La lettera “inedita” di Salgari che rendiamo nota farebbe la felicità di Paco Ignacio
Taibo II. Quando lo incontrammo nel 2011, l’anno del centenario della morte dello
scrittore, avemmo modo di parlare con lui della nostra biografia1, scritta a due mani,
che probabilmente con tutte le cose che gli passano per la testa e con il suo interesse
per i grandi personaggi della storia messicana (e forse per la difficoltà della lingua)
dubitiamo abbia mai letto. Non ci sembrò affatto contento di quanto gli anticipammo.
Ci parve che il Salgari, liberale illuminato e monarchico, anti-francese, come molti al
suo tempo, e ammiratore del modello britannico non gli andasse a genio. Noi,
peraltro, siamo convinti che non sempre l’opera coincida con le passioni politiche
dell’uomo, Emilio. Infatti, la poetica salgariana si spinge ben al di là delle aspettative
dei suoi contemporanei. E noi Italiani, figli del melodramma, mediterranei, amiamo
come i latino americani gli eroi forti e passionali.
Il testo della lettera di Salgari dovrebbe far felice Taibo II perché, forse per la prima
volta, in essa si fa riferimento a Giuseppe Garibaldi.
Lo sappiamo che molti si sono spesi per iscrivere Salgari tra le file garibaldine,
numerosi e audaci i tentativi di trovare connessioni tra bandiere al vento e camicie
rosse di tigrotti e garibaldini, tra Sandokan e Garibaldi… A noi sembravano allora, e
ancor più lo sembrano ora, pensieri generosi ma temerari.
È successo che mentre andavamo cercando, in Biblioteca, altro materiale di studio, il
fantasma di Salgari (e non è la prima volta che capita), ci abbia messo sotto gli occhi
una lettera che non conoscevamo o che, data l’età, non ricordavamo di aver mai letto
1 Claudio GALLO, Giuseppe BONOMI, Emilio Salgari. La macchina dei sogni, Milano,
prima. Forse a Taibo II segnalata direttamente dal Paradiso degli scrittori, magari da
quell’Angelo Custode pentitosi della propria negligenza il 25 aprile 1911.
Veniamo a ciò che interessa il lettore appassionato, nostro sodale, e amico del grande
scrittore e lasciamo la parola ai fatti, dei quali siamo mediatori soddisfatti.
La sera di domenica 30 agosto 1891 il cronista Salgari si trovava nel giardino della
Società Filodrammatica Alfieri per la quale recitava l’amata Ida, sua prossima
moglie. La fanfara di un’altra società, la Speranza, suonava vari brani musicali tra cui
anche l’Inno di Garibaldi. Lo ricordate? A noi scolaretti delle elementari ce lo
facevano cantare in anni non proprio remoti:
All’armi! All’armi!
Si scopron le tombe, si levano i morti,
I martiri nostri son tutti risorti:
Le spade nel pugno, gli allori alle chiome,
La fiamma ed il nome d’Italia sul cor.
E concludeva:
Va fuora d’Italia, va fuora ch’è l’ora!
Va fuora d’Italia, va fuora, o stranier!
L’Inno era stato composto nel 1858 dal marchigiano Luigi Mercantini, il poeta de La
spigolatrice di Sapri, e musicato dal govese Alessio Olivieri, capo musica del 2°
reggimento della Brigata Savoia, ma sul finire dell’Ottocento e anche per gran parte
del Novecento lo si suonava un po’ dappertutto. Un solerte delegato di Pubblica
Sicurezza, al tempo in cui imperava la Triplice Alleanza tra gli imperi di Germania e
Austria e il Regno d’Italia, ritenne ciò assai sconveniente e convocò il presidente
della Società Speranza nell’ufficio della Sezione di Pubblica Sicurezza di Veronetta
per un richiamo ufficioso.
Salgari trovò sconcertante il comportamento del funzionario e ne parlò qualche
giorno più tardi sull’”Arena” con un titolo non equivocabile: L’Inno di Garibaldi
proibito a Verona.
Nel 1891 la Sezione di P. S. di Veronetta era composta da: Gaetano Sangiovanni (ispettore), Luigi Colombo
adova Giulio Cesare (delegati).
Ecco il testo:
Il seguente fatto meritava davvero di venire narrato per dimostrare come certi
funzionari di P. S. intendano la libertà.
Domenica nel giardino della Società Filodrammatica V. Alfieri, in occasione di
una serata d’onore, la brava fanfara della Speranza diede un concerto suonando
vari scelti pezzi fra cui, per richiesta del pubblico, l’inno di Garibaldi.
Orbene, lo credereste, quell’inno suonato da tutte le Bande, perfino dalle militari,
nei teatri, nelle piazze, dovunque insomma, ha fatto arricciare il naso ad un
funzionario di Pubblica Sicurezza.
Infatti essendosi ieri il presidente della Società recato all’ufficio di P.S. di
Veronetta, si ebbe una lavatina di capo per non aver proibito che venisse suonato
l’inno di Garibaldi!!! [A Salgari piacciono i punti esclamativi, n.d.a]
Non facciamo commenti. Diciamo semplicemente che ciò è enorme.
Come in tante altre vicende giornalistiche in cui fu coinvolto, gli interessati lo
smentirono perché a Verona certe cose è sempre meglio non dirle ed evitare di menar
scandalo, costume sempre attuale.
Ecco cosa scrisse, e vale la pena di leggere tutto l’articolo, al quotidiano concorrente,
“L’Adige”, il presidente dell’Alfieri che ben doveva conoscere Salgari, moroso di
Ida, prima attrice della compagnia amatoriale, e assiduo frequentatore delle recite.
L’Arena ha fatto un casus belli per l’asserita proibizione
dell’Inno di Garibaldi che sarebbe stata fatta da un delegato di
P.S. ad una fanfara che suonava nella sede della Società
Filodrammatica Vittorio Alfieri.
Ora ciò non è punto vero. Sussiste solo che il delegato di P. S.,
raccomandando al Presidente della Società, che non si
protraessero i suoni e i clamori oltre l’ora prescritta, ricordò ad
esempio che una sera ad ora ben tarda, cioè dopo la mezzanotte,
erasi suonato l’inno di Garibaldi.
Ce lo conferma la lettera seguente che, pregati, pubblichiamo:
All’On. Direzione
Del giornale l’Adige
Verona.
[Emilio SALGARI], L’Inno di Garibaldi proibito a Verona, “Arena”, sabato-domenica 5-6 settembre 1891.
A rettifica dell’articolo apparso ieri nel giornale l’Arena, io
sottoscritto dichiaro che dal sig. Delegato di P. S. di Veronetta, non
ebbi lavata di capo, per non aver proibito alla fanfara Speranza il
suono dell’inno di Garibaldi, ma sibbene mi fu dal predetto
funzionario fatto notare, che il vicinato aveva prodotto dei reclami per
i troppi frequenti e prolungati suoni ad ora tarda, e con moti urbani mi
pregava ad attenersi per lo innanzi alle prescrizioni di legge: cioè il
terminare detti suoni alle ore 11 p.
In quanto poi all’inno di Garibaldi venne solo nominato siccome fu
l’ultimo in quella notte suonato circa le ore due ant.
L’articolo di ieri fu parte d’una mala interpretazione.
Tanto per la pura verità e nell’incontro pregiomi attestarle io
sentimenti della più alta stima e considerazione.
Ringraziandola
Verona 6 9 91[6 settembre 1891].
Il presidente
Della società «V. Alfieri»
Cristini Guglielmo.
A questa edulcorata puntualizzazione Salgari non ci stette e raccontò come erano
andate in affetti le cose.
In una lettera pubblicata sull’Adige di stamane, il signor Cristini
presidente della società V. Alfieri, non parendogli fosse
sufficiente quanto scrissi ieri, senza smentire che la prima
notizia l’ebbi precisamente dalla sua bocca, e tal quale la scrissi,
dichiara «che non ebbe mai una lavata di capo per non aver
proibito l’inno di Garibaldi» aggiungendo quindi «che l’articolo
comparso l’altro ieri nell’Arena fu un parto di mala
interpretazione».
Che quel signor delegato abbia solamente accennato all’inno di
Garibaldi, senza aver con ciò inteso di volerlo proibire, io ne
sono convintissimo, ma che il signor Cristini mi venga ora fuori
a dire che non ebbe mai lavate di capo – o rimprover[i] se crede
che così sia meglio – per non aver proibito l’inno di Garibaldi
come io asserii nell’articolo pubblicato sabato, questo poi no.
Se il signor Cristini bene si ricorda, venerdì sera, appunto nella
Società Alfieri, alla presenza del signor Giovanni Bolgia e
moglie proprietarii del locale, e dei soci signori Rovato e
Boldrini e di altre persone che ora non rammento, mi dichiarò
chiaro e tondo che da un delegato di P. S. era stato rimproverato
per aver lasciato suonare l’inno di Garibaldi.
La fiaba dell’Inno, “Adige”, 7 settembre 1891.
E che avendogli io detto: − Guardi che pubblicherò la notizia sul
giornale – sempre in presenza delle suddette persone mi rispose:
− Le assicuro che mi hanno rimproverato perché non proibii
l’inno.
Che il signor Cristini, impressionato ora del rumore sollevato
dall’articolo, cerchi di attenuare la gravità della notizia o che
ripensando bene alle parole dettegli dal delegato siasi persuaso
di aver compreso male e di essersi spiegato male con me, può
anche darsi, ma che mi venga a dire non essere vero quanto mi
affermò alla presenza delle suddette persone, io non posso esce
in una spallucciata, strizza l’occhio.
− Veda lei, maestro, come può far meglio. Ci siamo intesi, maestro.
Il maestro rientrando nella cavea alza lo sguardo alla montagna
delle gradinate che ribolle, tutta in piedi; anche il pubblico capisce:
non fa in tempo a sbocciare dagli ottoni la prima nota dell’inno, che
il pubblico, tutto in piedi ancora, applaude, canta, piange, anche mio
padre ha fatto gli occhi lucidi: evviva, evviva, grida anche mio
padre, una voce che trema proprio come se piangesse; quando l’inno
è cessato e il sipario si rialza un enorme applauso straripa:
Garibaldi, l’Italia, il primo attore rivendica contro l’efferatezza di
Torquemada l’anelito alla libertà di tutti gli oppressi, lo Stenterello
che dà lo sgambetto al boia vestito di rosso, il quale vacilla,
incespica, ruzzola dentro la botola, in un abisso dal quale non
riemergerà fino alla prossima domenica che il dramma dovrà essere
a richiesta generale replicato, tutta una cosa che lievita e gonfia nel
cuore delle gradinate.
Non certo la prima volta, ché le cronache giornalistiche di Salgari venivano messe in
discussione attraverso l’“Adige”. Era già accaduto a causa di liti tra le società
sportive, o di quella provocatoria e strumentale richiesta di un «Viva Garibaldi»
durante una piacevole passeggiata di ginnastica. Persino in occasione del duello con
Giuseppe Biasioli, forse l’unica volta in cui Salgari aveva mentito spacciandosi per
capitano di gran cabotaggio. Gli anni sono passati, è un uomo maturo, un serio
professionista e perciò rivendica con forza la correttezza del suo operato6.
Correvano ben altri tempi e dobbiamo convenire che egli avesse grande rispetto per la
storia risorgimentale che aveva condotto alla nascita del Regno d’Italia e per i
personaggi che l’avevano resa possibile, compreso l’Eroe dei Due Mondi. Quel
«Viva Garibaldi» a suo tempo contestato era la semplice richiesta di non trasformare
una felice scampagnata in una baruffa politica. Può essere che, al pari di molti
Armando MEONI, Età proibita, Firenze, Vallecchi, 1958, pp. 197-199 [cap. XIX, Spettacolo diurno].
Per le dispute giornalistiche vedi anche: GALLO, BONOMI, Emilio Salgari…, cit., pp. 102-131.
italiani, diffidasse dell’alleanza con l’antico nemico, l’Austria. Anche per lui l’Inno
era l’espressione viva e forte di chi perorava sinceramente la causa nazionale.
Paco Taibo II, se avrà tempo e voglia, dirà la sua. Magari leggerà qualche pagina di
Armando Meoni per capirne di più. Noi, però, lo immaginiamo sorridere sornione
sotto i suoi grandi baffi convinto di avere avuto almeno un po’ di ragione. Salgari, in
camicia rossa, l’avrebbe ben visto cavalcare con Pancho Villa, e al fianco di Peppino
Garibaldi, nipote errabondo della nostra icona nazionale, nell’assedio e presa di
Ciudad Juárez, il 10 maggio del 1911. Peccato, un vero peccato, che Emilio avesse
intrapreso un altro cammino, pochi giorni prima.
A cura di Federico T. De Nardi