di raccontarci ‘gioie e dolori’ della professione nella quale sta muovendo i primi, significativi, passi.

Intanto, cosa significa essere giovani attori, oggi? Per la percezione che hai, ritieni che vi sia una maggiore difficoltà a emergere rispetto al passato?
Già questi sono vocaboli che non mi appartengono. Ho vissuto una vita finora impegnativa ma altrettanto normale. Mi è sempre stato insegnato che “il lavoro nobilita l’uomo”; amo il primo articolo della Costituzione italiana e cerco di rispettarlo ogni giorno, così come quarto laddove si dice che ogni cittadino ha il dovere di svolgere un’attività che concorra al progresso materiale o spirituale della società. Per questo non credo di essere “promettente”, di essere in procinto di “emergere” ma credo nel lavoro quotidiano, metodico, continuo e soprattutto sincero. Allenarsi ogni giorno, studiare, informarsi, scrivere, pensare, riflettere, parlare…
Forse non saprei bene fare differenze col passato. Ancora non mi è chiaro il presente! Sicuramente fino a qualche anno fa la categoria “attore” era maggiormente tutelata da un contratto nazionale più coerente coi tempi che correvano, da possibilità di lavoro in produzioni più audaci ma professionali. Siamo l’epoca dei tutorial, dei “corsi intensivi flash formula week end, impari tutto subito”, dunque tutti si improvvisano esperti di qualunque mestiere e tutti vogliono imparare rapidamente. Invece ogni lavoro va appreso con i giusti tempi, con una significativa pratica sul campo e va conquistato a poco a poco.
Se si tornasse a questi modelli basilari chiunque “emergerebbe” e sarebbe “promettente” per la nostra società.
Essere giovani attori può significare tante cose, non dipende che attore sei, ma da che giovane sei. Io faccio tante audizioni. Non mi perdo nessuna possibilità di mettermi alla prova. Mi alleno fisicamente e mentalmente. Mi deprimo quando non passo i provini, vivo con ansia ogni chiamata dell’agente che mi avverte sempre troppo tardi di un casting fondamentale, ripeto la parte da sola davanti allo specchio sentendomi una emerita idiota. Poi se vengo selezionata per un progetto nuovo studio tutto il possibile sull’argomento in questione e... la cosa più bella, il lato più entusiasmante del mio lavoro è osservare le persone, studiarle ma senza giudizio, senza neanche porsi troppe domande sui loro atteggiamenti. Ecco essere GIOVANI -ATTORI significa sempre e comunque amare l’Umano.
Cosa pensi possano fare le figure del precariato intellettuale, giovanile ma non solo, per reclamare i propri diritti e una maggiore considerazione dell’impegno profuso? Vedi prospettive e margini per una strategia unitaria con altre categorie, non solo artistiche, accomunate dalla stessa condizione?
Per quanto riguarda la mia, seppur minima, esperienza, lavorare nel campo dello spettacolo significa accettare la condizione del precariato! I contratti sono comunque legati alla stagione, all’evento, alle serate o agli ingaggi per pose occasionali o produzioni a termine sempre determinato. Questo ti porta a vivere la vita in modo instabile e incerto ma questo lavoro è così, e va accettato con la giusta serenità (oppure ci si iscrive ad un buon corso di Yoga!) .
Per quanto invece riguarda il precariato intellettuale giovanile di alcuni miei coetanei, impegnati in altri settori culturali, sono giunta ad una conclusione, ultimamente: non dobbiamo più accettare queste condizioni. Basta farci sottomettere in stage e tirocini farlocchi, basta lavorare gratis o con il minimo rimborso spese. I veri cambiamenti devono arrivare dai nostri consapevoli rifiuti, non dalle nostre silenziose accettazioni. Dobbiamo denunciare, rompere le scatole, pretendere con rispetto, conoscere sempre quali sono i nostri diritti, insegnare come si fanno le cose perché il nostro Paese è anziano quindi va guidato nella giusta direzione.
Arte drammatica e impegno sociale, la tua tesi di laurea è stata sull’esperienza del teatro nel carcere di Padova, hai interpretato il tuo primo monologo sul tema del femminicidio, cosa può fare il teatro per migliorare la società? Qual è il ruolo del teatro nel terzo millennio?
Il teatro educa alla bellezza della comunicazione in carne ed ossa e alla condivisione di un tempo poetico, di un “hic et nunc” sospeso tra la realtà fisica degli attori con gli spettatori, in un luogo stabilito, e la finzione degli eventi narrati. Teatro nel terzo millennio significa partecipare ad un evento irrepetibile creato da chi dona se stesso per vivere: ovvero l’attore. Nell’epoca della sovra- comunicazione digitale di contenuti il teatro vince perché gioca la carta della qualità. Anche il cinema a dire il vero. Oggi il mondo video offre delle possibilità artistiche di espressione d’altissimo livello e spesso dietro queste bellezze si nascondono dei giovani volenterosi che offrono tutto il loro impegno per generare bellezza.
Bellezza è narrazione in teatro e questo me l’hanno insegnato i miei colleghi attori detenuti maghrebini. Passavo ore intere ad ascoltare i loro straordinari racconti e mi facevo ipnotizzare dalle loro capacità espressive.
Scegliere poi argomenti di forte denuncia sociale (tipo il femminicidio) è tipico nell’arte. Frida Kahlo con i suoi quadri ha compiuto più atti politici di un qualunque leader di governo perché l’arte, in generale, contribuisce alla maturazione della coscienza collettiva attraverso l’arma letale della Bellezza.
Come risponderesti a chi dice che il teatro si rivolga a un pubblico già colto e quindi già sensibile ai problemi denunciati, senza portare a una reale maturazione civile?
Chi dice un’insensatezza del genere o frequenta i teatri sbagliati o non li frequenta proprio quindi gli direi “vieni a teatro con me e poi ne riparliamo”.
La soddisfazione più bella finora ottenuta?
Sono indecisa tra il riconoscimento che ho ricevuto al MIFF l’anno scorso o tra il ricordo di una signora che un giorno mi bussò al camerino e mi lasciò una lettera commovente, che ancora conservo, in cui mi rivelava che era venuta a vedere il mio monologo perché aveva subito violenze domestiche da suo marito. È stata una doccia fredda. Ma una significativa soddisfazione.

Intervista a cura di Alberto Leoncini



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Mensile telematico sul Veneto e Triveneto: Cosa fanno i veneti dentro e fuori d'Italia, nella cultura, nella fotografia, nel turismo, nel cinema, nell'arte, nell'economia. Registrato con il n° 3104 del Registro Stampa, presso la Cancelleria del Tribunale di Treviso il 19/02/2004.
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